Donne che scrivono, donne che leggono, donne che vendono. Scrittrici, women-writer. Donne che vanno in America: alcuni di questi libri, oltre ad avere successo in Italia, volano più in alto dei premi italiani (che comunque vincono: L’età fragile, Donatella Di Pietrantonio, premio Strega 2024 regular e Giovani). Giocano nel campionato dei grandi, quello di Elena Ferrante. Oh, yes, My brilliant friend, dicono gli scrittori che passano da Roma. Non è che solo lo amano, lo mettono in esergo, lo indicano come ispirazione.

Alcuni critici, gli snob della bolla, tutti i maschi variamente sarcastici: non se ne fanno una ragione. I più banali lasciano a intendere che è una fase (certo, può essere, qualsiasi conquista è una fase: anche Roe v. Wade è stato revocato, potrebbero anche impedirci di scrivere).

I più ironici dicono che sono tutti libri che si possono raggruppare in tre filoni: «“Io sono Malala”, per quelle che dimostrano impegno civile; “io sono malata”, per quelle che ostentano aspetti morbosi o lacrimevoli della psiche o del fisico; “io sono maiala”, per le ammiccanti o pruriginose». Lo ha scritto Antonio Gurrado sul Foglio, e mi ha fatto ridere, con delle maligne l’abbiamo ripetuto per giorni con un certo piacere proibito, come quando a dieci anni cantavamo tutte in coro Short Dick Man (1994). Ma è una suddivisione che ho sempre ritenuto valida anche per i libri scritti da uomini, che hanno sempre proposto storie di iniziazione sessuale con la donna più grande, crociate per sventure altrui (white saviours) e ammantato di letterarietà vari disagi psichici causati dall’indottrinamento patriarcale. Malala, maiala, malata siamo tutti noi scrittori e scrittrici, dovremmo rivendicarlo (Je suis maiala).

Il festival Multipli Forti, promosso dall’Istituto italiano di cultura a New York e curato da Maria Ida Gaeta, riunisce alcune fra le principali voci della letteratura italiana contemporanea. Fra gli ospiti dei prossimi incontri (14-16 gennaio) ci sono molti nomi di scrittrici.

Donatella Di Pietrantonio, già da tempo molto amata negli Stati Uniti, dove l’Arminuta è A Girl Returned, con la traduzione di Ann Goldstein (traduttrice di Ferrante). Ma ci saranno anche due esordienti, una è Aurora Tamigio, che con Il cognome delle donne (Feltrinelli, 2023) è stato un caso editoriale enorme, ambientato nella Sicilia di inizio Novecento, e potrebbe parlare anche all’incessante ricerca di radici di molti lettori americani.

Riequilibrare

Si parla del successo di queste scrittrici con un ragionamento dedicato solo perché storicamente le voci femminili sono sempre state marginalizzate, escluse dal canone, a volte proprio cancellate (possiamo ricordare L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, che è stato in un baule per decenni perché non trovava un editore) e non perché pensiamo siano una moda (non noi, qualcuno lo pensa). È un riequilibrare, più che un ribaltare. Un vendicare molti premi mancati (nel periodo dal 2003, Vita di Melania Mazzucco, al 2018, La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, il premio Strega è stato vinto solo da uomini, cosa che nessuno ha trovato singolare e su cui nessuno ha scritto articoli).

La curatrice Maria Ida Gaeta, dice: «Mi sono trovata a scegliere più donne che uomini, semplicemente perché per raccontare la scena contemporanea, i generi, le scritture in corso, erano significative le scrittrici». All’interno di questa contemporaneità, «ci sono, anche in Italia, le voci di seconda generazione, Nadeesha Uyangoda. Djarah Kan, Cristina Ali Farah. Anche questo era un ponte con una letteratura che esiste anche lì». Il concetto di creare un ponte implica anche la precisa scelta di associare voci che fanno parte di un “canone” a voci giovani: «Un anno in cui c’erano Walter Siti e Fumettibrutti, che hanno due modi diversi di raccontare la stessa cosa». E sul valore dello scambio: «Fare un festival vuol dire portare in un altro paese non lo scrittore singolo, con il suo libro, ma riuscire a creare attenzione su un panorama di narrativa e poesia italiana. Anche grazie alla presenza dei traduttori americani e dei legami le università».

Il paese delle lettrici

In Italia, il 72 per cento dei lettori sono donne. Non so se è ancora vera la regola per cui le donne leggono libri scritti sia da autori che autrici mentre i lettori maschi non leggono libri scritti da donne, forse è per essere sollevati da quest’imbarazzo che molti uomini hanno smesso di leggere del tutto? È vero ancora che leggono più saggi che romanzi, perché sono più seri e “almeno si impara”, come li sentivo dire alla macchinetta del caffè in ufficio? Avranno compreso, quei giovani pubblicitari, il senso dell’arte? Quest’anno la critica tedesca Anna Vollmer ha detto che a leggere i libri italiani si ha l’idea di un paese popolato di donne con fattezze di strega che abitano in luoghi remoti, ci si sorprende a vedere che anche in Italia ci sono i cellulari, una citazione rimbalzata sui social che credo sia indicativa di una cosa che pensiamo noi.

È vero che la contemporaneità è perlopiù esclusa dalla letteratura italiana recente, e non si capisce perché, la mia idea è che sia un problema più generale del paese che si guarda solo indietro in modo pericolosamente nostalgico, e in cui il mercato di una lingua “piccola” sia particolarmente conservatore: se funziona una cosa, non possiamo permetterci di fare gli sperimentatori come possono fare gli americani, in cui anche un romanzo di nicchia può avere un conto economico positivo.

Vivere nel presente

Anche nella letteratura italiana ci sono delle eccezioni e cioè autrici particolarmente orientate al presente, oltre a quelle citate da Gaeta, alcune saranno a New York questo gennaio: Emanuela Anechoum, di cui ho amato il romanzo d’esordio Tangerinn (e/o), che racconta una giovane donna italiana che vive a Londra e il suo rapporto con il padre immigrato, e il suo bar in Calabria, Tangerinn.

Per scrivere un libro contemporaneo mi sembra si debba vivere più nel presente che nei libri. Faccio fatica a pensare che Sally Rooney non viva nelle stanze in cui persone simili ai suoi personaggi (gli ultimi hanno 23 e 33 anni) parlano, giocano a scacchi, fanno sesso. Anechoum ha “vissuto” con quella coinquilina londinese che fa la liberal, ecologista, anticlassista ma vive in un appartamento ereditato dalla nonna nel centro di Londra, e vede nella protagonista un progetto da plasmare, non una pari. Interessante narrativizzazione dei rapporti di classe e di potere fra donne. Gabriella Dal Lago, una voce giovane, scrive sia romanzi sia critica culturale sia nonfiction (Le più brave, Einaudi Quanti). Muoversi tra varie forme è di per sé un approccio contemporaneo.

C’è anche da fare una riflessione sulla “storia”, cioè la trama. Da cui anche il romanzo letterario non riesce a uscire, e alcuni ne avrebbero beneficiato. C’è il timore che senza storia il lettore non prosegua la lettura. E allora come spiegare il successo del saggio narrativo come genere? Olivia Laing (Il Giardino contro il tempo, Il Saggiatore) non è di nicchia.

Dal festival sono passate anche Giulia Caminito, che ha scritto del presente nel suo tema forse più pressante, l’ansia di vivere, la precarietà, in Il male non esiste (Bompiani), e Antonella Lattanzi, che è riuscita a ridefinire i confini del memoir in modo letterario e travolgente, creando qualcosa che non esisteva (Cose che non si raccontano, Einaudi). E Carmen Pellegrino, un’autrice con un forte carattere di ricerca stilistica.

Può sembrare limitante parlare di scrittura considerando il genere di chi la fa, ma è un antidoto allo standard appiattito sul maschile, e cioè che considera la produzione degli autori maschi il metro di ciò che è valido e letterario. Tante storie non sono state conservate, pubblicate, trasmesse; anche Una donna, di Sibilla Aleramo (1906), ha rischiato di non vedere la luce, perché si pensava che il pubblico non fosse interessato. Era solo la storia di una donna. Il pubblico non interessato è spesso la scusa per non rischiare, poi Una donna è stato un caso editoriale, ha venduto molto in Italia e ora, naturalmente, è molto amato in America.

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