Il kolossal tratto dal romanzo di Bulgakov è uno dei più costosi mai prodotti in Russia, sovvenzionato dall’ente governativo per il cinema. Lo sceneggiatore-regista Lockshin, russo-americano si è poi schierato contro l’invasione dell’Ucraina, caricando il film di valenze anti-Putin. Ma la materia narrata era rovente anche prima? Anche no
Non so se qualcuno avrà voglia di rileggere Il Maestro e Margherita, opera massima di Michail Bulgakov e uno dei grandi romanzi del Novecento. Forse sì. In Russia il libro – scritto tra il 1928 e il 1940 e pubblicato postumo in patria (in versione censurata) solo un quarto di secolo dopo, con i samizdat che integravano i tagli – è tornato di prepotenza sugli scaffali delle librerie dopo l’imprevedibile trionfo al box office della trasposizione cinematografica scritta e diretta da Michael Lockshin: un blockbuster da tre milioni e settecentomila spettatori e oltre due miliardi di rubli incassati.
Anti-Putin a posteriori
C’è una epigrafe sibillina che Bulgakov attinge direttamente dal Faust di Goethe, che la fa pronunciare al suo Mefistofele: «Sono parte di quella forza che vuole eternamente il male e opera eternamente il bene». Per puro esercizio di fantasia, supponiamo che in quel dualismo – riferito all’umana natura – sia cesellato anche il destino storico dell’arte che si confronta con Bulgakov e col suo visionario capolavoro antistalinista.
Il kolossal in sala da noi il 19 giugno con Be Water Film è uno dei più costosi mai prodotti in Russia, budget da 17 milioni di dollari, nove dei quali sborsati dal Fond Kino, l’ente governativo per il cinema.
Ma lo sceneggiatore-regista Lockshin, figlio di uno scienziato russo emigrato, che ha completato l’opera nel 2021 dopo una gestazione travagliata, è cittadino americano. I ritardi distributivi, con un autore che nel frattempo si era schierato contro l’invasione dell’Ucraina, hanno caricato il film di valenze anti-Putin.
Ma la materia narrata, tra humour grottesco e richiami evangelici, non era rovente anche prima? Anche no. Vent’anni fa la miniserie tv che adattava il romanzo era andata liscia in prima serata. Non è che i cani da guardia del Cremlino sono ignoranti, come scrive grossolanamente Il Foglio. È che è cambiato il clima.
La campagna di fango, partita dai circoli nazionalisti di destra, si è estesa a macchia d’olio fino a coinvolgere la tv di stato. Lockshin è stato bollato come «ardente russofobo e trans-ucraino», «feccia», dal popolare canale Readovka Telegram. C’è chi lo piazza nella lista nera dell’estremismo terrorista. Si invocano indagini su una produzione «disonesta» che non avrebbe mai dovuto essere realizzata né consentita dal ministero della Cultura. Piovono minacce di morte.
Se ne deduce che per la censura di casa il regista, in partenza, era una firma innocua, nota solo per un asettico Pattini d’argento acquisito da Netflix. Le sue stesse prese di posizione sui social sarebbero state quisquilie senza gli applausi a scena aperta che Il Maestro e Margherita riscuoteva nelle sale. «Andate a vederlo prima che lo ritirino» è stata la più efficace delle promozioni. La guerra ha cambiato tutto. Ha fatto scappare la Universal Pictures, che avrebbe dovuto distribuire il film negli Usa. E i produttori russi hanno cancellato il nome di Lockshin dai crediti e dal materiale promozionale.
Come si crea un dissidente
Ricapitoliamo. Il grande classico della letteratura antistalinista, contro il totalitarismo e la cancellazione delle libertà, viene portato sullo schermo con denari di stato. Un anonimo filmmaker russo-americano senza peccati di dissidenza pregressa diventa un nemico pubblico. Un film realizzato prima dell’invasione dell’Ucraina passa per manifesto contro la guerra e contro la censura governativa.
Un bel grumo di incongruenze, che sembrano uscite dagli assiomi di Woland, il Mefistofele del libro: «Tutte le teorie si contraddicono». È questo percorso involontario, dettato dal mutato scenario mondiale e dalla radicalizzazione della propaganda putiniana, a rendere interessante un film straripante, barocco e di suo non propriamente epocale.
Risorgono nelle stazioni della metropolitana moscovita le statue di Iosif Stalin, e un regista commerciale che non aspirava affatto a ripercorrere il calvario di Bulgakov si ritrova nei panni del suo letterario Maestro, espulso – metaforicamente – dall’Unione degli Scrittori Sovietici e rinnegato come molestatore del regime. Il bello è che senza la shitstorm un film russo governativo il resto del mondo lo avrebbe snobbato di brutto. Come si scrive “chapeau” in cirillico.
Il Maestro, Margherita e il Diavolo
Eviterei le banalità tipo “la realtà che supera la fantasia”. Ma condenso per sommi capi le vicende narrate dal film, molto fedele al romanzo, con qualche licenza. Nella Mosca degli anni Trenta il Maestro (Evgenij C’igardovich) si vede smontare dal cartellone teatrale il dramma, pronto al debutto, su Ponzio Pilato e il processo a Gesù (nel libro era un romanzo). Da un giorno all’altro intorno a lui si fa il vuoto: isolamento e miseria nera.
Reagisce tuffandosi in un nuovo lavoro, in cui il Diavolo, Woland (nome germanico di Mefistofele che ricorre anche in Goethe, l’attore è il tedesco August Diehl), è un enigmatico turista che arriva nella capitale dell’Urss con il suo seguito. Nel suo delirio i personaggi prendono vita, compreso il Gatto Nero parlante Behemot (che ha la voce di una star russa, Jiurij Borisov, tutt’altro che in odore di dissenso). Così si trincera contro la realtà intollerabile della repressione governativa.
Finché in Margherita (Julija Snigir), donna ricca, malmaritata e misteriosa, non trova un’amante, un puntello e una speranza di fuga. Denunciato da un amico per soldi, finirà in carcere torturato e poi confinato in un ospedale psichiatrico. Ma tra un elettroshock e l’altro rimetterà mano al manoscritto che aveva bruciato. È uno dei tanti dettagli autobiografici presenti nel libro.
Non spoilero sul finale, sennò a che pro si scrivono libri e si girano film? Gli spezzoni di satira, che mettono alla berlina gli artisti di regime col loro Grand Guignol efferato da compiacenti giullari, sono sgradevolmente grevi. Nel visionario Gran Ballo Annuale del Diavolo, però, con Margherita pronta a vendere faustianamente la propria anima per ritrovare l’amato, il film tocca vertici di effetti speciali, costumi e scenografie sorprendenti e certamente ignoti agli standard russi.
Tant’è che per montaggio e postproduzione il regista si è trasferito nella sua Los Angeles.
Prima: Storia di altre censure
Da molti Il Maestro e Margherita è stato considerato “infilmabile”. Si accredita una versione casalinga del 1994, a firma di Jurij Kara, curiosamente mai distribuita “per ragioni amministrative”. Non ho mai visto la coproduzione italo-jugoslava del 1972 diretta da Aleksandr Petrovic e interpretata da Ugo Tognazzi (subentrato in extremis a Gian Maria Volonté) e Mimsy Farmer, nei ruoli del titolo.
Non posso fare paragoni. Ma non invoglia il lapidario giudizio di Morando Morandini: «Un film illustrativo e riduttivo, inerte e deprimente». Già allora però, per evitare attriti con le autorità russe – a Venezia per l’anteprima del film – la produzione preferì accantonare la lettera di Bulgakov a Stalin in cui lo scrittore rivendicava la propria libertà intellettuale.
La voce fuori campo di Tognazzi la declamava in una sequenza cruciale. Fu rimpiazzata da una canzone. «I manoscritti non bruciano», è la frase-cult del romanzo. Quello dei film è materiale più a rischio.
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