Ho avuto la fortuna di incontrare per caso Gianni Morandi anni fa in una sperduta località marina del sud Italia – c’erano i Mondiali o gli Europei di calcio di quest’estate, tra le altre cose, e ricordo che guardammo insieme molte partite (o poche, non andò benissimo, a memoria). Stavamo proprio nello stesso posto, selvaggio e spartano che bensì si confaceva a entrambi e forse un po’ meno al comune amico che ci presentò.

Ci furono chiacchierate, serate e molte mattine nelle quali mentre mi stiracchiavo ancora assonnato vedevo Gianni Morandi che tornava dalla sua corsa di un’ora e si buttava a mare. Non so quanti anni abbia più di me, ma a me sembrò highlander, un highlander buono ovviamente, uno con una faccia che in America sarebbe finita sotto lo stemma della Casa Bianca se avesse voluto e che aveva – e con tutta probabilità ha ancora – un fisico più atletico e (questo è certo) sano del mio. Naturalmente è irreale stare in una situazione “normale” con Gianni Morandi e tale fu la mia prima sensazione, fugata immediatamente dalle doti che gli sono universalmente riconosciute e che gli appartengono autenticamente: semplicità, autenticità, nessun sussiego o altezzosità. E una pazienza infinita. Eppure è Gianni Morandi, un uomo popolarissimo da ormai, non saprei dire, sessant’anni? Qualcosa del genere.

Un’idea dello spirito di un popolo intero che come effetto collaterale imprevisto ha anche quello dell’esistere per davvero: gambe, braccia, faccia e, naturalmente, sorriso. Morandi, mi dico, è la prova che i luoghi comuni possono essere veri e non solo banali semplificazioni; il loro esser comune può talvolta essere tradotto in “condiviso”; un luogo ideale abitato da persone diverse, centinaia, migliaia o, nel caso di Morandi, milioni di persone, attraverso cinque o sei generazioni. Forse è questo il pop. Mi chiedo anche perché non esista ancora l’aggettivo morandiano; o forse esiste ma è meno cool di felliniano e quindi non usa – a meno che non si tratti di nature morte, ovvero l’antitesi del giannimorandismo.

Eccolo nel mio schermo ora, come stai, mi chiede subito, io dico che sto meglio dopo aver sentito il pezzo che gli ha scritto Lorenzo Jovanotti – a questo servono le canzonette, no? Gianni sogghigna e dice, dolcemente sarcastico, «abbiamo fatto guarire anche te!». Io confesso che non sono proprio guarito ma che oggi mi propongo ottimismo, leggerezza e semplicità come ardui temi della nostra conversazione. Peraltro uno dei sinonimi di morandiano, abbastanza insospettabilmente, è “spericolato”; gli chiedo conto del suo incidente (ha subìto ustioni gravi bruciando arbusti), scherzandoci un po’, ma lui si fa serio e dice «lascia fare va che me la sono vista brutta!». Poi basta, parliamo finalmente del pezzo dell’estate, ma prima gli dico che la nostra conversazione finirà su un giornale «un po’ intellettuale», per sfruculiare e lui subito: «E allora che cazzo c’entro io, scusa?». Il bello è che lo pensa davvero. Idolo totale.

Raccontami per bene com’è nato questo pezzo, ma per bene proprio, tipo telecronaca.

Allora: 12 gennaio 2021, sono in casa, c’è il Covid e mi viene in mente di telefonare a Lorenzo – sono un suo fan, vado ai suoi concerti, sono stato ospite al Jova Beach Party. Insomma gli dico che è un po’ che non incido niente e gli chiedo se non gli dispiacerebbe pensare a una canzone per me. Ed era proprio il giorno nel quale sua figlia Teresa faceva il suo post sulla guarigione dalla terribile malattia che aveva avuto. E io non lo sapevo, insomma, ci rimasi un po’ così. Ma lui mi scrisse «tranquillo, Gianni ci penso». Passano due mesi e io subisco il mio incidente, sto settimane in ospedale, ne esco vivo e un giorno Lorenzo mi chiama, vuole sapere come sto, non parliamo dell’idea di scrivere un pezzo. Passa altro tempo e io non penso più all’idea della canzone.

Poi il 5 giugno mi chiama e mi dice che ha un pezzo forte, arrangiato da Rick Rubin, che avrebbe dovuto farlo lui ma dice che se lo faccio io è più giusto. Gli dico ok mandamelo. Me lo manda, lo ascolto, e rimango un po’ così: perché è complicato, ha anche uno scioglilingua all’interno, però lo chiamo e gli dico «è forte, mi piace». Ero convinto che il pezzo fosse fortissimo ma che non fosse nelle mie corde. Ma Lorenzo in due minuti mi convince e mi dice «andiamo a registrarlo a domani!» Ma come domani, è anche domenica faccio io! Va bene facciamo lunedì al massimo, dice lui. E così io mi metto a studiare il pezzo, provo la voce, gorgheggio, comincio a vedere le scansioni, le frasi, le battute. Il lunedì io e mia moglie Anna andiamo nella sala di registrazione a Milano, lui ci accoglie entusiasta, mi dice che ha cambiato l’inizio, che ora è «il sogno di un ragazzo italiano», parte la base e cominciamo a cantare. Lui mi segue, mi guida nota per nota, riga per riga e mi corregge. Alle 5 avevamo già finito e lo mixano la sera stessa. Lorenzo dice «adesso bisogna uscire!» Ma come bisogna uscire? «È forte, è bellissimo, bisogna uscire subito, domani! Se non esce adesso non va mica bene!» Allora chiamo la Sony. Dicono che il pezzo è bello ma non si può uscire perché l’11 esce questo e questo e quell’altro, il 18 nemmeno perché esce quell’altro e quell’altro ancora, beh ma a noi che ce ne frega della programmazione dico io, buttiamoci nella mischia! Ma non si può! Mi propongono di uscire il 25 giugno lo dico a Lorenzo e lui subito: «Ma quale 25! Oggi è il 7! Dobbiamo uscire subito». Allora mi viene in mente di mandare il pezzo a un paio di radio per capire un po’ come reagiscono. Mi dicono «guarda se ce lo dai partiamo subito». A quel punto la Sony si è convinta, Lorenzo ha fatto un video con le immagini girate in sala e un po’ di repertorio e due giorni dopo eravamo in radio.

Ora che mi racconti come lo avete fatto sembra ancora di più un 45 giri degli anni Sessanta.

Infatti oggi nel pop c’è meno il discorso degli album, ma ci sono almeno 40 pezzi che si contendono il titolo di canzone dell’estate. A me piace essere lì nella mischia, quello che viene viene, lo dico sinceramente.

Ok ma Morandi+Jova come poteva andar male dai...

I nomi non sono così importanti. Ti ricordi quel film, La contessa di Hong Kong? C’erano Marlon Brando, Sophia Loren e la regia era di Charlie Chaplin. Fu un flop gigantesco! Se fosse così facile fare successo tutti farebbero successo, sempre, ovunque e chiunque, i grandi e piccoli. Invece non è così. Noi siamo convinti, il pezzo ci piace e andiamo avanti. Poi le canzoni prendono il volo e vanno dove devono andare.

Possiamo tuttavia dire che tu sei un esperto di come avere successo per tantissimo tempo – a parte l’intervallo degli anni ’70...

Forse quando ho cominciato io era più facile, c’erano tanti cantanti allora, è vero, però io avevo un team incredibile: Migliacci, Morricone, Bacalov che mi guidavano per mano.

Da quanto tempo conosci Lorenzo? Ti ricordi quando e come fu il primo incontro?

Lorenzo lo conosco dal 1988 (sai che io con le date sono strepitoso). Avevo fatto il disco con Lucio Dalla eravamo gasati, andò benissimo fin da subito. Eravamo a fare le prove per il tour, il disco vendeva 15.000 copie un giorno e 25.000 quello dopo e noi ci dicevamo «cazzo fratello siamo primi in classifica sicuro». Poi il venerdì arriva la classifica e leggiamo: «Numero uno, Gimme five, Jovanotti». Ma chi cazzo è Jovanotti dico io a Lucio; anche lui rimane sorpreso, «ma dai sarà uno di quelli di Cecchetto, finisce subito» dice. E aggiunge: «Vedrai che la settimana prossima siamo numeri uno, abbiamo venduto ancora un sacco di copie!» Arriva la nuova classifica: «Numero uno: Jovanotti». «Ma porca puttana non riusciamo a diventare i numeri uno». Poi siamo andati anche noi al numero uno, ci alternavamo, ma insomma, così ho scoperto che esisteva Lorenzo. Poi l’ho incontrato durante una manifestazione delle forze armate allo stadio dei Marmi a Roma, c’era l’esercito eravamo entrambi ospiti, io per quell’immagine del bravo ragazzo, militare con i capelli corti e lui perché proprio in quel periodo stava facendo la naja. Poi ho iniziato ad andare a vederlo ai concerti, mi incuriosiva perché ogni volta faceva qualcosa di particolare, anche con Carboni per esempio fece una cosa bellissima. Gli ultimi concerti poi sono stati straordinari. Ogni volta andavo a salutarlo e gli dicevo che era fortissimo. Una sera ero a un suo concerto a Padova e alle nove venne giù un diluvio incredibile; tutte le sue attrezzature digitali e sceniche erano completamente fottute e noi ci chiedevamo se rimanere o andare via, stavano smontando tutto e io comincio a fare il cretino e mi metto a cantare Scende la pioggia a squarciagola in mezzo alla gente. Poi lui fu fighissimo perché quando smise di piovere fece comunque il concerto anche senza tutto il suo apparato scenico e fu bellissimo. Finì alle due del mattino. A me piace un sacco la sua positività, «Sono un ragazzo fortunato» eccetera.

Eh, ci credo. In un certo senso avete giocato lo stesso campionato in epoche molto diverse. Lo sai che siete una condanna vero? Uno quando vi sente parlare si sente in colpa se non diventa subito ottimista. Roba da psicanalisi. Quando hai capito di avere questo superpotere?

Io sono nato a Monghidoro, vengo dal nulla, ero un dilettante allo sbaraglio quando ho cominciato e quindi cercavo di comunicare con gli altri predisponendomi al contatto, e mi bastava un sorriso. Anche perché non sapevo fare niente! Speravo solo di essere accettato e ho capito che quando parli con una persona e ti chiede come stai, tu che fai, ti metti a raccontare i tuoi guai? No, così gli rompi i coglioni. E allora sorridi e gli racconti le cose più belle che puoi. Ed è quello che ho fatto con le mie canzoni, o almeno ci ho provato.

Proviamo a scrivere una guida alla leggerezza secondo Gianni Morandi. Quali sono i comandamenti? Tipo manuale di autoaiuto, facciamo servizio pubblico dai.

Non pesare troppo sugli altri. Ti parlo di me: mi è successo questo incidente ed è stato grave, ho rischiato la vita, però quando mi sono svegliato ho detto «cazzo mi sono salvato quindi devo ringraziare». Se fossi qui a piangere, «ma guarda cosa mi è successo, ogni giorno le medicazioni...», se ti lamenti, se ti piangi addosso, non ne esci. Gente allegra il ciel l’aiuta, dice il vecchio proverbio. Quindi il primo comandamento è non pesare sugli altri, che è anche una maniera per cercare di capirli, gli altri.

Senti ti tocca il ruolo del saggio visti gli anni di vita pubblica italiana che hai attraversato. Come siamo messi oggi?

Da qualche mese, affidandoci alla saggezza di questo presidente del Consiglio, sembra che stiamo migliorando il nostro rapporto con l’Europa e gli europei, che sono stati un po’ diffidenti nei nostri confronti negli ultimi decenni, ci hanno preso un po’ per dei cialtroni. Ora ci prendono finalmente di nuovo sul serio. Certo non siamo l’Italia degli anni Sessanta, della ricostruzione, della gioia. Ma dobbiamo fare i conti con il mondo di oggi. Quello che proprio non capsico è che nonostante siamo il paese più bello del mondo, non riusciamo a godere di questo patrimonio, aprire le porte alla gente, farli entrare, offrirgli la nostra storia. Ci manca un po’ il senso dell’insieme del collettivo, siamo grandi individualisti, ognuno se la cava a modo suo, abbiamo grandi ingegneri, scrittori, scienziati, ma sono punte, se ne vanno all’estero. Siamo in sessanta milioni in Italia e potremmo fare sessanta milioni di partiti! Ci manca proprio il senso della collettività.

Beh, veniamo da un periodo nel quale non solo in Italia si sono imposte visioni politiche che anziché alimentare il senso di coesione e di collettività sfruttavano gli istinti individualisti – o meglio beceri o semplicemente ignoranti – per mero calcolo politico. Certo, un calcolo che alla fine non torna, per fortuna. Qual è stata la stagione più bella e gioiosa del popolo italiano, visto dagli occhi di uno che produceva spensieratezza, leggerezza e divertimento?

Ovviamente gli anni ’60, gli anni della 500, dei frigoriferi, dei mangiadischi, gli anni della rinascita e del boom. Poi arrivò il ’68 e ci svegliò tutti quanti. Partì la stagione della protesta, le Brigate rosse e gli attentati neri, gli anni dell’austerity. Nel 1973 non c’era carburante, le autostrade erano vuote, c’erano di nuovo i cavalli e le biciclette. Anni terribili. E io, che ti devo dire, tutto quel tipo di repertorio che proponevo improvvisamente fu rifiutato, non era più attuale, non era più nell’aria. Non capivamo che era cambiato il mondo, che arrivavano gli americani e arrivavano i cantautori che fecero diventare la canzone italiana un’altra cosa. Con l’eskimo e le canzoni impegnate tutta l’immagine legata agli anni ’60 venne rifiutata in blocco. Io non capivo cosa stesse succedendo intorno a me, però capivo che non suonava più il telefono, quello l’ho capito, sono un po’ scomparso per una decina di anni. Anche gli stessi cantautori venivano contestati; De Gregori fu attaccato sul palcoscenico al grido di «bastardo capitalista» e «servo delle multinazionali». Per due o tre anni fu complicato anche per lui, e questo dice molto su quel periodo.

Mi ricordo una sera in cui cenammo in un paesino nell’entroterra di una regione del sud Italia, ci beccarono, si sparse la voce e rimanemmo fino alle due ad aspettare che la incredibile coda dei tuoi fan si esaurisse. Dai bambini di tre anni alle signore col deambulatore. Ci furono almeno dieci persone che sostennero di aver fatto il militare con te. Ma quanti cazzo di anni di militare hai fatto, venti?

Forse tutti quelli che avevano vent’anni hanno pensato davvero di avere fatto il militare con me, anche solo per il fatto di avermi visto in divisa nello stesso periodo loro. Poi io gli dico «ma dove l’hai fatto il militare? A Casale Monferrato! Ma io ero a Pavia! Ma no no no no eravamo insieme, sono sicuro! Ma dove? A Roma alla Cecchignola! Ma no io ero a Pavia». Ma niente restano convinti: «Ma no, eravamo insieme, sono sicuro!». Si vede che nella loro mente il fatto di essere contemporanei, di essere andati nello stesso periodo a fare il militare gli faceva credere davvero che eravamo della stessa caserma, della stessa camerata, dello stesso plotone. Mi capita sempre, ancora oggi.

Hai una pazienza incredibile con le persone. Anzi, si vede proprio che non ti costa fatica.

Sai, io ho cominciato molto presto e non mi ha mai dato fastidio. Ho sempre pensato che fosse parte del gioco. Perdi un po’ della tua privacy e della tua intimità ma l’attenzione delle persone ti dà sempre qualcosa. Vengono da te, partecipano alla tua vita; è una specie di senso della collettività, no? Dopo gli anni della crisi l’ho apprezzato ancora di più, perché ho scoperto che è molto peggio quando non viene nessuno. Negli anni ’70 io andavo al conservatorio di Santa Cecilia in via dei Greci a Roma, che è vicino a piazza del Popolo. Parcheggiavo la macchina e prendevo via del Corso. La gente mi guardava e vedevo che parlottavano, come a dire «poveraccio, che fine ha fatto!». Mi sentivo quasi commiserato, sempre con tenerezza, ma fu un sentimento diverso e doloroso. E allora meglio il casino! Sia quello di prima che quello dopo gli anni ’70!

E fai casino ancora adesso! Ma ti pare che all’età che hai devi fare il singolo dell’estate? Ma un minimo di rispetto per i giovani, perbacco!

Spero solo di non diventare patetico. Sai quelli che si ostinano anche se nessuno li vuole più vedere, nessuno compra un biglietto per vederli a teatro, ma, niente si ostinano. Ecco io non voglio arrivare a quello, spero proprio di no. O forse ci sono già dentro?

Ma va là!

No davvero, sono molto sorpreso dal successo di questo pezzo.

Hai cominciato a essere famoso che non ti facevi neanche la barba, devi esserti sorpreso molte volte.

Mah, guarda che io ero davvero allo sbaraglio. Se mi parli della barba mi viene in mente una storia che ti fa capire com’ero ingenuo. Siamo nel 1963 e io faccio un programma televisivo; mi chiama Marcello Marchesi, grande autore, per un varietà che si chiamava “Il signore di mezza età”. Fece un cast che poteva sembrare una famiglia: c’erano lui, Lia Zoppelli, Lina Volonghi e poi una coppia di ragazzini: io e una ragazza. Il primo giorno la Volonghi, grande attrice, mi prende, mi abbraccia, dice «che carino questo ragazzino» e poi mi fa: «Ma te li lavi i capelli?» E io le dico sì, certo che mi lavo i capelli. «Ma con cosa ti lavi – fa lei – che puzzano così?» Me li lavo col sapone, dico io. «Ma sai che c’è lo shampoo?» Cos’è lo shampoo? le chiedo io. Lei ride come una pazza, poi il giorno dopo mi porta un flaconcino con un po’ di shampoo. Io non sapevo che esisteva lo shampoo, capisci? Ci rimasi di merda poi effettivamente usai lo shampoo e ammorbidiva i capelli, li profumava. La Volonghi fu contentissima: «Adesso si che stai bene» mi disse. Ero proprio allo sbaraglio.

Era per questo che ti amavano gli italiani, per la tua innocenza totalmente visibile. Quello è il luogo che hai condiviso con loro.

Io vengo da una famiglia di contadini e poi mio padre mise su un piccolo desco da ciabattino, ma eravamo sempre in contatto con la terra. Franco Battiato scrisse un pezzo per me alla fine degli anni ’80, si chiama “Che cosa resterà di me”. È bellissimo, parla del mio essere emiliano, di «un pensiero rosso e partigiano», perché mio papà era stato un partigiano e poi c’era il verso «dormo spesso dentro il sacco a pelo, per non perdere il contatto con la terra». Questa frase mi piacque moltissimo. Battiato è stato un grandissimo amico per me; era il contrario di me, come testa, intelligenza e visione, ma era un uomo eccezionale e proprio questa diversità ci legava molto. Mi piaceva tanto, il pezzo è bellissimo. (Gianni inizia a cantare: «Che cosa resterà di me/del transito terrestre/ di tutte quelle cose che ho avuto in questa vita»). Due o tre anni dopo lui riprende il pezzo, cambia le parole, parla di Mesopotamia e così lo reintitola e ridiventa suo. Un percorso strano questa canzone: è la stessa canzone dal punto di vista musicale, ma con due testi diversi, uno per me e uno per lui. Una cosa bella.

Se dovessi spiegare a un alieno cos’è la musica leggera italiana, cosa gli diresti?

Napoli. Viene tutto da quella tradizione, e ancor prima da Verdi e Puccini, ma quella è la base. Siamo fortunati, non ci sono molte altre tradizioni così pure: ci siamo noi, la musica brasiliana, la black music e cos’altro? Il resto è sovrastrutturato, derivativo. Boh, non saprei dirti meglio di così.

Ma ne hai cantate un bel po’, diciamo che l’hai detto lì cos’è la musica italiana.

Ma sì, ne ho più di seicento in repertorio...

E te le ricordi tutte?

Ma sì, vedi, invecchiando ti puoi dimenticare le cose che sono successe ieri ma non quelle di cinquant’anni fa. Mi vengono in automatico, prendi per esempio “C’era un ragazzo che come me”. Io la canto senza pensare al testo, esce da solo, guardo il chitarrista suonare e mi sento cantare, avendola cantata tre o quattromila volte. Poi a volte la canti pensando alle parole, e allora assume un significato diverso, ti passa davanti la tua vita. In particolare quella è l’unica canzone che in quegli anni ho voluto fare a tutti costi. Io avevo anche un padre di sinistra, era contro la guerra in Vietnam e contro gli americani e allora pensai questa canzone la devo cantare sia per me che per lui. Mi dissero «ma non si può, non va bene, tu sei il cantante melodico e romantico, “In ginocchio da te!”, non puoi cantare una canzone di protesta, tanto più parlare contro gli americani!» Ma io mi imposi e la feci, è l’unica canzone di quegli anni che ho voluto assolutamente scegliere e cantare contro tutti. Meno male che l’ho fatto perché è una canzone bellissima.

È perché sei un uomo di sinistra.

Certo! Per quanto i partiti ci abbiano deluso, i valori rimangono quelli.

© Riproduzione riservata

 

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