Siamo tutti galileiani – titolo dell’aureo libriccino di Massimo Bucciantini – potrebbe suonare un’affermazione, un’esortazione. Io la leggo piuttosto come un mesto auspicio (data la condizione del presente Zeitgeist, lo “spirito del tempo”) che la storia della cultura sia finalmente divisa da un prima e un dopo Galileo.

La data di stampa del Sidereus Nuncius, il 13 marzo 1610, segnò infatti per B. il trapasso dal mondo del pressappoco all’universo della precisione con l’avvenuta scoperta che «niente è come appare», nella natura inanimata che parla il linguaggio delle matematiche ma anche nell’animo umano, nelle cui pieghe indagò spietatamente un coetaneo di Galilei, William Shakespeare (per B. esiste un’epoca di Gawill, Galileo e William).

La lezione di Galileo, innanzitutto, esorta a ripensare drasticamente la distinzione e gli stessi ambiti delle discipline umanistiche e scientifico-naturali («come le razze, le discipline non esistono», scrive il B.), e a valicarne i confini.

“Frontaliero” tra storiografia e critica letteraria e storia della scienza, tali confini il B. li varca da sempre, clericus vagans da Siena a Zurigo e Parigi e tra Galilei, Keplero, Calvino (Italo però), Gadda, Primo Levi, ma anche – aggiungo io – Pietro Gori, sovversivo anarchico, cultore del libero pensiero, razionalista, dunque “galileiano”.

La resistenza del pensiero critico

Siamo tutti galileiani sembra infine l’invocazione laica alla resistenza del pensiero critico nell’epoca di una sfera dell’opinione pubblica dominata dai social media, alla sopravvivenza stessa dell’umanità, ad un minimo di decenza politica oggi perduta: nous sommes tous des juifs allemands – almeno si urlava a Parigi dopo l’espulsione infame del sovversivo Cohn Bendit, in maggio 1968.  

Siamo tutti galileiani è invocazione non a farsi tutti scienziati (e, peggio, scienziati dediti al solo “risvolto applicativo e tecnologico” della ricerca o alla riduzione della formazione scolastica a costruzione di competenze, skills).

È invocazione, invece, alla formazione di intelligenze critiche e alla capacità di nutrire gli esperimenti mentali in fisica o in letteratura con un metodo rigoroso, così da rafforzare anche un’altra resistenza: alle retoriche persuasive, alle emozioni artificiali, alle falsificazioni – cioè, alle patologie di massa connesse non alla caduta della memoria storica, come ritiene l’ottimo Adriano Prosperi citato dal B., ma, semmai, alla sua ipertrofia digitale (questa però è un’idea mia).

Materia di fede

L’Italia, per il B., ha sofferto nei secoli proprio della cancellazione del rigore metodologico galileiano, dovuta alla condanna ecclesiastica comminata nel secolo XVII, sia – tra Otto e Novecento – ma anche alla deprecabile egemonia dell’idealismo attualistico o storicistico: condanna della chiesa motivata dal copernicanesimo di Galilei, ma forse e ancor più dalle conseguenze potenzialmente eretiche del suo atomismo (“gli indivisibili” della luce, i “minimi ignei” del calore, ecc.) di ascendenza lucreziana, che costituiva una grave minaccia al dogma della trasformazione sostanziale dell’eucarestia in corpo e sangue di Cristo. La fisica era per la chiesa materia di fede.

La condanna della libertà per i dotti di filosofare in naturalibus si affiancò alla proibizione della libera lettura della Bibbia in volgare, per i semplici, generando il profondo analfabetismo culturale e religioso italico, che divenne endemico in una società agricolo-patriarcale e in una cultura centrata su valori di ascendenza (pseudo) classica.

Galilei fu invece un profondo lettore, oltre che di trattati matematico fisici, proprio dei classici – Virgilio, Seneca, Lucrezio, Tacito, ecc. – e anche per tale ragione egli divenne il referente magistrale di quella linea letteraria e di pensiero critico minoritaria, via via costituita da Leopardi, Gadda, Calvino (Italo), Levi (Primo): tutti convinti che scienze e lettere siano due specie reciprocamente interfeconde nella ricerca e necessariamente intrecciate nell’educazione scolastica.

“Due rami dello stesso albero” – scrive il B. – come la stessa tecnologia, “anch’essa una forma di cultura” che, rischia oggi però di “produrre una nuova spaccatura, ugualmente rovinosa” (pagina 54).

Rimanere galileiani

Bucciantini ha ragione: tutti i saperi moderni non possono prescindere dalla fisica classica, e questa stessa – la fisica galileiana – non è stata affatto superata, in particolare per i fenomeni macroscopici su scala terrestre: della nuova fisica, essa rimane anzi la premessa concettuale.

Quest’ultima, che per convenzione nasce con le intuizioni di Einstein e la meccanica quantistica di Dirac, risale più probabilmente alle aporie della fisica atomica, statistica e dello stato solido – le grandi creazioni dell’Ottocento, sollecitate anche dallo sviluppo enorme della produzione industriale e del libero mercato capitalistico.

Ma pare che oggi quel dominio della fisica, perdurato per quasi tutto il XX secolo almeno sino all’impiego militare dell’energia atomica, sia stato soppiantato dall’elettronica e dall’informatica, tutte scienze rivolte all’applicazione tecnica e poco inclini a cercare di capire il mondo.

Sono scienze che discendono dalla fisica, ma ne tradiscono l’inclinazione speculativa, che sempre ha avvicinato la fisica alle scienze umane. E senza inclinazione speculativa da condividere, possiamo noi tutti, scienziati e umanisti, rimanere ancora galileiani?

Una nuova relazione

E vi sono ulteriori difficoltà che nascono proprio dallo sviluppo delle scienze. Il nuovo principio di indeterminazione, ad esempio, ha incrinato il principio della fisica classica, deterministico, che la realtà, a partire da uno stato definito, sia completamente determinabile; così come i teoremi di incompletezza di Godel hanno rivelato che, in qualunque sistema formale, esistono proposizioni vere, e tuttavia non dimostrabili in base agli assiomi di partenza. Così la matematica, che per Galilei era un sistema perfetto, coerente e completo, non è più tale.

Se anche ciò che non si può dimostrare non dev’esser per forza falso, come si credeva nella fisica classica galileiana, verità e dimostrabilità non coincidono più (come era massimamente per il determinismo positivistico) perché esistono affermazioni vere, però non dimostrabili. Ma, forse, proprio l’indeterminismo quantistico consente di ripensare in termini nuovi le relazioni tra fisica e discipline umanistiche.

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