C’è uno strappo, e tutto forse parte da lì. La mia generazione, quella che aveva vent’anni alla fine degli anni Settanta ha molto creduto nei maestri, sapeva che c’erano, se li andava a cercare. Ricordo il sentimento di riconoscerne uno e di stargli davanti, quella sorta di attesa che si patisce attendendo la parole chiave, oppure l’illuminazione che si apre dopo un incontro. Erano i nostri – che fossero politici o intellettuali – uomini della parola (e ben sappiamo che un magistero non si esaurisce nel logos).

Mi capitò di scrivere una lettera di dodici pagine a Franco Fortini: chissà cosa veramente volevo accadesse ma una cosa era chiara, che con quella epistola io lo eleggevo a mio maestro. Così andava in quegli anni. Quel costume è tramontato. Eppure. Eppure non senza una sfumatura di ironia talora qualche giovane mi si rivolge chiamandomi maestro. Di cosa? Veramente non so. E come in Tristano di Thomas Mann sento un ridacchiare infantile che mi inchioda alla mia pochezza.

La genesi di Cantor

Quando ho cominciato a pensare a Cantor e al Miglior tempo, in realtà quella figura di inquieto ventenne era già presente dentro di me. Voleva essere “inventato”. Come non sapevo ancora. Non sapevo che storia avrebbe vissuto.

Vedevo gesti: la mia generazione aveva scatti, chinar di capo, sventagliar di braccia che rivelavano una “scuola” comune. La scuola si è consumata. È come se avvertissi una stratificazione di gestualità molto articolate, faticosamente identificabili se non drastiche semplificazioni. Dai gesti sono risalito alla fisiognomica ma soprattutto agli sguardi. Cosa c’entra tutto ciò con il progetto di un romanzo? C’entra, perché solo quando sono riuscito a leggere gesti, modi, sguardi mi è apparso Cantor come avrei voluto che fosse.

Cantor è un dongiovanni naturale: è ovvio che seduca ma del seduttore non ha la spavalda consapevolezza, non potrebbe mai affidare a un suo Leporello il compito di stilare il catalogo delle sue conquiste. È incapace di sostare. E il suo movimento è solo premessa di altro movimento.

Nella pagina che apre il romanzo Cantor si guarda i piedi ed è come se li vedesse per la prima volta: infilati nei sandali, magri, l’alluce troppo rigido. Li guarda perché sa che ne avrà bisogno da quel momento in poi ed è come se provasse della compassione.  

Non avevo dubbi sul fatto che la vicenda di Cantor doveva essere assolutamente contemporanea, per quel che conta. Non era l’attualità ad attrarmi ma la prossimità temporale di un mondo e di un personaggio che in realtà era tanto lontano da destarsi inattuale.

Nel Miglior tempo si racconta una mezza dozzina d’anni, si racconta un paese che non ha saputo accendere un solo ideale veramente ispirato. La sloganistica è stata ed è sgolata e divisiva, perfettamente in sintonia con lo strappo di cui dicevo.

Ho sempre guardato con curiosità ai giovani che ho incontrato e continuo a incontrare, sia attraverso la mia professione sia attraverso le mie vicende umane e familiari. Negli ultimi vent’anni, se penso alla giovinezza e a chi la sta vivendo, avverto una stretta al cuore, e vedo, anche quando mi si presenta fulgida di intelligenza e di saggezza, fatica, incertezza, caos. Ma sì, certo, mi sono detto: quando mai c’è stata una giovinezza che non attendesse incertezza e caos? Ma raramente si è prodotto uno scollamento così profondo fra baldanza esistenziale e dispersione sociale. Uno scollamento a partire dal quale hanno agito con più determinazione quelli che Marco D’Eramo chiama «i dominanti», forti anche dei loro, spesso ignari, lacché politici.

Se dunque esiste uno strappo, chi lo abita che cosa può imparare? E dove? E da chi? Il rapporto maestro-discepolo si è quasi del tutto consumato. Molti ventenni sembrano entrare nel mondo “imparati” o se vanno alla ricerca di maestri, quei maestri sono occasionali e soprattutto funzionali: durano poco, perdono velocemente autorità e autorevolezza. Ecco allora che mi è venuto incontro Filippo Cantor Castelli, il protagonista di Il miglior tempo.

Piccolo Amleto

Appena l’ho visto, narrativamente parlando, mi sono detto che non sarebbe stato facile governarlo, eppure sapevo che a quel punto dovevo stargli alle calcagna, spiarlo, inseguirlo, non perdere mai le sue tracce. Era un piccolo Amleto, che come il danese non sa come dar seguito all’urgenza di agire. Ha tutte le possibilità di diventare, quel piccolo Amleto, un leader, un leader in un mondo di capi insapori, e invece Cantor si scopre via via incompatibile con quasi tutte le esperienze alle quali generosamente si vota, massimamente quella politica.

Cantor sa fare molte cose (sa anche che cosa è utile e che cosa non lo è): ha voluto fare l’infermiere, vuole occuparsi di corpi e non dirigere reparti, sa usare la mazzuola e il filo a piombo, sa aprire centri di accoglienza, sa combattere a fianco dei raccoglitori di oro rosso contro il caporalato, potrebbe anche essere pronto a un destino di operatore sanitario in Africa con una delle più accreditate associazioni italiane. Fa tutto questo e tutto questo contraddice.

Avevo bisogno di monitorare questo piccolo Amleto. Avevo bisogno di un filtro, di un personaggio maturo, solidamente ancorato alle certezze culturali di un passato non ancora sfarinato. E così ecco, si è fatto avanti il dottor Romagnoli, pediatra in pensione, senza figli, invasato di Robert Schumann, con una moglie più salda di lui che lo ha lasciato vedovo. Non solo Romagnoli è stato anche il pediatra di Cantor: dopo averlo accompagnato dentro la vita ora Romagnoli si dispone a offrire sapienza e saggezza al giovane Cantor.

Romagnoli è il primo adulto a cui Cantor chiede di essere esplicitamente un maestro. Il rapporto fallisce ma rimane acceso. Cantor inciampa in un evento traumatico e da quel momento in poi comincia a fuggire. In verità forse parlare di fuga è eccessivo: Cantor si mette on the road alla ricerca di altri maestri, se mai ci fossero, di altre voci, di altre avventure, spingendo sempre all’estremo la sua fame di esistenza.

Cantor non è un intellettuale, è tensione pura, a volte ha i tratti del mistico a volte quelle del profeta, ma è un mistico e un profeta che sono totalmente ignari di sé e dell’obiettivo a cui tendono. Quante volte mi sono detto, scrivendo: «Fermati! Cantor, sei un coglione!».

Per fortuna l’immaginazione non dà tregua. E tregua non c’è stata per Cantor. L’ho lasciato andare. E c’è uno struggimento in tutto ciò. Poteva soltanto creare destino. E il dottor Romagnoli lo sa, così come lo sanno i giovani amici che progressivamente hanno fatto cerchio intorno alla figura del pediatra: Cantor è stato via via un agglutinatore, ha incollato l’una all’altra biografie molto diverse.

Il filo che il dottor Romagnoli e gli amici di Cantor si ostinano a tenere saldo, come se, allentando la stretta, temessero che Cantor possa perdersi, è un filo sottilissimo. E infatti Cantor si lascia trasportare da immagini sempre arrischiate della propria possibile posizione nel mondo.

Cantor è un ragazzo di buona famiglia, figlio di un notaio, fratello di un notaio che “scende in campo” per fare carriera politica: niente di più lontano da lui che questo universo famigliare. Cantor vuole estremizzare tutte le sue esperienze, non può fare diversamente, ed è singolare come, senza intenderla, risuoni in lui l’inquietudine di tutta quella musica romantica che costituisce il quotidiano nutrimento del dottor Romagnoli.

«Io passo in mezzo agli uomini come in mezzo a frammenti dell’avvenire, di quell’avvenire che io contemplo». Così dice l’Elias di Mendelssohn, e in effetti il tempo in cui Cantor sta, per destino e per elezione, è un tempo polverizzato, così come è polverizzata la possibilità di dargli un orientamento fuori dal caos.

Ho sentito crescere durante la stesura del romanzo la figura di Anna, la fidanzata di Cantor. Entra come una ragazza felicemente sedotta dall’eros distratto del ragazzo e si conquista uno spazio di giovane donna, consapevole non solo di sé ma di quell’astruso disegno che il suo compagno traccia sulla mappa del mondo. E d’altro canto, a partire dall’incidente che apre traumaticamente la storia della sua fuga attraverso l’Italia, Cantor ha la certezza di covare dentro di sé il male, quello stesso male che, lui lo sa, lo vede, periodicamente ammala la storia.

È solo così che sono potuto andare incontro a uno dei deliri più agghiaccianti di Cantor, quando, come in un teatro interiore, ricostruisce le vicende di una delle strage più efferate consumate dai nazisti sulle colline della Lunigiana. Non arriva a quello sgomento, a quello spasmo attraverso una lezione storica, ma rovesciando dentro di sé la mera potenza di un racconto orale.

Il miglior tempo. Forse un tempo migliore non c’è ma la strada che si apre davanti a Charlie Chaplin e a Paulette Goddard nell’ultima inquadratura di Tempi moderni, immagine che ho voluto in copertina, corrisponde esattamente a quella dimensione di futuro possibile che a partire da niente, comunque si apre davanti a chi non ha paura.

Gli occhi del dottor Romagnoli, vale a dire gli occhi della mia generazione, e del suo sdegnoso fallimento, non smettono di guardare dove la vita comincia.

Alberto Rollo è autore del libro Il miglior tempo, appena uscito per Einaudi Stile libero 

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