Lo scrittore guardò con sincero disinteresse le tre fascette che l’editore gli proponeva per il suo nuovo romanzo. La prima diceva: «Si legge in poche ore e poi non si dimentica più»; la seconda: «Se leggete un solo libro l’anno, fate che sia questo»; la terza: «È un capolavoro». Scelse la terza perché era la più concisa, anche se già nel risvolto di copertina la nota redazionale faceva intendere tra le righe che sì, quello che il lettore teneva in mano era proprio un romanzo eccezionale, il migliore della stagione.

Appena il romanzo uscì lo scrittore venne chiamato da sua madre.

«È un capolavoro!» gli disse.

«L’hai già letto?» 

«No, ma che c’entra?»

«Mamma, almeno tu potresti essere obiettiva», si lamentò lo scrittore. «E dirmi la verità».

«È un capolavoro punto e basta. E poi lo dicono tutti, non li hai comprati oggi i giornali?»

Capolavoro per diritto

Lo scrittore chiamò il suo ufficio stampa e si fece girare la rassegna del giorno. In effetti, erano uscite alcune recensioni molto elogiative, e in tutte veniva usato quell’appellativo quasi con nonchalance, “capolavoro”, come se fosse scontato che un romanzo appena uscito di un autore noto pubblicato da un editore importante magari considerato favorito a un premio prestigioso non potesse essere definito in altra maniera.

«Che il mio romanzo sia un capolavoro sembra quasi un diritto più che un merito», ironizzò lo scrittore con un suo amico che voleva pubblicare con il suo stesso editore.

L’amico però non fece una piega. «È un capolavoro, lo dicono tutti, e te lo dico anche io».

«Andiamo! Lo dici solo perché speri che ti metta in contatto con il mio editore».

«Anche se fosse? Non ci vedo nulla di male nella piaggeria».

Il romanzo era uscito da una settimana, e lo scrittore non ne poteva già più di quella valanga di complimenti. Sui social partì il consueto trenino dei colleghi romanzieri. Era una gara a chi la sparava più grossa, tant’è che la parola “capolavoro”, ritenuta una lusinga troppo sintetica, venne sostituita da abili perifrasi per dilungare quanto più possibile l’ossequio.

«Do ut des», sbuffava lo scrittore, sempre più annoiato e perfino disgustato da quei salamelecchi virtuali. «Oggi loro dicono a me che ho scritto un capolavoro, così domani io lo dirò a loro».

In effetti, erano tutti capolavori. A un’attenta analisi delle newsletter editoriali, dei lanci d’agenzia, dei comunicati stampa, delle segreterie dei premi, quegli anni pullulavano di capolavori, capolavori di qui e capolavori di là. Capolavori del realismo, capolavori del minimalismo, capolavori del postmoderno, capolavori del thriller e del giallo e del noir (che erano generi diversissimi, si badi bene, ma uniti dal loro essere unanimemente riconosciuti, per l’appunto, capolavori assoluti). Uscirono un paio di incontestabili capolavori addirittura tra i libri di scacchi e di cucina!

Ottima pubblicità

Lo scrittore, al culmine dell’esasperazione, chiamò in casa editrice.

«Potete far smettere di elogiare il mio romanzo?» chiese, incarognito.

«E perché mai dovremmo farlo?»

«Perché sono elogi falsi, perché è pura retorica dell’encomio, perché è una melassa generale che copre e uniforma il gusto particolare di ciascuno».

«Non ti piace piacere? Di solito gli scrittori smaniano per essere apprezzati e accettati».

«Ma un tempo non smaniavano per l’opposto? Per essere detestati e messi ai margini?»

«Temo che la tua sia una fuorviante mitologia adolescenziale».

«E i Baudelaire? E i Céline? E i Proust? Non ci vorrebbe un po’ di rispetto per chi i capolavori li ha scritti sul serio?»

«Per noi è soltanto buona pubblicità».

«I lettori credono che sia vera, però».

«Allora vuol dire che funziona».

«I lettori si esaspereranno molto presto, come del resto hanno già cominciato a fare gli scrittori. Non siamo tutti degli idioti, sai?»

«Abbiamo pubblicato tutti i tuoi libri, ci conosciamo da anni», disse l’editore, con una voce conciliante e sovraeccitata allo stesso tempo. «Non è colpa di nessuno se sei bravo, se sei fenomenale, se sei stratosferico, se sei geniale, se sei irrinunciabile, se hai scritto dei capolavori!»

Allo scrittore scappò una risata amara. «Sono unico, hai ragione, tale e quale a tutti quelli che pubblichi».

Dove sono i libri brutti?

Lo scrittore parve rassegnarsi. Quella sera portò a passeggio una sua vecchia amica di grande cultura, sicuro che con lei avrebbe potuto almeno sfogarsi.

«Di quanti romanzi hai sentito dire che sono dei capolavori tra le uscite recenti?» le domandò, inviperito.

L’amica, intuendo il senso del discorso, cominciò a sghignazzare.

«Direi della maggior parte, anzi di tutti, naturalmente compreso il tuo». 

«Ma se sono tutti capolavori, allora non lo è nessuno».

«Esattamente, gli editori ci guadagnano a confondere le acque. Ti ricordi la famosa frase di Hegel contenuta nella Fenomenologia dello spirito? La notte in cui tutte le vacche sono nere le differenze non si distinguono più».

Lo scrittore sembrò rifletterci attentamente. «Bisogna sempre tornare al dizionario, la parola “capolavoro” ha un significato preciso. Il capolavoro è la migliore di una serie di opere. Se davvero uscissero solo capolavori dove sarebbero quelle opere di cui, per l’appunto, il capolavoro dovrebbe rappresentare il capofila?»

«E c’è una cosa ben più grave. Se il capolavoro è un’opera capofila, cioè in fondo un’opera riconosciuta e decodificata a tal punto da essere al primo posto di una serie, dov’è finito l’azzardo e la scommessa a perdere della letteratura?»

«In parole povere, dove cazzo sono finiti i libri brutti? Quelli che dividono, quelli che risultano detestabili proprio perché vanno contro le idee correnti della società e della storia?»

«Giusto! Dire di una novità che è un capolavoro vuol dire già annullarla, renderla vecchia, ucciderla, museificarla». 

«Un’epoca di capolavori è un’epoca di opere morte, buone per essere consumate e digerite, senza sommovimenti, senza incomprensioni, senza lotta».

«Del resto questi capolavori non prevedono nessun reale dibattito dirompente, nessuna incomprensione, nessuno sbrego, ma soltanto una banale transazione economica, quella dalle tasche del cliente alle casse della filiera editoriale».

In parte rinfrancato da quella conversazione, lo scrittore rincasò deciso a scrivere una lettera aperta da pubblicare su un grosso quotidiano intitolata: Contro i capolavori. Ci avrebbe messo dentro tutto, dalle fascette disoneste alle recensioni marchetta, dal consenso strumentale dei colleghi al finto alloro dei premi.
Proprio in quel momento gli arrivò un messaggino della sua amica: «Guarda in rete che succede, forse non tutto è perduto». Lo scrittore aprì il link allegato al messaggio e si ritrovò su un forum di lettori che palesemente avevano frainteso il suo romanzo.

«Cos’è questa merda?», «Il protagonista è antipatico e lotta per le cause sbagliate», «Delirante», «Non capisco perché gli editori pubblichino roba simile». Gli occhi dello scrittore prima si illuminarono e poi si riempirono di lacrime di gioia. D’improvviso quella sequela d’improperi – cosi simili a giudizi sommari, a crolli nervosi, che nascondevano la sublime e umana paura della ricezione dell’opera – gli parvero i complimenti più belli del mondo.

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