«La vita è una merda ma io sono il primo che caga» (Baby Gang)
Stavolta è veramente complesso cercare di fare ordine dentro il casino dell’arresto dei tre musicisti diciamo “milanesi” della settimana scorsa. Premessa: per facilità li chiameremo così, “rapper”, per non entrare in sub-categorie ulteriori.

Ci proviamo. Innanzitutto i protagonisti centrali come sapete sono tre: Baby Gang, Simba la Rue e Touchè. In seguito li andremo a descrivere uno a uno. Per adesso, un breve riassunto dei fatti.

Negli scorsi mesi Touchè fa provocazioni continue su Instagram contro Simba la Rue, e viceversa. È un classico della scena, sono risse o allusioni verbali amatissime dai fan del genere, in assoluto. Simba alcuni mesi fa sequestra Touchè e con un video girato in macchina (veramente incredibile) lo umilia pubblicamente.

Attraverso un meccanismo difficile e anche inutile da riassumere e che ruota intorno a presunte delazioni di una signor(in)a chiamata Bibi Santi, fidanzata prima di uno e poi dell’altro, Simba becca delle gran coltellate da una gang quest’estate e se ne va all’ospedale.

Per un caso assoluto esce nello stesso momento dal carcere – dove entra spesso con accuse di vario tipo – Baby Gang (che al volo, tra l’altro, invita a votare Berlusconi): fa subito una cazzata, s’azzuffa con due senegalesi a botte di stampelle e revolverate, ecc. Fatte le indagini e una fraccata di intercettazioni, li hanno messi dentro tutti e tre.

A questo punto serve un racconto più dettagliato di chi sono i tre, che è una buona idea comporre attraverso la narrazione che di loro traspare soprattutto dai video e dalle storie su Instagram, e che costituisce una sorta di “cinema” parallelo di straordinario interesse da parecchi punti di vista, sociologici in primis.

Baby Gang

Rapper, eccellente tra l’altro, nativo di Lecco da famiglia marocchina – era in carcere per carichi pregressi, ma questo era stato un fatto normale nella sua vita tra comunità, case-famiglia e gabbio vero e proprio.

I preti sono quelli che lo hanno aiutato di più, tra questi quel sant’uomo di Don Burgio, citato e intervistato da tutti durante questi giorni di cronaca isterica.

Zaccaria, così si chiama all’anagrafe, ha video straordinari su pezzi incisi in studio dove, in qualche caso, arrivava scortato dalle volanti della polizia e poi riportato dentro in giornata.

Su tutti spicca il toccante Mentalitè, girato con una delle sue crew visive di coetanei, una miniatura sull’infanzia vissuta dentro gli slum popolari, tra le persone che ci abitano e ci sono arrivati dalle provenienze più svariate, e tutto quello che si può immaginare.

Di grandissima classe è la sua performance in Marocchino, pura dinamica nello spazio del quartiere girato in piano sequenza, bianco e nero.

Simba la Rue

Mohamed Lamine Saida sulla sua carta d’identità, con un solo album su etichetta Atlantic (quella di Aretha Franklin, per dire) per Warner Music Italia. Anche in questo caso al di là dei contenuti testuali la visualità è completamente lontana dalle quattro minestrine in croce del resto dei colleghi.

Neonlight e maschere, uso del greenback per messa in abisso molto sciolta, passaggi su gite al lago o in montagna oppure a palla dentro i tunnel in centro, ma soprattutto dronate su casermoni casermoni casermoni e un sacco di gente, di amici per lo più di seconda generazione, che poi sono tutti quelli che hanno abitato lì fin dall’infanzia: albanesi, senegalesi, romeni, marocchini e tunisini ovviamente, nigeriani e ghanesi, altre provenienze balcaniche, rom inclusi. La comunità sudamericana sembra stare un passo indietro, in altri luoghi.

Stanno tutti a venti minuti dal centro di Milano, a San Siro. Sono le case popolari della regione, dove c’è l’incredibile torre graffitata di via Selinunte in mezzo, non a caso citata dentro il mixtape 2022 della Seven 7oo, chiamiamolo il collettivo centrale del movimento.

Comunque, per rientrare nel centro della faccenda, pure Simba sta sempre a far casini, con gruppone multi attorno.

Touchè

Poi c’è Touchè, di fuori Padova, sempre seconda generazione, che nulla meglio pennella di un candido servizio del Tg1 (sempre su YouTube).

Ma pure di un bellissimo ritratto/clip di pendolarismo sulla Trenord che arricchisce il bouquet visuale di un nuovo cinema che solo così possiamo vedere, ignorato dalle produzioni degli "autori” che tirano a campare con pappette insipide che da sempre stanno in piedi a stento coi contributi ministeriali, ma anche dalle produzioni firmate dagli showrunner Netflix e Sky, vedi Blocco 181 prodotto con Salmo con risultati semplicemente abissali.

Da questa parte ci sono invece registi e d.o.p. ventenni (a volte meno, 18, 17 anni) che semplicemente maneggiano i mezzi di produzioni contemporanei con la normale fantastica agilità generazionale, non spendono nulla o quasi, sfondano gli occhi coi colori fluo da Euphoria o I may destroy you viste con le password tarocche, ma soprattutto sanno raccontare, e sono gli unici, la vita in particolare di una Milano che, yes, non vorrebbe proprio che tutto questo esistesse, che non ci fosse periferia, perché rovina ogni piano europeo e gli scali ferroviari fichissimi e le riforestazioni, che si vorrebbero fare anche qui, dove persino degli idioti capirebbero che serve ben altro.

Il d.o.p. Alessandro Girbino e altri, vedi Redcoos di origine egiziane, sono operatori dell’immagine che, come nei casi inglesi e americani fin dagli anni sessanta accompagnano i rapper fin dai loro inizio, uno sta in fissa con la musica e l’altro con la visione smartphonica. Perché si vive e si cresce insieme, e poi chissà dove si va a finire.

La coscienza esatta di vivere dentro certe geometrie è stata estremamente alta come non mai in questi sette anni e nelle evoluzioni della scena che dalla trap iniziale portano, con qualche buco normalissimo, alla drill attuale, quella per esempio praticata dai nostri tre ragazzi.

E che incrocia sonorità Uk (più forti in alcuni, come in RondoDaSosa, forse il migliore musicalmente) e costruisce collegamenti con la scena francese sonora e visiva seguendo la scuola dei cari vecchi Pnl (nonché dell’Afrotrap crescente anche in Italia). Poi ci sono anche le ragazze, musiciste, ma davvero sarebbe troppo lunga. Belle toste, comunque.

Mondo parallelo

Del resto si tratta dell’unica scena (diciamo) hip-hop mai riuscita a pensarsi come parte di un network internazionale complesso: quella di seconda generazione marocchina dialoga con il mondo arabo intero e da qui con quello francese o viceversa (con ospitate reciproche).

E realtà inglesi importanti come Central Cee vengono qui a girare video imponenti, convocando tutti quelli che sono stati nominati fin qui, o quasi.

Morale? Trattasi di gente, spesso firmata da major o sotto contratto con etichette licenziate a label multinazionali, o parte di società di management note, di cui moltissimi avevano sentito parlare poco e niente fino al bordello dell’altro ieri. Un mondo parallelo solo apparentemente alieno al resto del mondo. Tutt’altro, in realtà.

Per una volta è stata invece la sociologia più attenta a rizzare le antenne. Basta dare un occhio al numero intero di Terre Urbane non a caso chiamato Della coca, della piazza e degli spari.

Sebastiano Benasso, ricercatore di sociologia dell’Università di Genova, parla giustamente di «produzione di panico morale che va avanti da un po’ di mesi».

Infatti, tutto è a metà tra la verità, la farsa e la normale vita di merda, social inclusi.

Ma la questione è un'altra. E ancora la sociologia sul pezzo entra in campo. Benasso: «Per la prima volta si vede questa vita e a parlarne in ogni caso sono le voci non bianche».

Sta non a caso per uscire da Nova Logos un libro collettivo su tutto questo universo da lui curato insieme a Luca Benvenga (università di Lecce), per dire quanto intensa è l’osservazione del fenomeno.

Lockdown e impennate

C’è una chiave di spiegazione finale estremamente utile. «Tutto questo ci parla delle conseguenze del lockdown», commenta Agnese Maccari, antropologa dell’università di Torino. «Chiusi e bloccati, i quartieri di periferia hanno perso il contatto con il centro e questo fenomeno ha accelerato il rigetto dello stesso. Si è persa la relazione classica tra i due poli, che ora diventa “non siamo più noi a dover venire lì, ma siete voi che volete venire qui e volete diventare come noi”». Insomma, si è optato per l’ostentazione della propria bolla, il quartiere, mostrato dalle riprese dall’alto dei droni, come una teca in un museo.

Tutto esprime l’idea di “chiuso” e non a caso non vi è alcun impegno di questi artisti nei live; tutto si concentra su video e social, dove vestono come nella drill inglese o come nella trap francese (passamontagna e guanti, borsello, tute anonime, maglie da calcio, oppure vestiario brandizzato non dissimile alla merce fake), moda che risulta lontana anni luce lontana dall’esibizione bling precedente. Non c’è cura o ricercatezza del personaggio, se non la presenza ingombrante del mito del mafioso.

Tocca pure allora ricordare in tal senso i riot durante la fine del lockdown del 2021 durante il tentativo di stoppare le riprese di un video di Neima Ezza. In quel caso comparvero sui muri di San Siro scritte in francese identiche a quelle fatte durante analoghi moti a Parigi.

E, botta finale, ecco comparire sulle nostre strade direttamente dalle rue di periferia francesi ma anche da Philadelphia, anche l’ultima fissa: la superimpennata con la megamoto, unico segno reale di possesso di denaro. Siamo solo all’inizio di tutto.  

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