Pubblichiamo un estratto dell’introduzione di Stewart O’Nan (uscita la prima volta nel 1992) al cofanetto di Minimum Fax Capolavori di Richard Yates.


Dopo la sua morte nel 1992, tutti e nove i libri di Richard Yates sono silenziosamente spariti dagli scaffali. Un tempo autore tra i più ammirati – lodato da Styron, Vonnegut e Robert Stone come la voce di un’intera generazione – sembra ora appartenere alla prestigiosa ma triste categoria degli scrittori per scrittori. Nella pagina di ringraziamenti della sua raccolta di novelle, Donne e uomini, Richard Ford non potrebbe essere più esplicito, in proposito: «Desidero esprimere il mio debito e la mia gratitudine verso i racconti e i romanzi di Richard Yates, uno scrittore troppo poco apprezzato»

Nell’era che ha visto Pynchon, DeLillo e Rushdie assurgere alla fama (prima di scalare le classifiche dei bestseller), Yates raccontava la tristezza secolare della vita domestica, in una lingua che richiama raramente se non mai l’attenzione su se stessa.

Non c’è nulla di elaborato o di pretenzioso nel suo stile. Le sue opere si potrebbero quasi definire semplici o tradizionali, convenzionali, libere dai trucchi della metanarrativa o perfino del modernismo. L’unico scrittore per scrittori cui lo si potrebbe paragonare sarebbe Cˇechov, o forse Fitzgerald, ma senza il suo tocco poetico.

La superficie della sua prosa è così nitida, in effetti, e le persone e gli eventi di cui scrive sono così ordinari e facilmente identificabili, così simili al mondo come lo conosciamo, che i suoi libri, a un primo sguardo, dovrebbero meritare un pubblico molto più ampio rispetto agli autori letterari più complessi che gli stanno alla pari. Ma le cose sono andate diversamente.

Forse gli scrittori stimano Yates proprio perché i lettori lo hanno trascurato. In un mercato che spesso premia libri scadenti e fasulli anziché opere autentiche e riuscite, il destino di Yates conferma le nostre peggiori paure e ci pungola a chiedere giustizia.

È il più leggibile e accessibile degli autori letterari, un maestro dei ritmi narrativi, che gestisce senza alcuno sforzo, e fin dai suoi esordi si è imposto come un autore di tutto rispetto. Il suo primo romanzo, Revolutionary Road (1961), fu un successo immediato, finalista del National Book Award insieme a Comma 22 e L’uomo che andava al cinema, e altrettanto meritevole. Come cronista della vita americana più comune dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta è eguagliato soltanto da John Cheever.

La visione desolata 

Ciò che distingue Yates in Revolutionary Road – e in tutta la sua opera – non è solo la sua visione desolata del mondo, ma anche il fatto che tale visione si applichi non alla guerra o a un qualsiasi altro orrore, ma alle aspirazioni quotidiane degli americani.

Ci troviamo a condividere i sogni e le paure dei suoi personaggi – l’amore e il successo controbilanciati dalla solitudine e dal fallimento – e nella maggior parte dei casi la vita, come

viene definita dai paradigmi rassicuranti della pubblicità o delle canzoni popolari, è tutt’altro che gentile nei nostri confronti.

Yates dimostra tutto ciò attraverso una sequela di drammi quotidiani del tutto plausibili, per poi chiedere ai suoi personaggi – e a noi come lettori, se non all’America tutta – di ammettere questa semplice, dolorosa verità.

È la sua insistenza sulla bruta realtà del fallimento che mi ha avvicinato a Yates. Nel mio mondo personale, a quei tempi (e perfino adesso) il fallimento era molto più comune del successo, e la perseveranza era il massimo in cui si potesse sperare.

La famiglia e l’amore erano obiettivi duri da raggiungere, se non impossibili. Nel mondo che conoscevo, nessuno veniva salvato dalla buona sorte o tolto dai guai grazie a una coincidenza; non esistevano innamorati, amici, genitori o figli che rendessero improvvisamente piacevole ciò che fino a poco prima era parso intollerabile. 

La sorte non cambiava, ma proseguiva il proprio cammino fino a sfociare in un vicolo cieco dove poi abbandonarti. Scoprire uno scrittore che capiva tutto ciò e non lo adornava di ironia virile né lo affogava in un sentimentalismo lacrimoso fu una vera rivelazione. Yates – ancora alla metà degli anni Ottanta, quando ho letto per la prima volta Revolutionary Road – mi sembrava una novità corroborante rispetto alla narrativa fasulla e stucchevole che passava per realismo. Un’impressione che rimane valida ancora oggi.

Nell’intero corso della sua carriera Yates ha ottenuto recensioni eccellenti su tutte le testate più importanti, e quattro dei suoi romanzi sono stati selezionati dal Book of the Month Club, eppure non ha mai venduto più di dodicimila copie in prima edizione.

Se i suoi libri furono trascurati mentre era in vita, dopo la morte sono praticamente scomparsi. Delle decine di migliaia di titoli stipati nelle librerie di catena non ce n’è uno solo che porti la sua firma. 

Scrivere così bene e precipitare nell’oblio è un destino terribile. È questo il mistero di Richard Yates: com’è possibile che uno scrittore così rispettato – addirittura amato – dai suoi pari, uno scrittore capace di commuovere così profondamente i suoi lettori, sia finito fuori stampa, e tanto in fretta? 

Il conflitto interiore

Il rischio che Yates accarezza in ogni sua opera consiste nel combinare un personaggio nel pieno di un conflitto interiore e una persona comune, senza alcuna eccezionalità – con un talento al quale si può soltanto aspirare. Un personaggio sensibile ed eccezionale conquisterà sempre il nostro interesse di lettori (Stephen Dedalus), e lo stesso accadrà, seppur per un lasso di tempo inferiore, con un personaggio sensibile ma nella media (Lily Briscoe, per esempio), e perfino un personaggio insensibile potrà imporsi alla nostra attenzione, purché sia eccezionale (Riccardo iii, Hannibal Lecter), ma è raro se non inusitato trovare un lettore che segua le sorti di un personaggio insensibile e ordinario.

Con l’eccezione del pazzo John Wilder, i personaggi portanti di Yates non sono mai del tutto privi di sensibilità, anche se alcuni dei personaggi minori possono esserlo. Sono spesso fragili, piuttosto che crudeli. Al peggio di sé, le persone che popolano i suoi libri sono uno specchio delle nostre debolezze: passivi, incerti, sciocchi e sempre pronti ad autocommiserarsi.

uPer mostrarci la sua visione del mondo – popolato com’è da persone quasi sempre ordinarie e imperfette – Yates ci porta pressoché al limite di ciò che è sostenibile (se non ce lo fa addirittura superare, come sostiene Lowry Pei). 

Cold Spring Harbor venne accolto come quasi tutti gli ultimi libri di Yates. Ottenne delle recensioni rispettose se non spettacolari, vendette molto poco, uscì in tascabile l’anno successivo e cadde presto nel dimenticatoio. 

Tutti i suoi titoli erano stati ristampati in tascabile dalla Delta, facendo su e giù dagli scaffali delle librerie per qualche anno prima di finire fuori stampa.   Nel 1989, la collana Vintage Contemporary, inaugurata da Gary Fisketjon, incluse nel proprio catalogo Revolutionary Road, Undici solitudini e Easter Parade. 

Yates insegnava alla University of Southern California, aveva un enfisema e viveva in un appartamento arredato, con una parete sulla quale spiccavano le foto delle sue tre figlie. Fumava ancora e scriveva ancora: stava lavorando a un romanzo basato sulle sue esperienze come autore dei discorsi di Bobby Kennedy, intitolato Uncertain Times, del quale Esquire, a giudicare dalle voci, aveva acquistato due capitoli.

L’oblio dopo la morte

Nel 1989 era arrivato a metà del libro, e lo stava completando quando morì per le complicazioni seguite a un intervento chirurgico di routine, a Tuscaloosa, Alabama, nell’autunno del 1992.

Sam Lawrence e Kurt Vonnegut organizzarono una commemorazione a New York, Andre Dubus un’altra a Cambridge, e gli amici e gli ammiratori di Yates si riunirono per ricordarlo.

Lawrence raccolse in un’edizione limitata i loro tributi, tra cui quelli di Frank Conroy e di Jayne Anne Phillips. Nel necrologio uscito sul New York Times disse di non avere la certezza che il manoscritto di Uncertain Times sarebbe stato pubblicato. Non accadde mai. 

Molti anni dopo Lawrence morì, lasciando l’opera di Yates senza il suo più grande sostenitore. Da allora tutti i suoi libri sono finiti fuori stampa.

Gli scrittori a lui più vicini sostengono che il motivo risieda nel ritratto spietato e autentico della vita quotidiana in America da lui dipinto, e nel fatto che gli editor siano consapevoli di non poter spacciare al grande pubblico una visione così cupa e priva di redenzione, in un mondo rassicurante e alla Spielberg come quello dell’editoria commerciale.

La spiegazione potrebbe avere più di un fondo di verità, soprattutto oggi, con la produzione mainstream dominata dalle carinerie più sdolcinate e l’avanguardia da vani sfoggi d’intelligenza; un autore che abbia intenti seri e li realizzi con la massima lucidità è merce rara.

Non c’è motivo di preoccuparsi, però. Le stesse cose si sarebbero potute dire di Fitzgerald prima della sua resurrezione, o di Faulkner quando i suoi romanzi più grandi erano fuori stampa. Come loro, Yates non è solo un ottimo scrittore; la sua narrativa rappresenta anche un aspetto importante dell’esperienza americana: la confusione del boom postbellico.

Nessuno ha saputo ritrarre con l’efficacia e la profondità di Yates l’Età dell’Ansia, o l’inevitabile crisi dell’individualismo americano nel momento in cui le speranze insensate degli anni Quaranta e Cinquanta crollarono, affogando nell’amarezza. E come i suoi idoli Hemingway e Fitzgerald – il secondo, soprattutto – Yates ha vissuto una vita che fa da specchio alla sua opera e offre un facile appiglio ai lettori che amano le personalità più dei libri.

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