Un giorno mi telefona il Leviatano. No, per fortuna non è il gigantesco mostro biblico elevato da Thomas Hobbes a simbolo del potere dello stato sull’individuo: è più modestamente il mio spacciatore di libri di fiducia, un mercante visionario e abilissimo di libri rari, strani e fuori commercio, che in rete si fa chiamare appunto “Leviatano”.

In più è un amico che mi conosce bene, per cui quando mi dice «ho una chicca per te» tendo a credergli. Ma questa volta si è superato nella profilazione.

Il bottino è un piccolo volumetto, pinzato, di sessantasei pagine dal titolo Il computer da scrivere. Come scegliere e usare il programma elettronico ideale. Autore: Umberto Eco. Allegato all’Espresso numero 46 del 1986, Il computer da scrivere è una minuscola ma straordinaria prova del multiforme genio di Eco.

Non che ce ne fosse bisogno, di altre prove intendo: ma questo concentrato di sagacia, intelligenza e passione applicata a un aspetto apparentemente minore come la videoscrittura fa capire tante cose – non solo dell’atteggiamento di Eco di fronte al nuovo, ma anche di come è cambiato in trentacinque anni il nostro rapporto con le macchine.

Eco nerd

Ma andiamo con ordine. La prima cosa che colpisce è che il grande filosofo allievo di Pareyson, lo studioso di Agostino e della scolastica medioevale, il semiologo e autore di best seller, si mette lì e scrive 66 pagine di una cosa definibile come manuale tecnico-recensione-guida all’acquisto: «Ho provato i sistemi di scrittura su di un PC IBM, su un Olivetti M23 e su un Olivetti M21 (portatile). Ricordate comunque che un buon sistema di scrittura richiede una memoria adeguata: potrà essere opportuno far aggiungere al vostro personal una piastra che ne aumenti la memoria».

Quindi si dedicherà alla “prova su strada” di tre programmi di scrittura: “il” Wordstar, il Framework, il Display Write. Curiosamente li chiama anteponendo sempre l’articolo, cosa che non facciamo più per i software: non diciamo “apri il Word, usa il Pages”… ma (prima grande differenza con il 1986) il punto è che non usiamo nemmeno più tanto “i programmi”.

Almeno non come dieci o quindici anni fa, e non nell’uso quotidiano: certo esistono ancora per compiti specifici, se vogliamo fare della grafica usiamo Photoshop, se impaginiamo apriamo inDesign, ad esempio. Ma la maggior parte dei compiti più ripetitivi e basilari sono fatti direttamente dentro il web o con delle app.

Non leggere il manuale

Molto spazio Eco lo dedica a un’altra cosa di difficile comprensione oggi per chi non ha vissuto quell’epoca informatica: i manuali.

«Se acquistate un sistema di scrittura dovete apprenderlo leggendo il manuale. Evitate l’istruttore della ditta fornitrice, perché è raro che capisca le vostre esigenze».

I software erano pochi, cari e soprattutto complicati da utilizzare. Anche quelli destinati ai compiti (relativamente) più semplici, come i word processor, dovevano essere studiati.

«L’autore di manuali segue alcune regole: a) dire le cose nel modo più complicato possibile, così che lo capiscano solo altri autori di manuali; b) mettere l’informazione più importante a pagina 124, o preferibilmente in appendice. Perché fanno così? Perché sono pazzi (si sa che passare dodici ore al computer manda il cervello in acqua)».

E quindi ecco perché c’erano le recensioni, come queste di Eco, le guide, le riviste specializzate, un intero settore dell’editoria che pubblicava libri dedicati a software e linguaggi di programmazione: semplicemente per utilizzarli. (E poi è arrivato Aranzulla).

Il prof e il floppy-disc

È incredibile l’attenzione e la precisione con cui Eco si dedica all’analisi dei tre software. Innanzitutto individua cinque interlocutori ideali, in un altro ambito lui li avrebbe definiti “lettori modello”, immaginando i loro bisogni e esigenze: Il “signor Rossi” («ha da scrivere delle lettere, tenere degli appunti, stendere dei rapporti per l’ufficio che stanno nell’ambito di poche cartelle»), il giornalista, il saggista, lo scienziato («può essere un matematico, un filologo che deve fare un’edizione critica, uno storico che cita una bibliografia in diverse lingue»), il romanziere.

È evidente come tutti questi “personaggi” sono diversi aspetti del multiforme genio echiano: come coerentissime personalità multiple, sono tutte variazioni di Eco.

Poi passa all’analisi di quanti dischi servano per far funzionare i programmi, quanto tempo ci mettano a avviarsi (compreso il sistema operativo), quanti secondi a salvare un file e quante battute memorizzi su un singolo floppy, quanti “tocchi” servano per attivare certi comandi (all’epoca non c’erano interfacce grafiche in cui muoversi col mouse, ma menù da attivare attraverso comandi da tastiera, spesso da memorizzare).

Alla fine della sua prova, Eco converrà che la scelta migliore, «almeno in base alle mie esigenze», è quella di WordStar 2000 della MicroPro. 

Il personal Golem di Primo Levi

Eco, come si capisce da questo libretto, è un utente dei sistemi Ibm. Già all’epoca si produsse la frattura Pc vs Mac anche tra gli scrittori: nel 1984 Primo Levi acquistò un Macintosh rimanendone stregato.

In questo essere inanimato che, attraverso l’imposizione della scrittura, eseguiva dei comandi per il proprio padrone, Levi ci vedeva la versione moderna del mito ebraico del Golem. Nel novembre del 1984 scrive un articolo per La Stampa proprio dal titolo Personal Golem (ripreso nella raccolta L’altrui mestiere con il più sobrio titolo Lo scriba): «Mi sono chiesto se i costruttori del mio apparecchio non conoscessero questa strana storia del Golem (sono certo gente colta ed anche spiritosa): infatti l’elaboratore ha proprio una bocca, storta, socchiusa in una smorfia meccanica.

Finché non vi introduco il disco-programma, l’elaboratore non elabora nulla, è un’esanime scatola metallica; però quando accendo l’interruttore, sul piccolo schermo compare un garbato segnale luminoso: questo, nel linguaggio del mio Golem personale, vuol dire che esso è avido di trangugiare il dischetto».

In un passaggio (che sembra anticipare il Foster Wallace di Questa e l’acqua), anche Levi si sofferma sui manuali: ma è un modo per riflettere sul rapporto tra l’uomo e i suoi strumenti, tra l’umano e la tecnologia: «Imparare a usare un computer sui manuali è stolto quanto pretendere di imparare a nuotare leggendo un trattato, senza entrare nell’acqua: anzi, senza neppure sapere cos’è l’acqua, avendone solo sentito parlare».

Il Macintosh, Levi lo userà addirittura per disegnare: proprio la copertina della prima edizione dell’Altrui mestiere è un suo bellissimo gufo fatto al computer.

Come scriviamo

Confesso che la mia fascinazione per questa storia nasce anche da un episodio personale: finalmente dopo anni, anzi dopo aver sempre pensato che fosse impossibile, mi sono da qualche anno emancipato da Word.

Per decenni la corazzata di casa Microsoft, ogni nuova versione sempre più pesante, farraginosa, spesso tendente all’imprevisto e nefasto crash, sembrava l’unica cornice in cui immaginare la scrittura a computer. Fortunatamente non è più così.

Lo stesso Google Doc, il wordprocessor online di Google, che quando fu lanciato sembrava poco più di un esperimento – o al massimo un ripiego – ha raggiunto un livello di perfezionamento tale da renderlo un’opzione accettabile (soprattutto per cose non troppo lunghe e in collaborazione).

Ma la svolta, «almeno per le mie esigenze», c’è stata con la scoperta di programmi come Ulysses dove la scrittura stessa è emancipata dalla metafora del “foglio” e si possono organizzare spazi per gli appunti, per i materiali preparatori, dividere i capitoli in cartelle e sottocategorie… Ma è un discorso lungo, forse dovrei scriverci un manualetto.

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