Ulisse siede nella reggia dei Feaci raccontando le sue avventure meravigliose e strane; è sera, e le fiaccole si smorzano a poco a poco, mentre i convitati lo ascoltano rapiti, quasi dimenticandosi di sé. Quando finisce, «tutti rimasero muti, in silenzio, presi da un incantesimo, nella sala in cui si allungavano le ombre».

Kelethmòs: incantesimo. Questo è da sempre il felice inganno del mito: sedurre le menti di chi ascolta, trasmettendo racconti ed emozioni. Così facevano anche le Sirene: e possiamo persino sospettare che Ulisse, il solo ad avere udito la loro voce senza esserne stato ucciso, avesse imparato da loro l’arte di sedurre con le parole.

Del resto, raccontare miti è un’operazione pericolosa, pensava Platone, perché questi hanno la capacità di oscurare la forza della ragione. Il mito, infatti, è prelogico: non spiega verità, non discute tesi, procede attraverso immagini e simboli, soggioga l’intelligenza di chi ascolta. Storie antiche di sangue, inganni, vendette.

Nelle culture orali, ha la funzione fondamentale di trasmettere, attraverso racconti, il patrimonio culturale di una società illetterata ed è quindi fondamentale per conservare attraverso la catena delle generazioni l’identità del gruppo.

Sono storie in cui il bene e il male si mescolano, ed emergono emozioni primarie che scuotono sin dal profondo chi ascolta: Achille è dominato dall’ira, Medea dalla gelosia, Elena dalla voluttà, Edipo dalla smisurata voglia di scoprire il proprio segreto.

Dopo più di un secolo di psicoanalisi e di scienze umane, noi ora possiamo dire di avere risemantizzato il mito, perché gli affidiamo il compito di esplorare zone oscure della nostra psiche, altrimenti inesplorabili. Come ogni esplorazione, il mito comporta una scoperta: rinnova, mostra improvvisamente una cosa diversa e ci dice che il mondo (quello della nostra mente) è più grande di prima, e qualcosa di nuovo si trova sempre, interrogando l’antico.

Vivaio inesauribile di simboli

Il mito riguarda ogni essere umano, perché il procedere mitico è quello simbolico dell’inconscio. Molti ne furono sedotti. «Potendo (scriveva Cesare Pavese nel prologo dei Dialoghi con Leucò) si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia». Ma non si può, perché il mito (sono ancora parole sue) è un vivaio inesauribile di simboli.

L’opera con cui, probabilmente, la fama di Pavese scavalcherà il tempo è appunto una riscrittura di miti: i Dialoghi con Leucò erano sul suo comodino la notte in cui, giusto settanta anni fa, nel soffocante caldo d’agosto di una stanza dell’Albergo Roma di Torino, mise fine alla sua vita. Le ultime sue parole le scrisse sul frontespizio di quel libro, che amava più di tutti gli altri suoi, e che all’epoca fu il meno capito: «Chiedo perdono a tutti e perdono tutti. Non fate troppi pettegolezzi».

In compagnia della sua Leucò, Pavese volle fare il salto oltre la vita, per andare a incontrare le sirene. I Dialoghi con Leucò sono a pieno titolo un’operazione mitopoietica: perché il mito non è solo un modo di raccontare o riscrivere vecchie storie, ma anche, prima di tutto, un modo di pensare; quando si apre quella porta, si viene a contatto con sfere segrete dell’anima.

È il luogo della mente in cui si mescolano la bellezza, la luce del racconto e il buio delle pulsioni primitive a cui altrimenti non sapremmo dare voce. Pavese l’aveva capito – o forse sarebbe meglio dire l’aveva percepito – quando, leggendo le storie greche attraverso il filtro dell’antropologia de Il ramo d’oro di James George Frazer, arrivò fino al cuore di quella mitologia nata da antichi popoli contadini, dove trovò l’essenza di sé e della sua gente, anch’essa contadina, e del rapporto di ogni essere umano con le forze primordiali dell’esistere: la morte, il sesso, il sangue, il confronto con cose più grandi della ragione, inaccessibili se non usando, appunto, un «vivaio inesauribile di simboli».

Del resto, i miti greci e i loro protagonisti sono perfettamente premorali; a una mente lucida (come quella che volevano gli Illuministi) sembravano ridicoli, se non per il diletto letterario che possono procurare; pensavano che nulla di ciò che dice il mito non possa essere detto molto meglio attraverso la ragione.

Da questo punto di vista erano nel giusto: il mito infatti parla alla non-ragione perché conserva un materiale arcaico che torna a rendersi evidente attraverso di lui. Se il re Edipo (scriveva Freud, non sospettabile di irrazionalismo) riesce a scuotere l’uomo moderno non meno dei Greci suoi contemporanei, il motivo è che deve esistere nel nostro intimo una voce capace di riconoscere la sua forza coattiva, e che «la sua storia ci commuove perché potrebbe diventare anche la nostra, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha decretato la medesima maledizione, per noi e per lui».

Neppure volendo l’uomo potrebbe fare a meno di questa dimensione mitica, se non altro perché la nostra coscienza di esistere non si fonda solo su pensieri consapevoli e atti ordinativi, ma passa attraverso emozioni, simboli e immagini: ed è proprio questo lo spazio in cui, sornionamente, s’infilano i miti. Pensiero logico e pensiero simbolico, continuamente, in ogni momento della nostra vita, funzionano insieme.

Fantasia inconscia

Non esiste società umana che non possieda i suoi miti, così come non esiste un solo essere umano che non sogni: «il sogno (diceva ancora Freud) è il mito dell’individuo». I miti fanno parte della fisiologia del pensiero umano; e se orientano emozioni e modi di pensare è perché lavorano sulla base di coerenze linguistiche, ma attivano contemporaneamente un sistema di immagini e di analogie.

Aristotele, nella Poetica, scriveva che la poesia è più filosofica della storia, perché tende all’universale mentre la storia tende al particolare. Anche il mito tende a un universale, che è quello della fantasia inconscia; per ricordare un’altra volta un’immagine di Pavese, attraverso di lui arriviamo a «un midollo di realtà» che rinnova e nutre tutto un mondo di passioni. Perciò il fruitore più intelligente di miti è colui che si lascia incantare dal racconto, come i Feaci si fecero sedurre da quel giocoliere di parole che era Ulisse.


Giulio Guidorizzi è autore del libro Sofocle, L’abisso di Edipo, edito da Il Mulino

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