Sono stato a trovare il Padre dei Racconti, quello di cui parla Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: un indio vecchissimo, cieco e analfabeta, «fonte universale della materia narrativa». Quando Calvino lo ha conosciuto viveva in una grotta e da lì dipanava, da millenni, tutto il raccontare del mondo; ora si è trasferito in un moderno condominio di calle Carlos Concha, a Lima – è nervoso, si muove a scatti; sul pavimento si ammucchiano, mezzi rotti, quattro o cinque tablet e smartphone.

Lui è lucidissimo come sempre, la comunicazione telepatica scorre senza inciampi, non ha bisogno di muovere la bocca per rispondere a domande che io neppure gli rivolgo. Si sforza di non avere fretta ma non ci riesce fino in fondo; da poco più di due anni i suoi ascolti sono disturbati, mi dice. Gli uomini, strani primati onnivori aggressivi e dal cervello ipertrofico, si stanno svegliando da un lungo sonno in cui avevano brindato al ritorno della Belle Époque; si erano illusi di avere messo le briglie alla Natura e perfino alla Storia, cioè alla storia secondo loro, immaginata come un fiume uniforme che da monte scende a valle. Così c’era posto per gli artifici più raffinati e le immaginazioni più audaci: si potevano seguire i diavoletti delle perversioni, le fantasie del metaverso, le fisime dei giocolieri di desinenze.

L’umanità finalmente priva di vincoli si permetteva il lusso di diatribe intestine, dilemmi sofistici, lunghe virtuali pippe sul precipitare nell’irrealtà; intelligenze artificiali avrebbero preso il posto di quelle biologiche per le incombenze servili, o forse perfino per le cariche direttive e pericolose. Ma non era che un sogno.

Ora che sono tornato a casa, a Milano, fatico a ricordare le puntigliose recriminazioni del vecchio di immemorabile età; ma ne ricordo l’affanno, come se gli fosse venuta a mancare quella leggera nebbia che gli garantiva la profezia. Tutto preme allo stesso tempo, diceva: negli ultimi due anni è un urlìo continuo, anche la povera gente sempre lì a pestare sui tasti. Sono gli istrioni ad avere ragione, mentre le volpi ammaestrate stanno nel libro paga degli imperi. La Storia si è ripresentata coi massacri in zone nevralgiche, prender partito non è difficile ma qualcosa sfugge di sbieco; nulla mai si ripete uguale, il quadrilatero delle forze fa i conti col granello che inceppa gli ingranaggi.

Nei paesi lontani dal tiro alla fune, la competizione globale è oscurata dai virus e dalla siccità, o dalle onde che rosicchiano la costa. Le alternative più assurde si rivelano di colpo reali; i fatti più gravi accadono così piano che l’occhio non li coglie; le urgenze danno spettacolo, il sapiens sapiens si rifiuta di tracannare il calice dei propri guazzabugli.

Come tutto questo può diventare finzione? A quel punto il Padre dei Racconti si è deciso a compiere un gesto con la dovuta solennità: si è portato l’indice alle labbra, nel segno del silenzio che è raffigurato ad affresco in alcune biblioteche di frati. Scendendo le scale buie del povero condominio ho notato un ragazzo di etnia indefinibile che tremando si teneva la testa tra le mani, seduto su uno scalino: da sotto le braccia magre usciva un flusso scivoloso di fonemi, un amalgama mal riuscito di lingue diverse, come una cantilena; il senso non si capiva ma l’intonazione evocava un cupo fanatismo intriso di misteriosa allegria. Le parole mutano cancellando memoria.

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