Fin da bambina, non ho mai dimostrato particolare passione per gli sport e sviluppato un’avversione molto specifica per il calcio. Poi ho iniziato a seguire Berrettini, Musetti, Sinner: all’inizio i match erano un sedativo, ora sono una passione
Ho camminato per la prima volta a 18 mesi. Che è abbastanza tardi, per chi non lo sapesse. Nel mio caso fu soprattutto un chiaro segnale premonitore per quella che sarebbe stata la mia attitudine agli sport, vale a dire nessuna attitudine. A sei anni bigiavo la pallavolo per andare in biblioteca, a 11 ero quella che lisciava la palla ogni volta che doveva battere, a 14 usavo le mestruazioni come scusa per starmene seduta o passeggiare in cortile nell’ora di educazione fisica. Avevo un vago interesse per la ginnastica artistica, ma ero troppo scarsa anche per quello che era considerato da tutti lo sport delle femmine senza tette.
Così finii per rifugiarmi nella danza contemporanea, nella scuola meno competitiva che sia mai esistita, dove regnava un certo fricchettonismo e venivamo spronate a “respirare le braccia”, qualsiasi cosa volesse dire. La feci passare per attività sportiva per quasi dieci anni.
Il rapporto con lo sport
La mia mancanza di talento sportivo si traduce anche in un disprezzo attivo per alcune discipline. Odio il calcio da sempre, odio vederlo in televisione, odio sentire la gente parlarne, odio le transenne che mi impedivano di tornare a casa quando abitavo accanto allo stadio Tardini di Parma. E invece in un momento di défaillance ho fatto un figlio con uno juventino appassionato, che a un certo punto mi convinse che dovevo andare allo stadio almeno una volta nella vita, che così avrei finalmente capito.
«Ma ci sono stata a sentire Springsteen!» mi opposi io, prima di ritrovarmi seduta negli spalti di San Siro a guardare 22 uomini in calzoncini con lo stesso interesse che riserverei a un muro che si asciuga dopo due mani di vernice. Non so quali squadre giocassero quel giorno (o era sera?), né tantomeno chi vinse. Mi ricordo solo la noia incommensurabile di quei novanta minuti. Quella è forse l’unica partita di calcio che io abbia mai visto dall’inizio alla fine, ma non so se conta perché fu in quell’occasione che imparai a dormire con gli occhi aperti.
Tutto il mio afflato sportivo si è sempre consumato una volta ogni quattro anni durante le Olimpiadi, che mi piacciono molto anche per l’assoluta irrilevanza del calcio durante la manifestazione, sostituito da moltissime atlete in body glitterati.
Poi lo juventino, penso per amarezza e disillusione nei confronti della sua squadra del cuore che da quello che ho capito non gli regala più alcuna gioia, negli ultimi anni è andato in fissa con il tennis, e contro ogni previsione mi sono ritrovata a guardare una palla in tv senza sbuffare. Oserei dire che lo seguo con piacere: maschi alti e ben vestiti, donne fortissime dalle braccia scolpite, Cate Blanchett negli spalti, commentatori che non urlano. È tutto molto civilizzato, se uno non bada alle bestemmie di Musetti.
Emozioni nuove
È iniziato come sedativo: i rintocchi della pallina dopo una certa ora mi aiutavano a scivolare nel sonno come neanche dieci gocce di Minias. Poi ho preso atto del talento di Matteo Berettini, un uomo oggettivamente anche molto piacevole da guardare. Infine, con Sinner e Musetti, è subentrato un inedito orgoglio patriottico.
Tutti questi giovani italiani che scalavano la classifica mondiale di uno sport di cui fino a poco tempo fa a malapena registravo l’esistenza improvvisamente mi trasmettevano una strana smania, che mi giungeva del tutto nuova e faticava a staccarmisi di dosso. E fu così che mi ritrovai a insultare Alcaraz attraverso la televisione durante la finale del Roland Garros di quest’anno. Il tennis è uno sport civilizzato ovunque tranne che a casa mia.
Ora che c’è Wimbledon mi scopro a controllare il calendario dei match con inusuale trasporto. Se qualcuno solo un paio di anni fa mi avesse detto che avrei volontariamente passato un pomeriggio a casa per godermi qualche ora di sport avrei riso dell’ingenuità di questa persona. Ma chi, io? Ma figurati.
Invece eccomi qui, la più ingenua di tutti: in un momento in cui mi sono fatta tenerezza da sola ho pensato di regalare i biglietti per Wimbledon al mio fidanzato, solo per scoprire che finiscono mesi prima e che costano come sei mesi del nostro affitto. Così mi iscrivo alla loro lotteria, immaginandomi già vestita di beige con la piega impeccabile che non ho mai avuto, seduta accanto a David Beckham, a spiegargli perché il calcio è uno sport per trogloditi.
Potrebbe essere una passione passeggera, in effetti all’inizio di ogni torneo devo farmi rispiegare come funziona il punteggio perché il mio cervellino atrofizzato non trattiene le informazioni tecniche di nessuno sport.
Ma avendo mio malgrado imparato cos’è il fuorigioco, scommetto che fra qualche anno riuscirò anche a capacitarmi della sequenza 15-30-40 – che sfugge a qualsiasi logica e non smetterà mai di farmi arrabbiare – e riuscirò a ricordarmi quanti set stanno in un game, quanti game in un match e cosa significa “breccare”.
Intanto prendo familiarità con questa emozione nuova e purissima, foriera anche di stress e frustrazioni che non conoscevo e non fanno bene al mio umore. È questo che provate ogni domenica di campionato? Ma siete pazzi?
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