Vistando le sale delle Gallerie d’Italia in piazza Scala, a Milano, che accolgono 96 marmi della collezione Torlonia, ho pensato che nessuno più del nostro ex premier Silvio Berlusconi potrebbe apprezzare questa mostra. Il perché lo scoprirete se avrete la pazienza di andare avanti nella lettura.

La mostra presenta una raccolta di statuaria classica proveniente dalla collezione privata della famiglia Torlonia, che nel corso del XIX secolo aveva raccolto un considerevole numero di sculture antiche provenienti sia da acquisizioni di importanti collezioni storiche appartenute a famiglie patrizie romane sia da scavi nei terreni di loro proprietà. 

Confluirono nella raccolta, che oggi consta di 620 opere, un considerevole numero di sculture della collezione messa insieme nel XVII secolo dal marchese Vincenzo Giustiniani, e di opere appartenute allo scultore e restauratore Bartolomeo Cavaceppi (1717-1799). Nel 1886 la famiglia Torlonia comprò anche villa Albani che aveva visto riunirsi intellettuali e artisti come Giovanni Battista Nolli, Giovanni Battista Piranesi e Johann Joachim Winckelmann, che ebbero un ruolo importante nella nascita del movimento neoclassico. Questo portò ad ampliare la collezione di marmi antichi con sculture neoclassiche.

Restauro creativo

Un aspetto interessante di questa collezione è dato dal tipo di restauro adottato nel tempo, che ha salvato buona parte di questi preziosi marmi dalla distruzione, dalla dispersione e dall’oblio, e tuttavia oggi diremmo che questa forma di conservazione ha preso corpo anche distruggendo parzialmente, manipolando o snaturando importanti reperti.

Curiosa antitesi, non trovate? Sì, perché il criterio adottato in passato per il restauro di buona parte dei marmi prevedeva che il reperto si presentasse integro e senza pecche, per rispondere a un’idea di bellezza. La statua di Ercole (Ercole con leontè e pomi delle Esperidi), proveniente dalla collezione Giustiniani, ne è un esempio estremo. Non si tratta di un restauro come lo intendiamo oggi, ma di una vera invenzione, un pastiche realizzato assemblando 112 frammenti tra parti appartenenti ad altre sculture classiche e ricostruzioni fatte con differenti marmi.

Nell’insieme, spiega Carlo Gasparri, che cura la mostra con Salvatore Settis, la statua di questo giovane Ercole raccoglie marmi di diversa provenienza, antichi e moderni. Una prassi non insolita in passato, specie nel XVIII in cui c’era una grande disponibilità di marmi antichi con caratteristiche e patina simili, provenienti da reperti archeologici.

La statua di Ercole citata non è un caso unico. Nella collezione troviamo, per esempio, una statuetta proveniente sempre dalla collezione Giustiniani, una rappresentazione di Apollo con la pelle di Marsia ottenuta mettendo insieme frammenti di diverse sculture antiche e integrazioni.

Una statua di Satiro in riposo, anche questa già nella collezione Giustiniani, è frutto della stessa pratica di restauro creativo. A un ritratto maschile, detto Eutidemo di Battriana, sono stati ricostruiti e aggiunti «l’orlo dell’orecchio sinistro, la punta del naso e ampi tratti della falda del copricapo. […] Sul lato destro del collo si vede una traccia del lembo della veste, poi levigata». Si tratta solo di qualche esempio, l’ampio catalogo, edito da Electa, è un prezioso documento in tal senso.

Non sempre chi ha lavorato a quelli che per consuetudine consolidata continueremo a chiamare restauri ha agito in assenza di criteri scientifici. Il recupero di questi marmi, per quanto arbitrario possa apparire, è stato realizzato in più casi a partire da indicazioni reperite in antiche stampe, nei dettagli di un dipinto o in testimonianze scritte.

Questo fermo restando che l’atteggiamento nei confronti dei reperti archeologici era allora ben diverso da quello odierno, basti pesare che nella seconda metà del XVIII secolo Giovanni Battista Piranesi ottenne dei grandi candelabri o vasi da libagione assemblando in maniera molto creativa frammenti di scavo di epoca romana antica. Abbiamo avuto modo di vedere di recente alcuni di questi esemplari nella mostra Gran Tour, sempre nella sede milanese delle Gallerie d’Italia.

Ferite in evidenza

Oggi il rispetto per il reperto archeologico porta a ritenere che laddove due o più pezzi provenienti dallo stesso manufatto vengano uniti, la frattura, la ferita, non va occultata ma posta in evidenza. La questione ci riporta alla diatriba di fine Ottocento, relativa al restauro di edifici antichi, tra l’architetto francese Eugène Viollet-le-Duc e lo scrittore e artista inglese John Ruskin. Il primo sosteneva che restaurare l’antico ricorrendo a soluzioni moderne fosse spiacevole ma inevitabile, il secondo riteneva che un restauro massiccio fosse il peggiore dei danni.

La posizione di Ruskin ha prevalso. La tesi ormai accettata è che il miglior restauro è quello fatto da piccoli, il più possibile impercettibili ritocchi. Come ha teorizzato Giovanni Urbani, che come Cesare Brandi ritiene che un restauro invasivo dà vita a un falso, l’unica soluzione è la «conservazione programmatica», un piano di interventi che preveda di monitorare nel tempo il reperto e intervenire solo su dettagli.

Possiamo dunque ottenere più informazioni da un frammento che da una ricostruzione che inevitabilmente rischia di essere più fantasiosa che scientifica. Per comprendere le motivazioni alla base di questa teoria basta riportare il discorso alla letteratura: in presenza di frammenti dei lirici greci, per esempio, non si interviene ricostruendo le parti mancanti per dare compiutezza al racconto.

La querelle

Accettata questa tesi, perché allora non riportare alla condizione che precedeva il restauro quei marmi Torlonia che hanno subito interventi creativi? Perché non rimuovere la punta del naso o l’orlo dell’orecchio al busto di Eutidemo di Battriana? Smantellare questo tipo di restauro, per quanto arbitrario possa essere, significa cancellare testimonianze di un periodo storico. Su questo tema si è molto dibattuto e le posizioni di archeologi e critici d’arte moderna e contemporanea sono state contrastanti. Resta il fatto che i marmi della collezione Torlonia hanno un innegabile fascino, e che c’è di che essere grati a chi ha consentito che esistano.

Questo nella piena coscienza che se qualcuno proponesse oggi di intervenire su opere del passato con gli stessi criteri adottati per restaurare buona parte dei marmi Torlonia rischierebbe la lapidazione, e non solo da parte degli esponenti del mondo accademico.

Una ricostruzione arbitraria

La querelle sul restauro ha coinvolto in tempi non molto lontani anche il mondo della politica. E veniamo adesso a Silvio Berlusconi. Il 25 febbraio 2010, l’allora presidente del Consiglio, ebbe l’idea di spostare dall’aula V del Museo delle Terme di Diocleziano al cortile d’onore di Palazzo Chigi un gruppo marmoreo del 175 d.C. che rappresenta Marte e Venere. Per dare maggiore risalto alla scultura, fu realizzato un fondale con un cielo azzurro in forte contrasto con lo stile del palazzo. Trovata a Ostia nel 1918, la scultura attribuisce alle due divinità le sembianze dei volti dell’imperatore Marco Aurelio e della moglie Faustina.

Insieme al gruppo marmoreo che rappresenta Marte e Venere, e sempre provenienti dallo stesso museo, vennero spostate a palazzo Chigi anche una statua di Ercole con cornucopia e una statuetta femminile panneggiata e velata. Quest’ultima fu destinata all’appartamento del presidente del Consiglio, all’interno del palazzo.

Nonostante le regole del restauro escludano l’aggiunta di parti, su richiesta di Berlusconi e dell’allora ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, vennero ricostruiti, con un costo di settantamila euro a carico della presidenza del Consiglio, le mani di Venere, la mano destra, l’elsa della spada e il pene di Marte. Il restauro fu fatto inoltre in maniera da non far percepire i punti di congiunzione. Non esistendo copie delle sculture, né documentazione attendibile, la ricostruzione fu arbitraria e priva di adeguati criteri scientifici.

Sebbene in Italia esista un ordinamento molto severo sulla tutela dei beni culturali e le soprintendenze applichino criteri assai rigidi per lo spostamento di qualsiasi reperto e per il restauro, il 28 marzo 2009 l’allora soprintendente di Roma, Angelo Bottini, autorizzò lo spostamento delle sculture, con la specifica che il prestito sarebbe durato fino al termine della legislatura. Incomprensibilmente, anche l’ex soprintendente Giuseppe Proietti autorizzò l’aggiunta delle parti mancanti nel gruppo scultoreo di Marte e Venere, certo che le appendici sarebbero state rimosse al rientro della scultura nella sua sede museale.

Il blocco scultoreo è tornato a essere esposto alle Terme di Diocleziano, nell’Aula X, all’inizio di marzo del 2013, liberato delle protesi innestate. All’accusa di aver compromesso agli occhi del mondo l’immagine e le tradizioni di serietà scientifica della scuola italiana di restauro, nonché di aver coperto di ridicolo il ministero da lui stesso rappresentato, Sandro Bondi ribatté che erano stati usati materiali rimovibili che aderivano ai punti di frattura grazie a magneti. Commentando l’accaduto, Antonio Forcellino, storico, scrittore e restauratore, ha puntualizzato, esprimendo il disagio dell’intera comunità scientifica, che «sarebbe terribile e pericoloso se questo comportamento diventasse una tendenza».

È questo uno dei tanti fatti di cronaca che dimostra quanto possa essere complicato il rapporto tra il mondo della politica e quello della cultura.

L’esposizione della collezione dei marmi Torlonia ha avuto una prima tappa a Roma a Villa Caffarelli, che nel 2020 si è aggiunta agli spazi espositivi dei Musei Capitolini. La Fondazione Torlonia, grazie ai finanziamenti del marchio Bulgari, sta conducendo un’operazione di restauro che ha messo in luce aspetti ancora da approfondire nei marmi di questa importante collezione.

© Riproduzione riservata