«Stiamo ancora affrontando il dramma dei contagi da Covid-19. Il tasso è altissimo. È un momento assai difficile. Inoltre ci sono molti saccheggi e violenze in corso. Quello che sta succedendo in Sudafrica è semplicemente scioccante». A parlare è Robin Rhode. Nato a Città del Capo nel 1976, Rhode vive a Berlino dal 2002. Nel 2005 ha partecipato alla Biennale di Venezia, per tornarvi nel 2015 tra gli artisti che hanno rappresentato il Sudafrica prendendo parte alla mostra What remains is tomorrow.

«Sì, è proprio un momento difficile», gli fa eco Sue Williamson. Anche lei ha rappresentato il Sudafrica alla Biennale di Venezia, ma nel 2013, partecipando alla mostra Imaginary Fact: Contemporary South African Art and the Archive. Nata nel 1941 a Lichfield, Regno Unito, Williamson vive in Sudafrica dal 1948 ed è stata testimone di come e quanto questo paese sia cambiato negli ultimi decenni.

«Il sette luglio», prosegue Williamson, «hanno messo in prigione il precedente presidente, Zuma, perché si era rifiutato di comparire davanti a un tribunale anticorruzione. È iniziato un saccheggio diffuso. I centri commerciali di Città del Capo e di Johannesburg sono stati sventrati e la gente è scappata portando con sé ogni tipo di merce. L’incarcerazione di Zuma ha innescato la disperazione e la rabbia della gente, già provata dalla mancanza di servizi. In tanti hanno perso il lavoro perché erano impiegati in industrie o ristoranti che sono stati chiusi. Il governo ha cercato in qualche modo di alleviare questo dramma mettendo a disposizione denaro per tutti coloro che ne avevano bisogno. Ma si tratta di circa 20 euro al mese. Si vedono lunghe file di persone fuori dagli uffici postali che sono lì per riscuotere questa sovvenzione. Le persone stanno veramente soffrendo. Il numero dei senzatetto è alle stelle. È una situazione davvero brutta».

L’Aids

Che la situazione in Sudafrica non sia delle più facili e che i problemi vengono da lontano è noto. Un altro ex presidente sudafricano, Mbeki, nei primi anni 2000 espresse scetticismo sul legame tra Hiv e Aids osteggiando l’uso di farmaci antiretrovirali quando l’epidemia stava sconvolgendo il Sudafrica. 

Williamson reagì realizzando la serie From the Inside in cui invitava le persone che avevano contratto la malattia ad esprimersi con messaggi personali che lei poi trasferiva sui muri di Città del Capo, rendendoli pubblici.

Ora che stiamo combattendo una pandemia molto più grande che ha contribuito a emarginare ulteriormente le persone e ad aumentare i tassi di povertà in Sudafrica e nel mondo – le chiedo – quali storie dovrebbero essere raccontare e rese pubbliche attraverso l'arte?

«L’Aids», risponde, «è stato un problema estremamente serio in Sudafrica, ma almeno non aveva il carattere di una pandemia, che ha avuto l’effetto di tagliare le persone fuori dalla vita. Il mio lavoro presuppone collaborazione con le persone e in questa situazione non è possibile neanche iniziare un dialogo con la gente, perché non sai chi è stato vaccinato e perché viviamo nell’isolamento sociale. La storia è lì per essere scritta, ma non può essere scritta proprio in questo momento».

Robin Rhode è conosciuto soprattutto per le sue serie fotografiche che documentano e ritraggono un performer o un gruppo di performer che interagiscono con i murales che dipinge, la maggior parte dei quali su un muro a Westbury, un sobborgo povero e pericoloso di Johannesburg.

Nella successione di fotografie, i movimenti del performer o del gruppo sembrano alterare la narrazione dei dipinti bidimensionali, trasformandoli in uno storyboard immaginario e rivelando una padronanza dell’effetto illusione.

l'artista

I murales

I dipinti sui muri hanno permesso a un pubblico sudafricano prevalentemente nero e povero, che non ha accesso regolare a musei e gallerie, l’opportunità di entrare in contatto con l’arte contemporanea. 

Nel 2019 Rhode è stato però costretto a rinunciare al suo muro a Westbury perché i tassi di violenza e di guerra tra bande nel quartiere hanno raggiunto livelli insostenibili. Ha realizzato pertanto le sue serie successive di dipinti all’aperto su un muro a Gerico, in Palestina, ben lontano dal Sudafrica.

«Il modo in cui il mondo è cambiato con la pandemia» mi dice, «ha limitato la possibilità di lavorare all’aperto e di interagire con gruppi sociali. Sto affrontando un enorme conflitto interno in questo momento come artista perché devo confrontarmi con le radici della mia pratica. Il mio lavoro ha sempre guardato molto alle comunità e ora devo ricorrere alla pittura astratta, un processo artistico per me nuovo, per sostenere la mia pratica. Devo sinceramente ammettere che avverto un senso di fallimento. Inizialmente ho pensato di tornare alla radice del mio lavoro: il muro nel cortile di mia madre a Johannesburg. E che ci si possa credere o no, è lì che sono stato contagiato dal Covid-19. Tutta la mia famiglia è stata contagiata. Perfino la sicurezza e la sacralità dello spazio domestico sono diventate un hot spot per il virus. È come se dovessi ricominciare da zero. Questa è la situazione in cui mi trovo adesso e sono anche in procinto di vendere il mio studio a Berlino. Sto vivendo delle intense ricalibrazioni come artista e come persona».

La pandemia

Anche il lavoro Williamson subisce gli effetti della pandemia: «Quando il lockdown è iniziato, a marzo dello scorso anno, e non potevo nemmeno andare nel mio studio, mi sono chiesta cosa potevo fare nel mio appartamento senza spostarmi. Così ho fatto una serie di disegni. Sono sempre stata interessata a oggetti di comunicazione come cartoline, guide, libretti e a ogni genere di piccole cose che diventano di pubblico dominio. Qualche tempo fa, per la serie Postcards from Africa (2018-2021), ho iniziato a guardare il tipo di cartoline coloniali che furono realizzate all’inizio del Ventesimo secolo. All’inizio del lockdown, ho deciso che avrei iniziato a lavorare a questa serie in maniera più intensa. Ho iniziato a fare dei disegni vecchio stile a penna e inchiostro, impiegando circa quattro o cinque settimane per ognuno. Guardavo sempre di più queste cartoline considerando il loro significato e l’effetto dello sguardo coloniale sulla gente dell’Africa».

Nella serie a cui si riferisce, attualmente in mostra nella sede di Città del Capo della Goodman Gallery, Williamson ha ripreso paesaggi e immagini legate ad attività quotidiane, come il trasporto di legna o la pulizia del pesce.

Li ha però disegnati lasciando fuori le persone, in modo da eliminare lo sguardo coloniale per dare spazio solo a cosa stava succedendo in quel particolare luogo.

I social media

Il coinvolgimento della comunità è una componente essenziale tanto nell’opera di Williamson quanto in quella di Rhode. Nel 2002 e 2003 con il progetto What about El Max? Williamson ha invitato i residenti sfrattati dalle loro case ad Alessandria d’Egitto a scrivere dichiarazioni sui muri delle loro abitazioni.

Da parte sua Rhode utilizza i disegni sui muri per evocare la natura effimera dei graffiti, sebbene l’opera d’arte vera e propria sia la documentazione fotografica dei momenti coreografati di interazione tra motivi dipinti e performer. Chiedo a Rhode se ho ragione nel ritenere che oggi i graffiti abbiano perso potere e non siano più visti come un’espressione di tenacia o resilienza contro sistemi autoritari.

«Non ne ho visti molti a Città del Capo» risponde. «Penso che l’idea dei graffiti e dell’interazione con il mondo esterno, i muri, sia diventato sempre meno rilevante man mano che le persone hanno abbracciato i social media. I social sono diventati la piattaforma che la società usa per scrivere e condividere slogan, comunicare ideologie politiche e così via. Questo è successo, come sappiamo, per via del progresso della tecnologia, ma anche per il fatto che non possiamo più esplorare il mondo esterno come in passato a causa della pandemia. Quando ero un giovane artista guardavo l’arte murale sudafricana. Non erano graffiti stilizzati, ma testi politici sui muri. La mia comprensione dell’arte murale è iniziata con l’immaginario politico che vedevo sui muri da giovane in Africa, e dunque mi sento vicino al lavoro di Sue (Williamson ndr) che usa l’arte murale come mezzo per comunicare un’idea artistica. Ma ora è decisamente diverso. E penso, in relazione al discorso che faceva prima Sue sul processo di disegno, che l’arte è diventata una sorta di terapia emotiva, un processo interiorizzato, piuttosto che esterno».

La memoria degli oggetti

La pratica artistica di Williamson e di Rhode esplora la memoria degli oggetti. Con il suo lavoro For 30 Years Next To His Heart (1990) Williamson denuncia la legge messa in atto durante l’apartheid, che richiedeva ai lavoratori neri di portare con sé dei passaporti interni (passbook) quando lasciavano le aree per loro designate.

Per questo lavoro creò 48 cornici che racchiudevano immagini delle pagine all’interno del passaporto di un uomo, che conteneva informazioni su dove gli era stato permesso di vivere, dove aveva lavorato, se aveva pagato le tasse, e così via. Un lavoro come questo permette di superare la difficoltà di comunicare le memorie collettive alle generazioni più giovani dei “nati liberi” nella società post apartheid, che non hanno vissuto in prima persona quelle violazioni.

«Il passaporto interno» spiega Williamson, «è un ottimo esempio di oggetto che può ancora parlare a un’altra generazione, oggi come dieci anni fa, quando rincorreva il ventennale della fine dell’apartheid. Qualcuno mi ha detto che attualmente tanti ragazzi in Sudafrica non sanno cosa fossero i passaporti interni perché i loro genitori non vogliono far loro sopportare il trauma del passato e semplicemente non ne parlano. Quindi penso che sia importante per i giovani sapere cosa hanno passato i loro genitori e qual è la loro storia».

Il rapporto con le proprie origini: oggi più di prima questa sembra una questione importante da affrontare per un artista nero. «Lo scorso anno, oltre che alla pandemia la mia attenzione si è rivolta al movimento Black Lives Matter. Quanto stava succedendo negli Stati Uniti è diventato per me uno stimolo a leggere brani di letteratura sudafricana. È stato affascinante e tragico vedere il parallelo tra ciò che stava accadendo in Sudafrica durante l’èra dell’apartheid e ciò che sta accadendo in termini di violenza della polizia in diverse parti del mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Questo mi ha spinto a riflettere sulla storia sudafricana, persino sulla mia infanzia, e sulla mia capacità di artista di generare immagini astratte come mezzo per indagare aspetti legati al corpo, al trauma e alla violenza. È così che ho cercato di confrontarmi con gli aspetti della memoria, dell’infanzia e della storia sudafricana».

l'artista

L’identità africana

Tra il 2011 e il 2018 Rhode ha lavorato con diciotto giovani per produrre e mettere in scena le sue opere realizzate a partire da dipinti su muro a Westbury. Era un modo per permettere loro di guadagnare denaro e sfuggire dalle difficoltà della vita quotidiana.

Tuttavia, nel 2019, prima ancora dell’arrivo della pandemia, si è reso conto di aver fallito nel tentativo di aiutare quei giovani a sfuggire al loro impoverimento. «Non passa giorno senza che io desideri riacquistare la libertà e tornare a lavorare come facevo prima. Quel capitolo è chiuso, purtroppo, non c’è modo di tornare a Westbury a causa dell’alto tasso di rischio. Mi fa davvero male che abbia esaurito tutte le possibilità per aiutare e sostenere questi giovani. Ma io sono solo un uomo che ha fatto tutto quello che poteva. Negli ultimi due anni mi sono chiesto qual è la definizione dell’arte africana e perché operiamo sempre in maniera collettiva. Se guardi i principali artisti africani contemporanei, da El Anatsui a Ibrahim Mahama, non operano come singoli, ma come collettivi. Siamo sempre orientati alla comunità: dobbiamo supportare, dobbiamo creare una crescita. È una responsabilità enorme. E poiché non vivo in Sudafrica in modo permanente, ora ho un’identità fratturata. Sono in conflitto tra il sistema artistico europeo e americano che privilegia la voce individualista e l’arte o artista africano che opera come collettivo e dipende da una maggiore interattività educativa e sociale affinché il suo lavoro venga riconosciuto dall’arte globale. Vedo che gli artisti europei non hanno questa responsabilità. Non condividono lo stesso trauma legato all’esperienza sociale e politica e non hanno bisogno di sostenere qualcuno. Quindi c’è una grande responsabilità sulle nostre spalle. E sono sicuro che Sue la pensa allo stesso modo. La sua arte contiene la stessa idea di responsabilità sociale. Sto entrando in conflitto con me stesso e mi chiedo se lavorare come individuo mi renda ancora un artista africano. Sto diventando un artista tedesco? Dove sono adesso? C’è ancora una possibilità per le nostre voci individuali di essere riconosciute allo stesso modo in cui le sono quando operiamo come comunità, quando siamo un collettivo?»

Su questo argomento anche Williamson ha da dire la sua: «Gli artisti sudafricani in generale sentono la pressione della responsabilità sociale. William Kentridge ha fondato il Centre for the Less Good Idea con l’intento di formare giovani artisti. Questa attitudine attraversa la nostra società».

Rhode scuote la testa. «Non tutti abbiamo le stesse possibilità di Kentridge. Per quanto abbia cercato di trasmettere un messaggio di speranza attraverso il mio lavoro e di far crescere una particolare comunità, alla fine, nel prendere atto che non potevo cambiare o essere di aiuto alle persone come speravo, ha prevalso la disperazione. Tendo sempre a guardare all’arte con in mente le questioni della vita e della morte. Molte delle grandi opere incarnano queste nozioni. Così anche speranza e disperazione devono coesistere. La nozione del collettivo in contrapposizione all'individuo è stata una rivelazione per me. Soprattutto in questo particolare momento storico, possiamo abbracciare voci individualiste per creare arte che nasce da un processo più interiorizzato. L’idea di dipingere o disegnare, per esempio, diventa più importante. Forse questo momento storico sarà ricordato come un periodo che ci ha insegnato a non guardare fuori ma dentro per vedere come possiamo affrontare quelle esperienze emotive. È questo che intendo quando parlo della necessità di accettare un processo individualistico attraverso la pittura, il disegno e l’astrazione, piuttosto che lavorare, come ho fatto in precedenza, in maniera collettiva basandomi sull’attività di gruppo. Immagino sia questa la mia risposta alla domanda su cosa riserva il futuro in un mondo pervaso dalla pandemia: non si può più fare affidamento sul gruppo e sul mondo esterno. Non rimane che accettare la tua voce interiore».

Chiedo a Williamson se la pensa nello stesso modo. «Sì» risponde, «la pandemia ha fornito un momento in cui possiamo riesaminare la nostra pratica».

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