L’11 novembre ricorre il bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij: un anniversario penalizzato dall’eccesso di celebrazioni dantesche di quest’anno. Per ricordare l’opera del grande romanziere russo, vale la pena ripercorrere la genesi del suo ultimo e più famoso romanzo, la prima traccia del quale si trova in un abbozzo del 13 settembre 1874, intitolato Dramma a Tobolsk, e ispirato a un fatto avvenuto nel 1845 nell’omonima città della Siberia.

Errore giudiziario

Il padre di un ufficiale dell’esercito di nome Dimitrij Ilinskij era sparito misteriosamente, e il suo cadavere era poi ricomparso dopo qualche tempo. In seguito a un processo indiziario il militare era stato condannato a vent’anni di lavori forzati e mandato a scontare la pena nel campo di concentramento di Omsk, a qualche centinaio di chilometri di distanza.

Nel 1849 anche Dostoevskij era stato condannato ai lavori forzati a Omsk, per sedizione. Il suo viaggio di trasferimento nella colonia penale fece tappa a Tobolsk, dove il prigioniero ricevette in regalo da alcune pie donne un Vangelo che lo accompagnò per il resto della sua vita. A Omsk scontò poi i quattro anni di pena che descrisse nelle Memorie dalla casa dei morti (1862), e vi ambientò i capitoli finali di Delitto e castigo (1866).

Nelle Memorie Dostoevskij racconta di aver incontrato nel campo di lavoro il parricida Ilinskij, internatovi già da cinque anni, e di essersi stupito della sua totale mancanza di rimorso. Ma aggiunge di aver saputo in seguito che Ilinskij, dopo aver scontato dieci anni di pena, aveva riottenuto la libertà perché in punto di morte il fratello l’aveva scagionato, rivelando di esser stato lui a pagare un sicario per uccidere il padre. L’intera vicenda di questo errore giudiziario, che aveva tenuto così a lungo in un campo di lavoro un innocente, confluì nel citato seguente abbozzo del 1874.

Dramma. A Tobolsk, circa vent’anni fa. Un po’ come nel caso Ilinskij. Un anziano padre, due fratelli: uno ha una fidanzata, di cui l’altro è segretamente e invidiosamente innamorato. Lei ama il più vecchio, un giovane luogotenente, che però vive una vita dissoluta e allegra. Bisticcia col padre, che scompare, e per molti giorni non se ne hanno più notizie. I fratelli discutono dell’eredità. Improvvisamente arrivano i poliziotti: hanno riesumato il cadavere in cantina. I sospetti puntano sul più vecchio, che viene processato e condannato ai lavori forzati. Ma le prove sono state accuratamente fabbricate dal più giovane, che non viveva con loro. Il pubblico si divide su chi sia il colpevole”.

È un riassunto già abbastanza fedele della trama poliziesca de I fratelli Karamazov (1880), anche se l’ufficiale Dimitrij non fu l’unico modello per l’omonimo fratello. Un altro derivò da uno dei protagonisti della prima opera di Friedrich Schiller, I masnadieri (1782), che aveva molto colpito Dostoevskij da ragazzo, quando l’aveva vista rappresentata in teatro a dieci anni. L’opera è esplicitamente citata dal vecchio Karamazov, che nel colloquio con lo starec Zosima paragona sé stesso e i propri figli ai protagonisti del dramma di Schiller.

La trasposizione

Ne I fratelli Karamazov la Tobolsk dell’abbozzo diventa però Staraja Russa, un villaggio situato più o meno a metà strada tra San Pietroburgo e Mosca, nel quale Dostoevskij trascorse le vacanze estive con la famiglia negli ultimi anni della sua vita. Il luogo dell’azione è citato un’unica volta, a circa due terzi del romanzo, con l’ironico nome di Skotoprigonevsk, “Recinto di bestiame”. Ma Ljubov Dostoevskaja conferma, nei Ricordi di una figlia (1920), che si trattava di Staraja Russa: «La casa di Fëdor Karamazov era la nostra dacia, senza troppi cambiamenti. La bella Grushenka era una ragazza della provincia, che i miei genitori conobbero a Staraja Russa. Il mercante Plotnikov era il fornitore prediletto di mio padre».

In realtà la “bella Grushenka”, l’usuraia il cui fascino seduce sia il figlio Dimitrij che il padre Fëdor, ricalca in parte anche Apollinaria Suslova, la manipolatrice studentessa che nel 1863 accompagnò Dostoevskij in Germania a giocare alla roulette, e ispirò le dark ladies di tutti i suoi successivi romanzi, da Il giocatore (1866) in poi.

Oltre a contrapporsi al padre a causa di Grushenka, Dimitrij si contrappone anche al fratello Ivan a causa della propria fidanzata Katerina Ivanovna, che ama entrambi: uno per riconoscenza, e l’altro per sentimento. Dal canto suo, Ivan si contrappone spiritualmente all’altro fratello Alioscia in un serrato dibattito filosofico e teologico: Ivan è infatti un libero pensatore, mentre Alioscia è un monaco ortodosso. Ma nel loro confronto Dostoevskij non rimane affatto neutrale, perché nel romanzo schiera dalla parte di Alioscia il santo Zosima e i suoi beati monaci, e dalla parte di Ivan il fratellastro Smerdjakov, parricida e suicida, e addirittura il diavolo.

Visione esistenzialista

La sua visione esistenzialista e religiosa del mondo, peraltro ripetuta ad nauseam in tutti i suoi ultimi romanzi, da Delitto e castigo a I fratelli Karamazov, è basata su due sillogismi: il primo, vero e ovvio, è che la scienza porta al materialismo e all’ateismo, mentre il secondo, falso e assurdo, sarebbe che l’ateismo porta all’immoralità e all’arbitrio.

I due sillogismi pervadono l’intero romanzo, ma sono esposti nel modo più efficace e memorabile nel quinto libro, Pro e contra, che lo stesso Dostoevskij individuava come il «punto culminante» de I fratelli Karamazov. Lo disse chiaramente in due lettere del 1879, in cui sottolineava che l’essenza della posizione di Ivan è «la negazione non tanto di Dio, ma del senso del mondo». E che il suo personaggio «si serve di un argomento per me incontrovertibile, e cioè l’assurdità delle sofferenze dei bambini, deducendone l’assurdità di tutta la realtà storica».

La sottolineatura personale di quel “per me” ricorda che proprio un anno prima, il 16 maggio 1878, Dostoevskij aveva perso il figlio Alioscia, morto a soli tre anni per un attacco dell’epilessia che aveva ereditato dal padre. Nella sua discussione con l’omonimo fratello Alioscia, però, Ivan fa invece riferimento non tanto alle malattie inflitte ai bambini da Dio, quanto piuttosto alle violenze perpetrate contro di loro dall’uomo, dalle semplici percosse alle vere e proprie torture. E nelle due lettere citate Dostoevskij dichiara che i terribili esempi fatti da Ivan, compreso quello dei cani aizzati da un generale in una caccia a un bambino, sono tutti presi dalle cronache giornalistiche dell’epoca.

Ivan non collega però il suo argomento alla teodicea: cioè, al problema di come sarebbe possibile il male, se esistesse Dio. Di fronte al fratello monaco cita apertamente il deista Voltaire: «Se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, ed effettivamente l’uomo l’ha inventato». Ma conferma di essere turbato più dall’irrazionalità del mondo che dall’esistenza di Dio: «Non è che non accetti Dio, è il mondo da lui creato che non accetto, e non posso piegarmi ad accettare».

Subito dopo il colloquio con Alioscia, che gli ha lasciato l’amaro in bocca, Ivan si imbatte in Smerdjakov, che lo manda fuori dai gangheri con il suo atteggiamento solidale e quasi complottista, riassunto nel motto: «Con un uomo intelligente anche due chiacchiere sono interessanti». Il fratellastro mette in guardia Ivan sul pericolo che l’odio di Dimitrij verso il padre possa degenerare in un delitto, e gli consiglia obliquamente di non andarsene, per non lasciare via libera al primogenito. Consiglio che egli non seguirà, e che Smerdjakov interpreterà come un tacito avallo all’uccisione del padre, salvo suicidarsi quando capirà di averlo frainteso.

Ivan aveva già esposto le conseguenze etiche della propria sfiducia nel mondo nell’iniziale riunione di famiglia tenuta nella cella dello starec Zosima, affermando sostanzialmente che «se Dio non esiste, allora tutto è permesso», compreso il delitto. Questa famosa frase non si trova nelle opere di Dostoevskij, ma riassume bene il suo pensiero, e in L’esistenzialismo è un umanesimo (1946) Sartre la definì «il punto di partenza dell’esistenzialismo».

Colpevoli e peccatori

In conclusione, ne I fratelli Karamazov Dostoevskij ha congegnato una situazione paradossale, con quattro fratelli che possono essere tutti sospettati di parricidio. Il primo, Dimitrij, per un contenzioso sull’eredità della madre, che il padre aveva rapita, bistrattata e costretta a fuggire con il figlio, poi adottato da un servo di famiglia. Il secondo e il terzo, Ivan e Alioscia, per essere stati rifiutati dal padre e allevati da dei benefattori dopo la morte della madre, anch’essa da lui rapita e poi impazzita. E il quarto, Smerdjakov, per l’odio verso un genitore che l’aveva sfruttato come servo senza mai riconoscerlo, dopo aver violentato la madre, una mendicante demente che era morta partorendolo.

Addirittura, tutti e quattro i fratelli sono colpevoli e peccatori. Smerdjakov nelle opere, per aver materialmente compiuto il delitto. Dimitrij nei pensieri, per aver direttamente immaginato, minacciato e pianificato di compierlo. Ivan nelle parole, per aver indirettamente istigato Smerdjakov con le proprie teorie. E Alioscia nelle omissioni, per non esser riuscito a evitare il peggio, mettendo pace tra i fratelli della sfortunata famiglia.

Il tutto a conferma della lugubre e pessimista visione del mondo di Dostoevskij, che esalta ne I fratelli Karamazov soltanto gli ottusi e retrogradi monaci del monastero di Optina. D’altronde, già il 20 febbraio 1854 aveva scritto dal campo di lavoro di Osmk, a una delle pie donne che gli aveva regalato il Vangelo a Tobolsk: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

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