La lunga scia del movimento Black lives matter, come capita per ogni fermento sociale, si riflette anche nel settore dell’arte: l’hanno chiamata operazione Black Renaissance, culminata pochi giorni fa con un’asta milionaria battuta da Sotheby’s per un’opera di un artista afroamericano, Robert Colescotte.

Identica euforia si è vista da Christie’s per opere di artisti di colore come Nina Chanel Abney, Jordan Casteel, El Anatsui, battute a quotazioni record, per non parlare di un Basquiat che ha raggiunto i 50 milioni di dollari.

Black Power

Colescott nel 1977 è stato il primo artista afroamericano a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia e possiamo far partire dal decennio precedente il fermento creativo denominato Black Power, che ha caratterizzato l’espressione artistica della cultura nera dell’America di allora.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso gli artisti afroamericani non hanno avuto vita facile né riconoscimento immediato, ma per un ventennio sono comunque riusciti a esprimere il proprio talento in ogni ambito, rivoluzionando la percezione tradizionale del gusto artistico dell’epoca e approdando anche oltreoceano.

Come ogni movimento artistico di valore, questi creativi hanno rimodulato con la propria impronta i settori dell’arte, del design, della grafica, del cinema, usando e innovando ogni supporto tecnico e ogni strumento espressivo, conferendo vitalità e combattendo per essere riconosciuti come artisti e come uomini e donne al pari di chiunque altro.

L’anima di una nazione

I loro talenti sono stati recentemente celebrati in un’importante mostra itinerante ideata dalla Tate Modern di Londra, Soul of a Nation – Art in the Age of Black Power, a cura di Mark Godfrey e Zoe Whitley, approdata in seguito al museo De Young di San Francisco poco tempo prima che scoppiasse la pandemia.

L’intento dell’esposizione, riuscito, è stato mostrare come ogni artista ponesse sullo stesso piano le battaglie per i diritti civili in corso negli Stati Uniti e il desiderio di esprimere liberamente la propria creatività.

Ha sottolineato anche le divergenze, ovvero come ognuno di loro si ponesse di fronte al movimento Black Power scaturito dopo la marcia della pace capeggiata da Martin Luther King: alcuni ne divennero membri attivi, altri ne presero le distanze in autonomia sotto l’egida di una Black Nation con idee proprie e programmi distinti. Tutti profondamente consci delle differenze insite in ognuna, conservando il dialogo nella vita comunitaria e mai sottovalutando la propria visione personale.

Nessuno di questi artisti, infine, ha evitato di affermare la propria posizione estetica. Ognuno, con le proprie opere, ha risposto alle domande: «Esiste un’estetica Nera o un’arte Nera? L’audience deve essere Nera o universale? Le opere devono essere chiaramente leggibili o astratte?». Questa la parte più interessante della mostra e anche della produzione artistica del movimento Black Power.

1963

L’anno in cui le esposizioni più incisive ebbero inizio è il 1963 e segnò lo spartiacque tra idee e produzione, sul campo, in aperta affermazione dei diritti civili degli afroamericani insieme alla libera espressione dei loro talenti.

Nella vastità dei fermenti artistici dei due decenni trovo particolarmente interessanti il movimento delle donne di colore Sapphire di Los Angeles, il Wall of Respect and Mural Movement di Chicago e The Studio Museum di Harlem.

Il movimento artistico delle donne di colore nato nel 1970 nella California del sud, capeggiato da Betye Saar (protagonista di una straordinaria personale alla Fondazione Prada nel 2016, con l’artista presente all’inaugurazione) capovolse lo stereotipo razzista della donna nera indesiderabile e prepotente, contribuendo all’evoluzione della cultura visiva femminista californiana.

A Chicago nel 1967 si creò un gruppo culturale che comprendeva scrittori, artisti ed insegnanti. Progettarono un grande murales denominato “muro del rispetto” che divenne la celebrazione di personalità di colore facenti parte di sette ambiti: R&B, jazz, teatro, politica, religione, letteratura e sport e ispirò muri analoghi in tutti gli Stati Uniti.

Ad Harlem tra il 1965 e il 1968 un gruppo di studenti, insegnanti e cooperatori sociali creò un trait d’union con il MoMa – Museum of Modern Art, interrompendo ogni distinzione di etnie tra espositori e fruitori, con particolare attenzione agli studenti junior.

Si creò un’associazione artistica che sfociò anche in un programma di residenza per artisti, precursore di analoghe iniziative contemporanee, con sperimentazioni e fruizioni da parte di artisti di colore e abitanti di Harlem.

Blacksploitation

Un discorso a parte merita il movimento popolare cinematografico Blacksploitation, sorto all’inizio degli anni Settanta, per il quale l’audience doveva essere indiscutibilmente nera e insediata nelle grandi città.

L’intento era di rendere consapevoli i neri americani che avrebbero potuto svolgere occupazioni differenti da quelle più umili e di servizio. I film erano costantemente stroncati dalla critica cinematografica, ma riscossero comunque grande popolarità anche tra il pubblico di etnie differenti. (Come non ricordare che Quentin Tarantino nel 1997 dedicò alla Blacksploitation il pluripremiato film Jackie Brown).

In conclusione, la Black Renaissance contemporanea ha radici nel secolo scorso. L’auspicio è che quel fermento ad opera dei coraggiosi sperimentatori afroamericani degli anni Sessanta e Settanta possa ispirare gli artisti contemporanei di ogni parte del mondo, rivitalizzando un settore spesso cristallizzato in una dialettica mercato-collezionista soporifera e anacronistica: è tempo di rinascere e di andare oltre.

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