Tutto inizia nel 1966: l’allora studente universitario Massimo Vitta Zelman, attuale presidente di Skira, riceve da suo padre Emilio, che insieme a Giorgio Fantoni ha appena acquistato la casa editrice Electa, la proposta di lavorarci. «Conservo ancora incorniciato un contrattino», racconta, «in cui si dice che non avrei avuto la qualifica di dipendente, ma di collaboratore esterno e quindi non avrei avuto vincoli di orario. La cosa significava che non sarei più tornato a casa». E, in effetti, così è andata: da quel momento, l’editoria d’arte diventa tutto il suo mondo. In quei primi anni, quelli della cosiddetta gavetta, avviene la formazione sul campo: «Ho imparato tutti i passaggi necessari per costruire un libro. Ho lavorato in redazione, corretto le bozze, schedato le immagini, ho fatto il vicedirettore tecnico. Nel 1971, quando avevo 25 anni, mi hanno nominato consigliere delegato. A dire la verità, è stato più un incoraggiamento che un effettivo conferimento di poteri».

Un incoraggiamento che darà i suoi frutti, visto che nei successivi vent’anni Electa diventa un autentico colosso: all’editoria d’arte aggiunge una divisione periodici, acquisendo importanti testate quali Casabella e Interni, e partecipa al salvataggio dell’Einaudi, salendo progressivamente di quota sino a detenerne il 70 per cento. Dall’incontro con Carlo de Benedetti (editore di questo giornale), allora azionista di riferimento della Mondadori, nasce Elemond (Electa Einaudi Mondadori): il gruppo diventa protagonista anche nell’editoria scolastica, con numerose acquisizioni, e guarda all’estero, entrando nel capitale Gallimard.

Quando però la Mondadori passa sotto il controllo di Silvio Berlusconi, il disegno societario entra in crisi e nel novembre del 1994, al termine di complesse trattative, Fantoni e Vitta Zelman cedono alla Mondadori il proprio 51 per cento del gruppo. E così, ricorda Vitta Zelman, «si è chiusa la mia prima vita».

Skira

La seconda vita si apre di lì a poco, quando Vitta Zelman, sempre insieme a Giorgio Fantoni, acquista Skira. È il 1995 e la leggendaria casa editrice, che negli anni Sessanta era stata in tutta Europa sinonimo di libro d’arte, non pubblica ormai che una decina di titoli l’anno, forse meno, e sopravvive soprattutto nella memoria di nostalgici appassionati. La sfida è dare nuovamente corpo a un mito, impresa che riuscirà brillantemente: nel giro di cinque anni la produzione arriva a oltre duecento novità editoriali l’anno.

La casa editrice riprende a pubblicare internazionalmente col proprio marchio, com’era nella sua storica tradizione, ma allarga il proprio campo d’azione dalle arti visive all’architettura, al design, alle arti applicate, alla fotografia; si apre alla saggistica e alla narrativa e, soprattutto, si impone come protagonista nell’ambito delle mostre e dei musei, non solo come editore e libraio, ma anche come produttore di grandi eventi espositivi.

Nelle fotografie

Le fotografie alle pareti dell’ufficio di Vitta Zelman, accanto alla scrivania, raccontano chi lo ha affiancato nella sua lunga storia editoriale, e sono tutte persone che lui evoca con affetto e gratitudine. Accanto alle foto del padre e di Fantoni, sono allineate quelle di Paolo Grassi («l’insegnamento più straordinario che ci ha dato quando era presidente dell’Electa è quello della “responsabilità della cultura”»), Giulio Einaudi, gli storici dell’arte Giuliano Briganti, Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo dell’Arco «ai quali sono stato molto legato», i “carissimi amici” Inge Feltrinelli e Tomás Maldonado e i “compagni di vita” Rodolfo De Benedetti, Sandro Parenzo, Michele Serra, Carlo Feltrinelli.

Ci sono anche i Beatles e Brigitte Bardot, «perché sono miti indimenticabili», e una serie di cartoline ricevute da Sol Lewitt, scritte con tale rigore geometrico e tutte così uguali «che le ho fatte incorniciare come se fossero una sua opera». Tra i cimeli c’è anche un elegante biglietto in stile giapponese, vergato da Setsuko Ideta, la moglie di Balthus, artista con il quale Vitta Zelman racconta di avere avuto un rapporto articolato e sorprendente.

«Al di là della grandezza del pittore, a essere straordinari erano la sua immensa teatralità, l’incredibile scenografia attorno al personaggio, quel carro allegorico che era la sua esistenza. Dopo essere stato ospite a Rossinière, nella sua mitica casa svizzera, ho finalmente capito lo stile pomposo e anacronistico degli inviti che mandava quando dirigeva l’Accademia di Francia a Roma: era un re che convocava i suoi sudditi a corte».

Sovente il dialogo di Vitta Zelman con gli artisti si è trasformato in autentica amicizia, «per il combinato disposto tra la loro personalità e la loro opera».

È il caso, per esempio, di Enrico Baj o Emilio Tadini, «due amici straordinari, di cui la mia casa ospita tanti lavori a ricordo di un lungo sodalizio».

Il suo rapporto con le opere, in ogni modo, non è mai neutrale, che siano contemporanee o firmate dai grandi maestri del passato. Nel primo caso, l’arte concettuale non è tra le modalità espressive che preferisca: «l’orinatoio di Duchamp, trasformato in fontana, ha aperto la strada a un fenomeno che dal mio punto di vista racchiude molti possibili equivoci e mancanze di originalità. Si può avere un’idea straordinaria e metterla in campo, ma la replica da parte di altri, in maniera più o meno fortunata, mi lascia scettico. Continuo ad avere come riferimento artisti più tradizionali, figurativi o astratti che siano». Quanto ai grandi maestri del passato, il preferito in assoluto è Piero della Francesca, ma grazie all’attività di produzione di mostre non sono mancate le sorprese nella possibilità di approfondire la conoscenza di artisti che sembravano invece già abbondantemente esplorati. «Raffaello, ad esempio, era un personaggio che mi intrigava assai meno di altri», spiega Vitta Zelman, «forse per il suo successo universale rispetto ai tormenti che hanno invece caratterizzato la vita di molti grandi protagonisti della storia dell’arte».

Il sogno nel cassetto

Ma poi lo scorso anno, a causa delle complicazioni della pandemia, il presidente di Skira si è trovato a passare alcune ore in solitudine all’interno degli spazi delle Scuderie del Quirinale, dove era allestita la grande mostra del pittore urbinate, della quale Skira era editore e libraio, e a fermarsi molto più di quando normalmente non si faccia davanti a ogni opera. «Ne sono uscito abbagliato dalla strepitosa bravura di Raffaello! Certo, fa ridere dirlo a oltre settant’anni, e oltretutto facendo questo lavoro…».

Naturalmente, è superfluo sottolineare che la condizione di poter visitare in solitudine una mostra del genere sarebbe un inestimabile privilegio per chiunque, ma non per chi nella mostra è direttamente coinvolto, per la parte editoriale e per la gestione della libreria. La pandemia, infatti, ha provocato danni incalcolabili: per l’editore, e ancor più per il produttore dell’evento espositivo, «è stata una tragedia spaventosa».

Tuttavia si va avanti, e i progetti per il futuro prevedono, accanto a grandi esposizioni tradizionali, a partire dal “kolossal” Tiziano a Vienna prima e a Milano poi, anche lo sviluppo di una linea di cosiddette mostre virtuali, rassegne che, grazie alle nuove tecnologie digitali, consentono un’immersione sensoriale all’interno del mondo di artisti o di movimenti, per poter cogliere nuovi significati e soprattutto poter vivere una serie di emozioni.

Sembra incredibile, ma in tutto questo resta, ancora irrealizzato, un sogno nel cassetto. Per spiegare quale sia, Vitta Zelman la prende un po’ alla larga: «Un editore danese di cui ero diventato amico nei primi anni della Fiera del libro di Francoforte mi ripeteva, chissà perché sempre in francese: “Ricordati, Massimo, che ogni editore è uno scrittore mancato”. Be’, in effetti sì… Scrivo. Non ho mai pubblicato niente di mio, perché non sono mai riuscito a completare i vari abbozzi cui ho messo mano, ma ne ho uno che un giorno o l’altro…».

Si scopre così che l’editore ha nel cassetto un’opera di narrativa, che gira intorno al mistero contenuto in un celeberrimo dipinto e che attende soltanto di essere completato e dato alle stampe. Ma, come lui stesso ricorda, «il bravo editore non si autopubblica».

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