Il 27 settembre a Parigi, nella zona boscosa e residenziale di pregio del Bois de Boulogne, è iniziato il Roland Garros. E sì, in mezzo ai tremori per una possibile deuxième vague di coronavirus, è una notizia. Anzi, lo è due volte. Innanzitutto, da che racchetta è racchetta, l’Open di Francia è stato la chiusura primaverile dei grandi tornei sulla terra rossa, dopo Monte Carlo e Roma, e mai s’era giocato con le foglie secche a bordo campo.

Ma a marzo scorso, in piena impennata di contagi da Covid-19, i francesi hanno deciso unilateralmente di posticipare l’evento di quattro mesi, e on s’en fout dei giocatori che dovranno farsi una transoceanica per giocare Us Open e Parigi uno di fila all’altro, o per eventuali tornei cancellati a causa del rinvio. Dopodiché, in piena pandemia, l’indiscusso numero uno del mondo, Novak Djokovic, si è messo a capo di un manipolo di carbonari e ha deciso di fare guerra al potere costituito del tennis, creando una nuova associazione di giocatori dal sapore vagamente spartachista. I due fatti sono tutt’altro che slegati. Il primo, infatti, definisce lo scenario in cui avviene il secondo.

Un sistema a tre teste

Iniziamo dal contesto, terremotato da una mossa egoista, strategicamente corretta e lungimirante, molto francese. E giustificata dai conti: il Roland Garros vale 260 milioni di euro di fatturato, con un margine lordo di circa 100 milioni. Una cifra spaventosa, per un torneo che dura due settimane. Il fatto è che i quattro tornei cardine della stagione, gli Slam, sono altrettante monadi con ampia libertà d’azione: mentre Parigi si accomodava la data, Wimbledon annunciava direttamente una clamorosa cancellazione dell’edizione 2020, favorita dalla più previdente delle polizze assicurative, stipulata nel 2003 dopo l’epidemia di Sars e usata quest’anno per ricevere un indennizzo di 130 milioni di euro.

Semplificando, ma neanche troppo, nel mondo del tennis non esiste un solo potere, ma un sistema tripolare: ci sono gli Slam, ci sono gli altri tornei ufficiali, ci sono i giocatori. Tre teste, ciascuna impegnata a tirare dalla propria parte. Miracolosamente nel 1968 si riuscirono a unificare le carriere dei dilettanti e dei professionisti, e dal 1973 esiste una sola classifica mondiale riconosciuta da tutti. Ma nel processo di unificazione non si è riusciti ad andare molto più in là: e così capita che gli uomini abbiano il proprio tour e le donne il loro, che gli Slam si giochino al meglio dei cinque set e tutti gli altri tornei del circuito al meglio dei tre. Che ciascuno Slam abbia le sue regole particolari per concludere la partita: chi mette il tie-break sul 6 pari (Us Open), chi ne fa uno più lungo (Australian Open), chi sul 12 pari (Wimbledon), chi non lo prevede proprio (Roland Garros).

Ed è in questo caotico equilibrio, esacerbato dal lockdown e favorito da una leadership che non si è mai saputa compattare, che esplode il caso Djokovic.

(Foto Alfredo Falcone - LaPresse)

Volevi solo soldi, soldi

Nel 1988 i lavoratori del tennis, dai campioni ai peones, si erano già uniti per protestare contro le ingiustizie di un sistema che li vedeva da un lato protagonisti dello show, dall’altra destinatari di una percentuale risibile degli incassi. Riuscirono a ottenere ascolto, ma mai un vero potere decisionale perché la loro associazione, l’Atp, è un mostro governato dai rappresentanti dei giocatori ma anche dei tornei. Con il tempo, questo sì, qualche successo è arrivato e i tennisti hanno smosso la bilancia dei pagamenti in loro favore. Un esempio? Dal 1990, i premi in palio negli Slam, al netto dell’inflazione, sono quadruplicati. E i compensi cresciuti di più, in proporzione, sono quelli dei tennisti più poveri, quelli che riempiono i tabelloni per essere di solito eliminati nei primi turni. Se Roger Federer guadagna un milione in più o in meno, lui che di soli premi partita ne ha messi via 110, manco se ne accorge. Ma il centesimo tennista in classifica compensa a fatica costi e ricavi e, se perde qualche mese di ricavi, rischia di finire in bolletta. Oggi, finalmente, comparire al primo turno nei quattro tornei maggiori significa vedersi bonificare circa 170 mila preziosi euro con cui si possono sostenere i costi dei voli, dell’allenatore e di un’attività che pesa unicamente sull’atleta, mancando alle spalle una squadra.

Per quanto più munifici che in passato, però, i tornei restituiscono in montepremi un misero 15 per cento, scarso, dei ricavi. In altri sport, come nel basket americano, i patti sono altri: i soldi si spartiscono a metà tra i giocatori e gli organizzatori del campionato Nba.

Così è arrivato il Covid-19 che ha cancellato di botto quasi sei mesi di tornei. Una batosta, per tutti coloro che non si chiamano Rafa (Nadal), Roger (Federer) o pochi altri. I malumori che già covavano sotto la cenere si sono infiammati, e chi si è messo a capo della fronda? Il più ricco di tutti, il numero uno del mondo Novak Djokovic, 33enne serbo di Belgrado. Lo stesso che, in estate, si era messo in testa di organizzare un’esibizione itinerante nelle varie repubbliche della ex Jugoslavia, l’Adria Tour, salvo doverla cancellare in fretta e furia perché i giocatori si stavano passando il virus l’un l’altro. Un danno di immagine mica da ridere, a dispetto delle buone intenzioni («Lo avevo fatto anche per far guadagnare qualcosa ai miei colleghi costretti all’inattività», ha provato a spiegare). Lo stesso Djokovic che aveva regalato un milione tondo agli ospedali di Bergamo per rinforzare le terapie intensive, lo stesso Djokovic che diffondeva video su Instagram in cui, sostanzialmente, esternava la sua contrarietà ai vaccini e la convinzione che preghiera, senso di gratitudine, discipline olistiche e olio di serpente fossero la miglior risposta al rischio di polmonite bilaterale interstiziale da Covid-19. Tanto da meritarsi il beffardo appellativo «No-vax Djo-covid».

(Foto Alfredo Falcone - LaPresse)

Ci pensa Nole

Bene, quello stesso Djokovic opulento e un po’ credulone, approfittando dei tempi dilatati creati dalla bolla per contenere i contagi a New York durante gli Us Open, ha arringato e radunato un buon numero di colleghi – tra cui figura anche Matteo Berrettini, top ten e numero uno italiano – e annunciato l’ammutinamento. Secondo lui e gli altri rivoltosi, l’Atp (l’Associazione tennisti professionisti, unica rappresentanza riconosciuta dei professionisti) non tutela a sufficienza i suoi membri. Serve un’altra entità, che strappi condizioni migliori per chi vive di tennis. Si chiamerà Ptpa (Professional tennis players association) e sarà un sindacato puro, di soli atleti: niente contaminazioni con i proprietari dei tornei, niente sovrastrutture costose e lontane dal sentire di chi vive sul campo, niente manager superstipendiati e in conflitto di interesse tra le istanze dei giocatori e quelle di chi allestisce gli eventi.

Il discorso ha fatto presa, ben più di quanto non dica l’adesione esplicita: molti professionisti di fascia media sono d’accordo con lui, ma temono ritorsioni da parte dell’Atp se dovessero metterci la faccia. Come sport individuale, il tennis ha sempre faticato a creare rappresentanze collettive efficaci ma questa volta il tentativo dell’agguerritissimo Djokovic è serio e ha possibilità di riuscita. Perché lo faccia non si sa. Non per proteggere le proprie finanze degne di una startup di successo, forse per un misto di senso di solidarietà e desiderio di lasciare un segno in un cielo già illuminato da due stelle pop, Federer e Nadal, che nessun suo record sul campo sembra poter oscurare.

La faccenda, molto spinosa, è piovuta in testa al nuovo presidente dell’Atp che, per la prima volta, è un italiano, l’ex Davisman Andrea Gaudenzi. Sembrava l’uomo giusto al momento giusto: ex ottimo giocatore, relativamente giovane (1973) ma anche laureato in legge e titolare di un master in business administration che dovrà aiutarlo a gestire un bel problema. Perché a intestarsi la rivolta spartachista dei tennisti plebei non ci sono quattro giocatori di terza fascia con peso politico e comunicativo vicino a zero, ma il tennista più forte del mondo. E anche se Federer e Nadal hanno agito da reazionari declinando l’invito a unirsi alla lotta, la battaglia si annuncia durissima.

Sembra proprio la guzzantiana Casa delle libertà: ognuno fa un po’ quello che gli pare. Gaudenzi infatti ha risposto a Djokovic che non è il momento delle scissioni, che i tennisti non devono litigare ma pensare a monetizzare ancora di più i diritti televisivi e, col tempo, crearsi una sorta di Netflix indipendente della racchetta. Un luogo virtuale unico, in cui seguire tutti gli eventi dell’anno e superare l’attuale frammentazione tra emittenti tradizionali, pay-tv satellitari, digitale terrestre, applicazioni dedicate, mettendo d’accordo gli Slam e gli altri eventi del calendario. Ma è un progetto ciclopico, difficile possa realizzarsi in tempi ragionevoli per chi, azzoppato dal Covid-19, batte cassa in vista della fine del mese.

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