In una cupa mattina di novembre un uomo esce dal suo appartamento, sale sulla metropolitana, percorre a piedi una piazza e un viale ed entra nel palazzo che ospita la casa editrice in cui è impiegato da qualche tempo.

Ad aspettarlo, come tutte le mattine, c’è una pila di manoscritti. Ha la penna, la gomma e il solito blocco di fogli di carta patinata su cui scrivere i suoi pareri. E come spesso gli accade, anche quel giorno non legge nulla di buono.

Potrebbe almeno sorridere davanti alla letterina che un aspirante scrittore ha firmato in accompagnamento al suo romanzo – «Spettabile Casa Editrice, nell’inviare questo mio primo romanzo mi permetto di fare presente alla Commissione di Lettura due punti a mio parere essenziali. Primo: nessuna illazione sull’io che narra (non sono io). Secondo: Proust. Sarei grato se non si facesse questo nome, che nel mio caso è il più facile» – ma conserva la sua noia abituale. E si accorge che la lettura di testi scadenti non fa diventare indulgenti, «semmai capita il contrario».

A fine giornata il lettore si trova a leggere l’ultimo manoscritto, di parecchio il più voluminoso; lo sfoglia, tenta il sondaggio aprendolo a casaccio: le immagini sono intense e visionarie, i sogni vividi, ma ci sono anche cedimenti espressionistici, molta enfasi e l’ambientazione slava disturba.

Il lettore, mentre esce, passa dall’ufficio dell’editore e gliene parla. Questi gli domanda se, a suo parere, sia da pubblicare. E il lettore editoriale, annoiato più che stanco, gli risponde di no, ma che l’autore andrebbe tenuto d’occhio per il futuro.

L’editore, allora, prende in mano il romanzo e gli dice che quello non avrebbe dovuto giudicarlo, non si spiega anzi come sia finito lì e, incredulo, domanda al lettore come abbia fatto a non accorgersi che è una traduzione, e che è una traduzione di Delitto e castigo.

Una giornata di lavoro

Questo racconto di Giuseppe Pontiggia vale come la triste cronaca plausibile di una normale giornata di lavoro del lettore editoriale. Del resto, Pontiggia, dopo che per dieci anni, dacché non era ancora diciassettenne, lavorò per il Credito Italiano, come poi avrebbe fatto il protagonista del suo primo romanzo, La morte in banca, ha collaborato lungamente con diversi editori, circondato quindi anche da «il popolo randagio dei manoscritti», per usare una definizione di Ernesto Ferrero.

E sapeva cosa significasse far parte di «quella abominevole sottocasta», come la chiama Roberto Bolaño nel racconto Henri Simon Leprince, di coloro che sfogliano, leggono, valutano – e mai decidono se non consigliando – i romanzi che a sciami convergono ininterrottamente sulle scrivanie degli editori.

È del lettore editoriale il piccolo compito di passare per primo la pupilla e le mani sulle storie che si auspicano di diventare libri. Legge senza requie o cali d’attenzione, pur vivendo «in una sospensione plumbea» come ha scritto Antonio Franchini, con pazienza da gesuita e palpebra all’insù per mai finire nell’ombra della noia. Altrimenti si manda a casa Dostoevskij con una pacca sulla spalla e l’invito a farsi vivo quando avrà scritto il prossimo romanzo.

Fallibilità e intuito 

Non si direbbe, ma si tratta del mestiere da banco che esige la maggior dose di adrenalina, forse secondo soltanto a quello di concierge in un albergo perennemente disabitato, pena la sonnolenza e gli errori madornali che ne deriverebbero.

Chi fa questo mestiere, affondato nelle pieghe delle lingue di innumerevoli scrittori, tra il bricolage domenicale e la destrezza sorprendente di uno sconosciuto, perde le proprie diottrie sulla «gramigna del dilettantismo», come la battezza Ingeborg Bachmann, e in cambio può giusto vantarsi chissà con chi di possedere soltanto per sé la biblioteca dell’inedito del Paese.

«Negli anni preistorici in cui lavoravo in banca», avrebbe poi raccontato Pontiggia, «un funzionario incarnava per me il lettore ideale: era esigente, impaziente, implacabile. Se volevo un riscontro attendibile, la sua inflessibilità di giudice era più preziosa che ogni indulgenza di complice». Si badi: della fallibilità del lettore editoriale non vale neanche la pena di parlarne. Perché? Perché non esiste. Occorre mostrare fermezza. Ci sarà poi tempo per ammettere il torto o insabbiare l’abbaglio atroce.

Leggendo in casa editrice si vive su un’altalena come neanche succede ai bambini nel giardino pubblico vicino a casa, poiché può capitare che le letture non concordino – è probabile, anzi, che succeda ed è fruttuoso a volte – e perché gli esiti sono imprevedibili.

Penso a Natalia Ginzburg che leggendo il manoscritto di un romanzo di Lalla Romano, e confessando che era il primo manoscritto che le piacesse da quando lavorava in casa editrice, sostenne che le aveva dato la voglia di scrivere anche a lei, mentre di solito «i noiosissimi manoscritti» quella voglia la fanno andar via tutta; e penso all’euforico Calvino che, scrivendo a Elio Vittorini, rivelò che da quando aveva letto Una diga sul pacifico, non parla d’altro con chiunque incontrasse, «ma siccome non so che emettere esclamazioni d’entusiasmo, nessuno mi crede».

Come andò a finire a questi due romanzi? Maria della Romano non fu pubblicato da Einaudi, forse anche perché Pavese non poteva «soffrire l’ambiente delle donne di servizio», mentre la Duras sì.

Un’altra cosa che c’è da sapere a proposito del lettore editoriale è anche la più terribile e vergognosa, ovvero che questi fa in casa editrice quello che nelle aziende agricole fanno i sessatori di pulcini. I migliori nel campo sono i giapponesi e in un tempo inferiore ai quattro secondi sono capaci di riconoscere il sesso del pulcino che hanno nel palmo della mano: e se femmina, metterlo da una parte, alla volta dell’allevamento per la produzione delle uova, e se maschio, dirottarlo altrove.

La complicazione, se mai ne servisse una, è che distinguere i maschi dalle femmine è molto difficile, almeno finché questi non compiano quattro settimane. E allora sarebbe troppo tardi per i tempi della zootecnia: è perciò che c’è quindi bisogno di qualcuno che sappia dirimere la questione prima.

I sessatori più abili intervengono sin dai primi istanti di vita dei pulcini, perché hanno il talento di riconoscere una cosa che c’è già quando ancora per tutti gli altri quella cosa manca. Diventa l’istinto del mestierante, ma all’inizio è forse la prodezza dell’intuito. Ai lettori editoriali, insomma, spetta la stessa crudele e turpe incombenza di quello che briga tra i minuscoli genitali dei pulcini. Diciamo lo stesso acume lesto.

Rarissima felicità

Tra appassionati ci si ripete che giocare a ping-pong è come giocare a scacchi correndo i cento metri, per via del fatto che occorra combinare lucidità e rapidità di esecuzione. Un buon giocatore di ping-pong sarebbe allora un buon lettore editoriale.

E con i romanzi lunghi e lunghissimi, come si fa a essere rapidi? Roberto Bazlen, in un suo parere di lettura sull’Uomo senza qualità di Musil scriveva che era una «faccenda complicata» e si dispiaceva ci fosse «tanta fretta». Dei più voluminosi Calvino ammetteva di leggere soltanto quanto gli servisse per rintracciare questi tre elementi: il linguaggio, la struttura, e se l’autore metteva in mostra «possibilmente qualcosa di nuovo».

A una sua studentessa Kurt Vonnegut consigliò, per tutte quelle volte che avrebbe dovuto scrivere un parere di lettura, di farlo come se sette minuti prima avesse bevuto un bicchiere di liquore prelibato. E di scriverlo immaginando di doverlo poi sottoporre a un «superiore saggio, rispettato, spiritoso e un po’ stanco del mondo».

Le sconsigliava di esprimersi come un critico accademico, ma neanche come un fanatico. «Scrivi come una persona sensibile che abbia un paio di intuizioni pratiche su come le storie possono avere successo o fallire», le diceva. Ora qualcuno vorrà mica forse sostenere che alcuni leggano con troppo liquore nel sangue? O che neanche tollerino quel cucchiaio di alcol? L’editoria ha i suoi segreti e se li tiene cari.

«Inviare un libro a qualcuno è commettere un’effrazione, è una violazione di domicilio. Vuol dire invadere la sua solitudine, quello che egli ha di più sacro», ha scritto Cioran. Eppure. E poi, appurato che non si legge per essere felici, per citare Kafka, dacché «saremmo felici lo stesso, anche senza libri, e i libri che ci rendono felici, quelli, all’occorrenza, potremmo scriverli da soli», figuriamoci se lo fa con il sorriso chi legge per mestiere in casa editrice. Eppure.

Eppure la contentezza che proverà un lettore editoriale il bel giorno che si imbatterà, dopo anni di disonorevole mestiere, in un libro così sorprendente da invadere gloriosamente la sua solitudine, varrà ogni secondo di noia della sua vita.

E se poi anche l’editor e addirittura l’ufficio commerciale saranno del suo stesso modesto avviso, allora per quella rarissima contentezza sarà valsa la pena di perdere almeno una delle diottrie immolate alla bisogna. E sono certo che di questo ne converrebbe persino quel dirigente implacabile e inflessibile, ed esimio lettore, con cui Giuseppe Pontiggia lavorò in banca.

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