Qual è la matita che porta sempre con sé nella tasca destra dei pantaloni uno dei più famosi disegnatori italiani? Quella che lui chiama il suo sesto dito, tenuto da parte, finché l’aggiunge agli altri cinque per mettersi all’opera. Come è fatta la matita con cui Tullio Pericoli abbozza i suoi panorami stratificati e sezionati come dopo un coltello o un terremoto? Quei paesaggi che rendono tutto più sopportabile e che non hanno l’odore della carta, ma sanno di terra cruda. Che matita usa, ancora prima di trasformarli in acquerelli e quadri, per inventare quegli orizzonti antichi, quei colli marchigiani. Ci dovrà essere una matita speciale per ritrarre Beckett – quella zazzera, quel cappotto spinato, quel maglione a collo altissimo – meglio di quanto non sarebbe stata in grado di fare la moglie di Beckett.

Quando si prepara a un ritratto, Pericoli di solito dispone a ventaglio sul suo tavolo da lavoro una manciata di fotografie del volto che desidera ritrarre. Per Gadda guardò anche alcune vecchie interviste televisive: ne notò l’impaccio, la gentilezza e «un palese stato di ansia perpetua» e riuscì a rendere tutto ciò soprattutto in quell’elefantiaco paltò indossato sopra alla giacca. Un ritratto riuscito deve sostituirsi a quella persona. Dice Pericoli: «Fare una faccia è semplice, fare un ritratto no». Con l’esperienza ha imparato che la metà destra di un volto è talmente diversa da quella sinistra che le due parti sembra abbiano vissuto vite separate. E ha imparato a leggere i pensieri dalle espressioni, dai gonfiori, dalle rughe e dai sorrisi a mezza bocca (dovrebbero essere banditi dai casinò, i bravi illustratori).

Ha sempre in tasca «quel che rimane dell’uso di una lunga matita», due o tre centimetri, sempre appuntita per schizzare le intuizioni e i primi dettagli.

Dalla tela ai libri

Tullio Pericoli disegna da quando è ragazzino, da quando a dieci anni gli venne voglia di dipingere con un unico gesto e un pennello grande quanto lui le colline che conosceva ormai a menadito. E pure se è convinto che saper disegnare non abbia niente in comune con saper scrivere, «a parte alcuni movimenti delle dita, fatti solo da chi persiste nello scrivere a penna», soprattutto negli ultimi anni ha pubblicato una manciata di libri in cui, raccontando il suo mestiere, ci ha permesso di spiarlo indaffarato nella sua bottega. Arte a parte, al solito con Adelphi, è il più recente tra queste sue confessioni d’artista. Perché, ora, mozzicone di matita a parte, cosa nasconde lo studio di Tullio Pericoli? Cosa c’è sopra il suo tavolo quando lavora ai paesaggi marchigiani che poi sarebbero confluiti nella mostra Forme del paesaggio ospitata ad Ascoli Piceno nel 2016, e cosa c’è accanto a lui mentre ritrae con la matita l’amico Umberto Eco dopo l’ultima volta che lo vede, mentre «Umberto sta facendo il morto»?

Lo immagini disegnare su un’enorme petalo di narciso, su una betulla nana. E poi, soltanto dopo, tracopiare su un foglio di carta. Ti aspetti che quei paesaggi mettano le foglie, o che il tavolo di chi li ha disegnati sia cosparso di foglie ramate. Ti aspetti che lavori sotto un lucernario o in un giardino d’inverno. Ma così forse non è. E leggere i suoi libri (non solo quest’ultimo, ma anche Pensieri della mano e Incroci) offre la possibilità di ficcare il naso nel suo laboratorio. Si spia la bottega prima ancora del disegno. Si spia la tessitura della tela, la grana e il tipo di lino di cui sono fatti i suoi fili. Si spia l’impasto dei colori, la scelta degli oli e del pennello. Si spia l’ampolla di vetro in cui conserva i tubetti spremuti. Ora, quanto colore rimaneva nel tubetto una volta che Pericoli ultimò l’acquarello di Giacomo Leopardi che si abbraccia le ginocchia sotto la luna? E con quale angolazione scivolava il pennello, nel 1996, dipingendo a olio Vista sulle colline?

L’ispirazione

Pericoli sa riconoscere l’inclinazione con cui scorreva il pennello di Morandi, cronometra la durata della pennellata e capisce che quei suoi oggetti non sono più oggetti ma «persone che soffrono di agorafobia». Sa che Rembrandt dipingeva «dal polso in avanti», conosce la gestualità inquieta con cui Velázquez pitturava dalle spalle in su e sa che Picasso combatteva contro la tela bianca con tutto il corpo.

L’ispirazione, dice, lo raggiunge «da un’intercapedine tra le cose razionali e il resto del suo corpo». E come cerca l’ispirazione, Pericoli? Prende un taccuino, aspetta che la sua mente si attivi e, mescolando quello che vede con quello che conosce e ha già visto, infine proietti qualcosa, riempiendo le pagine di scarabocchi, segni, tracce. L’immagine è ansiosa di irrompere, di essere illuminata: a lui è richiesta la testardaggine di rendere in forma scritta quelle idee che balenano nella sua testa. C’è una coltre al di là della quale solo lui vede, e senza il fastidio della fuliggine o di nessuna nebbia, disegna un mondo attraversato da un vento talvolta mansueto e talvolta agitato, ma sempre nell’imminenza della luce.

Thomas Williams nel romanzo I capelli di Harold Roux sostiene che partorire un’opera di narrativa consista innanzitutto nel radunare i propri personaggi su una vasta pianura. Tutti si dispongono, allora, attorno a un fuocherello e scaldandosi le mani si augurano che quelle fiamme possano alzarsi ancora di più finché l’intera pianura, così come la loro storia, venga rischiarata completamente. Nei panorami di Pericoli – in cui si vedono quegli alberi avvicinarsi ancora di più, raccogliersi e sfilare in silenzio, e i ruscelli che nei secoli si sono fatti strada tra le pietre levigate dall’acqua – non c’è bisogno di alcun fuoco per orientarsi.

“Tulliopericolosi”

Avendo collaborato per moltissimi anni con i maggiori giornali internazionali, Pericoli ha imparato anche ad aver cara la data di consegna come un francobollo lo è per un filatelico: e forse per questo è impossibile immaginarselo a braccia conserte. E se Ezra Pound si auspicava che i quotidiani ospitassero soltanto «notizie che restano tali anche dopo averle lette», Pericoli è riuscito nell’impresa persino più memorabile di realizzare per quei giornali disegni che resteranno tali anche cent’anni dopo la loro uscita in edicola.

Pericoli mostra in ogni suo lavoro una mano trasognata, smarrita nella meraviglia del panorama o di un volto, eppure presa in un ricamo raffinato della terra millenaria e delle fresche ferite dell’uomo. Lui che tocca il suo dipinto per capire a che punto sia l’asciugatura, e per partecipare al processo vitale della materia pittorica; lui che vorrebbe sfiorare con il dito medio, «soprattutto perché ha un polpastrello largo», la guancia sinistra della Monna Lisa; lui che sostiene che vedere sia una seconda lingua e di avere un seconda coppia d’occhi, sulla fronte «anche se in un punto imprecisato del cervello», una seconda coppia di occhi che vede pensando; lui che confessa che il piacere del disegnatore si avverte innanzitutto nella striscia di pelle che copre il muscolo palmare tra il polso e il principio del mignolo.

La “litteratosi” secondo Juan Carlos Onetti è quella mania che nella sua forma più grave rende incapaci di distinguere la letteratura dalla vita e che spesso porta a confondere l’una con l’altra. La “tulliopericolosi” è, allora, quel piacevole morbo che contraddistingue chi, vedendo un qualsiasi panorama collinare o un qualunque viso, immediatamente lo traduce e lo trasforma in un disegno di Tullio Pericoli. È un filtro in pronta consegna a chiunque legga i suoi libri e guardi i suoi lavori. Perché ha dipinto per tutta la vita, Tullio Pericoli? Citando Osvaldo Soriano, che sostenne che «si scrive per abitare nel cuore della gente migliore», lui dice di aver dipinto per la stessa ragione.

A Tullio Pericoli, però, è dato più di questo, più di quanto non sia forse consentito agli scrittori: ai suoi disegni sarà infatti sempre concesso di abitare non solo i nostri cuori, ma anche le profondità dei nostri occhi.

 

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