Se l’unica traccia che rimane di noi è quello che postiamo? Immaginiamo una sorta di simulacro URL ma in vita latente, una giovane donna percepita come eterea, immobile, che da una casa in abbandono posta sui social inni al wellness. Un corpo immobile dedito alla contemplazione della natura e all’accumulo di follower, estraneo alla società. È ciò che fa l’autrice inglese Anna Metcalfe, nominata dalla rivista Granta tra i venti migliori giovani scrittori britannici, nel romanzo d’esordio Crisalide (NN Editore), affascinata dalle mutazioni, dai paradossi del wellness e dall'ossessione social. Non a caso la protagonista del libro è assemblata attraverso le parole altrui, il corpo, guardato ossessivamente sullo schermo e il ricordo sono la sola forma di esistenza. Ma cos'è rimasto di questa operazione di scomposizione delle parti e del controllo che la protagonista ne esercita?

Scomparire o quasi nella vita reale per respirare unicamente immobile ed esistere attraverso video postati online…perché?

Mi interessava chiedermi cosa rimanesse della vita privata online, la protagonista del mio libro sembra aver distrutto la sua esistenza offline. Non so se è davvero quello che penso ma penso che ci sia una falsa credenza secondo cui un'influencer venga seguita da una platea immensa di sconosciuti. Non è lei a seguire. Forse lo fa ma non lo vediamo nel libro. Credo che questo sia anche un errore di prospettiva, gli influencer ci danno in pasto il loro brand, non si ha la percezione di tutto il tempo che passano a scrollare, imitare, essere influenzati da altre persone, vedere cosa fanno gli altri creator per stare al passo o competere con altri.

C’è una bolla tossica che ruota attorno al wellness nel libro, è un paradosso. Cosa trova di conturbante in tutto ciò?

Da sempre mi interessa il marketing del wellness, suggerisce come si possa reinventare completamente il proprio io, cancellare la storia personale, gran parte dell'industria è sostenuta dal branding sui social. Ho pensato che forse l'unico modo per rinascere davvero fosse cancellarsi offline, riemergere altrove perché nella vita reale non credo sia possibile farlo. L’essere umano è disomogeneo, traumatizzato, incoerente, ridicolo. I social sono invece progettati per i brand. Cosa accadrebbe se qualcuno si trasformasse davvero in un brand? Credo che dovrebbe sbarazzarsi in qualche modo della sua storia personale.

È quasi impossibile reinventarsi completamente online?

Sì. Ho sentito storie di amici che usano dating app e, se non riescono a trovare qualcuno sui social, si insospettiscono quasi non si trattasse di una persona reale o il match non fosse chi dice di essere, il che è altrettanto interessante. Penso che oggi tutti abbiano un'enorme impronta digitale. Circolano così tante informazioni su di noi che probabilmente non possiamo nemmeno iniziare a comprendere la portata delle nostre carte di credito, dei nostri dispositivi di localizzazione e del modo in cui guidiamo le nostre auto senza dare in pasto i nostri dati, credo sia impossibile ricominciare da zero la propria vita.

Quando l’ego è diventato un brand secondo lei?

L'ego è già un brand da tempo ma se non c'è spazio per l'inconscio, tutto diventa arido. Penso a un libro interessante di una poetessa americana, Nuar Alsadir, Animal Joy. Alsadir scrive della risata come di una rottura, qualcosa che non ti aspetti che ti destabilizza ma in modo buffo, mi sembra che sui social non ci sia molto spazio per questo.

C’è una forma di addiction che tutti i personaggi hanno nei confronti della protagonista, lei a sua volta è assuefatta dal suo profilo. La scrittura sembra essere plasmata da questa doppia dipendenza…

Vero. È come quel test con i criceti e il cibo, e se si dà al criceto un po' di cibo ogni ora, loro se ne dimenticano ma se si dà il cibo a orari casuali, il criceto passerà tutta la vita ad aspettare che il cibo arrivi, senza fare nient'altro. L'algoritmo presenta cose che crediamo ci piacciano ma in realtà ne ameremo solo alcune e questo crea dipendenza perché continuiamo a cercare la cosa che ci piacerà o il meme che ci fa ridere o il vestito che vogliamo comprare. E per farlo, si passa attraverso tonnellate di cose che non ci fanno sentire nulla.

Nel romanzo lo sguardo fissa il corpo femminile rinato in palestra o nei reel Instagram…

Credo che il male gaze abbia una grande influenza sul modo in cui le donne percepiscono il loro corpo. Soprattutto per le donne, il modo in cui alcuni prodotti sono venduti online è attraverso la piaga dell'insicurezza.

È l’inganno dell’industria beauty percepita come cura, self care. Un’ultima domanda, ricorda la sua prima chat?

Avevo un account MSN e di aver passato secoli a messaggiare con persone della mia scuola e un account di un altro social molto popolare prima di Facebook. Spero che nessuno li faccia mai resuscitare.

© Riproduzione riservata