Ernesto Ferrero è morto martedì 31 ottobre, a 85 anni di età. Lo avevo conosciuto più di venti anni fa, nella sede di Einaudi a Torino, dove lui era già una delle più prestigiose presenze, dato che era entrato in casa editrice nel 1963 come ufficio stampa. Poi al suo interno aveva ricoperto molti ruoli, tra cui quello di direttore editoriale, dal 1984 al 1989.

Aveva già passato gran parte della sua vita professionale circondato dai grandi intellettuali italiani che frequentavano via Biancamano, tra cui Cesare Pavese, Primo Levi, Natalia Ginzburg e Italo Calvino, i cui ritratti sia letterari sia intimi ha raccontato magnificamente prima ne I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2016) e poi in Album di famiglia (Einaudi, 2022), mentre recentissimo è il suo Italo (ritratto biografico e critico di Calvino).

Scriversi

Quando ho incontrato Ferrero per la prima volta era il 2000, io ero al mio primo lavoro e mi occupavo della promozione del suo romanzo N., dedicato agli anni di Napoleone all’Elba, che quello stesso anno vinse il Premio Strega. Nonostante l’asimmetria generazionale e professionale ci siamo ritrovati presto amici, complici di fantasticherie sull’arcipelago toscano (lui elbano d’adozione, io gigliese) mentre lui, con la gentilezza che lo ha sempre contraddistinto, mi insegnava tutto quello che c’era da sapere del lavoro editoriale che mi ritrovavo a fare senza saperlo ancora fare.

Io ho lasciato presto Torino e da allora ci siamo frequentati poco di persona (facendo mente locale mi rendo conto che negli ultimi vent’anni ci siamo incontrati solo sporadicamente al Salone del libro o a qualche altra kermesse letteraria), mentre non abbiamo praticamente mai smesso di scriverci, di coltivare la nostra amicizia grazie all’intimità senza interferenze che permette la scrittura a chi la pratica nel quotidiano.

Scrivendoci, anche di inezie, come eravamo soliti fare, per raccontarci anche piccoli avvenimenti, novità o per parlare di politica, salute, viaggi, o semplicemente per parlare dei “tempi che corrono”, Ferrero non ha mai smesso di essere un maestro senza farmelo pesare.

Gli citavo un posto dove ero passata, un articolo letto, un fatto americano e lui sapeva dirmene di più, e meglio. Ed era sempre così empatico e garbato, che spesso, nonostante i suoi guai di salute, era lui ad avere parole di conforto per gli altri. Ogni tanto ci mandavamo quello che scrivevamo in bozza, i suoi consigli da editor sono sempre stati per me i più preziosi in assoluto, più spesso negli ultimi tempi ci scambiavamo foto di fiori e giardini, io da Washington, lui dalle splendide fioriture del giardino di casa sua a Torino, che un tempo era stata di Salgari.

La telefonata

Nella email in cui mi aveva parlato dell’aggravarsi del suo stato di salute, all’inizio dell’anno scorso, mi aveva scritto: «In tutto questo, in due mesi di lavoro sono riuscito a portare a termine una specie di album di famiglia, che sarà poi la continuazione e l'integrazione dei Migliori anni, in cui ho organizzato e omogenizzato le tante cose che avevo scritto di editori e scrittori amici e sodali. Paradossalmente mi pare che il cervello funzioni meglio di prima, anche se contro ogni evidenza clinica e biologica. In ogni caso la scrittura è stata ed è un meraviglioso ansiolitico, quasi una dipendenza, l’unica cosa che mi interessi davvero, a parte gli affetti basici».

E in quelle bozze c’era una frase, all’inizio, che poi è stata espunta dopo l’editing.
Parlando del suo ruolo di estensore di ritratti e necrologi di amici aveva scritto:
«Il peggio era quando arrivava una telefonata dal giornale, e ti dava in poche parole l’annuncio che non avresti mai voluto sentire.  A volte erano folgori, schianti, disperazione, un senso di ingiustizia, di crudeltà inutile. A volte te lo aspettavi, ma non faceva meno male, non si è mai pronti, non ci si rassegna».

«Magari sei lontano da casa, devi vincere l’angoscia, assumere l’attitudine dello storico e del critico, che vede le cose a bocce ferme, con equanime distacco, come se fosse una qualunque materia di studio. Come se non ti chiedessero di parlare di maestri, padri e fratelli elettivi, amici, compagni di lavoro e di viaggio, parenti anche più stretti di quelli carnali, presenze vive, di quelle che svegliandoti la mattina ti dici: menomale che almeno ci sono loro».

Come si fa?

Ecco, io mi sono trovata esattamente in questa situazione nel dover scrivere di lui appena dopo aver saputo della sua morte, fare un ritratto in poco tempo di un maestro che era però soprattutto un amico, mentre sono in treno e non so come gestire questo dolore, questa mancanza improvvisa.

E anche se me lo aspettavo non sono pronta, mi sento così inadeguata in questo ruolo. Come si fa quando la persona a cui vorresti scrivere per prima per raccontare il tuo dolore perché sai che è l’unica che ti potrà capire è proprio quella che ti manca? Come si fa quando a mancare è proprio una di quelle presenze che ti fanno pensare: menomale che c’è lui?

Come si fa a scrivere il ritratto di un maestro dei ritratti senza sentirsi totalmente inadeguati? So che Ernesto si sarebbe divertito del paradosso, perché aveva anche questo tra i suoi doni, era dolce e simpaticissimo. Mi avrebbe detto sorridendo: «Dai, se stai così me lo scrivo da solo il necrologio».

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