Si è spesso ironizzato in passato sull’ossessione del festival francese per il politicamente corretto, sull’ansia smodata di rincorrere la parità di genere e di non offrire il fianco agli attacchi del femminismo di casa. Ma in uno scenario che sta annichilendo la cultura woke in tutte le sue manifestazioni, un’immersione effimera, temporanea, per quanto consapevolmente precaria, farà bene al cuore. Il via martedì 13 maggio
In uno scenario che sta annichilendo la cultura woke in tutte le sue manifestazioni, che autorizza lo sterminio di massa e va ristabilendo a gamba tesa il dominio assoluto di quello che Joseph Nye definiva l’hard power, il potere basato su coercizione e compenso economico, forse è il caso di rivalutare il soft power del Festival di Cannes, al debutto dell’edizione numero 78.
Si è spesso ironizzato in passato sull’ossessione cannese per il politicamente corretto, sull’ansia smodata di rincorrere la parità di genere e di non offrire il fianco agli attacchi del femminismo di casa, che è serissimo e occhiuto. Il diktat delle "quote rosa” ha spesso giustificato in passato la presenza di opere debolucce nella selezione ufficiale.
Anche il festival cannese esercita un potere. Rivendica il proprio status di festival numero uno nel mondo e lo difende con le unghie e coi denti, a qualsiasi costo. Ma per restare ai paradigmi di Joseph Nye è un esempio di soft power, di potere che si ottiene attraverso l’attrazione, la forza dell’immaginario.
Il capitale woke di Cannes 2025 è imponente, ed è impossibile non ammettere che di questi tempi assuma un valore politico speciale. Il politicamente corretto di ieri, al limite del conformismo in un’epoca che si sta archiviando a velocità massima, oggi suona disobbedienza.
Lo studio
Parto dai dati di uno studio sull’evoluzione della parità di genere nel cinema americano dal 2015, appena pubblicato da Kering/Women in Motion. Dal 2015 al 2024 la quota di personaggi principali interpretati da donne nei cento incassi più alti al botteghino Usa è salita dal 32% al 54%.
Cifre significative, se si considera che i i film con protagoniste femminili riscuotono successo pari a quelli con protagonisti maschili. Ma resta il fatto che i ruoli interpretati da donne sullo schermo sono ancora spesso conformi agli stereotipi di genere. Statisticamente, tra il 2015 e il 2023 solo il 32 per cento dei personaggi parlanti sono donne e un quarto di loro gioca su abbigliamenti da femmine-oggetto tradizionalmente graditi alla cultura patriarcale. Sono limitazioni di ruolo e rappresentazioni schematiche che possono addirittura influenzare le opportunità di lavoro offerte successivamente alle attrici.
E va a rilento il cambiamento per le donne dietro la macchina da presa. Nei dieci anni considerati la quota di registe nei 100 incassi più alti degli Usa è salita dal 7,5% al 13,6%. Ma resta inalterata la difficoltà per le registe donne di ottenere finanziamenti per i loro film.
Le scelte alla Croisette
Su questo fronte Cannes mai come quest’anno ha compiuto scelte pregnanti. Schiera sette registe donne nel calendario ufficiale, e per il secondo anno consecutivo chiama una donna, Juliette Binoche, a presiedere la giuria. Sarà anche un’operazione di facciata, ma non è poi tanto vero. Ad aprire il festival con Partir un jour – fuori concorso – c’è una regista donna, Amélie Bonnin, alla sua opera prima. Evento senza precedenti. Casualità o no, le storie di donne invadono, letteralmente, la materia dei film.
Ridurre il numero dei “soliti noti” e puntare sugli esordienti: anche questo è soft power. Troviamo in concorso due soli vincitori pregressi di Palma d’oro: i fratelli Dardenne, che l’hanno vinta due volte, e Julia Ducournau, ma tanti registe e registi all’opera prima. E opere prime sono la metà dei film selezionati per Un Certain Regard, ivi compresi i debutti da autrici di due star celeberrime come Scarlett Johansson e Kristen Stewart, che ovviamente sono mediaticamente appetitosi.
Significa qualificarsi come una vetrina d’avanguardia, che bada bene a non sguarnire di glamour le sue mitiche marches – in Francia non si arrendono all’omologante espressione “red carpet” – ma non si siede sull’autorialità convenzionale e guarda al futuro. Significa risultare attractive anche per la generazione X. Come tutti, ho assistito via zoom alla conferenza stampa di presentazione e ho letto i commenti postati dalla popolazione più giovane: «Oddio, ancora i Dardenne!» e «Salvateci dal vecchiume!». Hanno torto, ma di queste idiosincrasie generazionali Cannes tiene conto.
Ospitare un immaginario legato ai conflitti e alle tensioni mondiali: questo è in realtà uno storico e meritorio pallino del festival. La Francia è tra i Paesi leader della Coalizione dei Volenterosi, e il programma ha incluso tre film sull’Ucraina a precedere l’apertura ufficiale: il documentario Zelensky, Notre Guerre di Bernard-Henri Lévy, e A 2000 mètres d’Andriivka di Mstyslav Chernov sulla missione di un plotone attraverso campi minati.
Gaza
Il genocidio di Gaza è ben più presente nelle sezioni, ma l’evento più sconvolgente degli undici giorni sulla Croisette se lo è assicurato Acid, rassegna laterale che da oltre trent’anni valorizza film coraggiosi e indipendenti spesso senza distributore.
La protagonista del documentario Put Your Soul on Your Hand and Wallk della regista e attivista iraniana Sepideh Farsi, la fotoreporter palestinese Fatem Hassona, è stata uccisa insieme a dieci membri della sua famiglia il 15 aprile, da un missile israeliano. Se vi chiedete qual è la proiezione che ha avuto il record di richieste in un Festival che ospita anche Tom Cruise e Mission Impossible: The Final Reckoning, finale di una franchising trentennale, avete già la risposta.
«Avevamo visto e programmato un film in cui la forza vitale di questa giovane donna sembrava un miracolo – ha scritto il team di Acid – Il suo sorriso era magico come la sua tenacia: testimoniare, fotografare Gaza, distribuire cibo nonostante le bombe, i lutti e la fame. Questo non è lo stesso film che sosterremo e presenteremo in tutti i cinema, a partire da Cannes».
The future is uncertain but the end is always near, secondo Jim Morrison. Joe Strummer cantava: The future is unwritten. Per la teoria della relatività di Einstein, non ci sarebbe reale differenza tra futuro e passato. Quello che stiamo vivendo è un confine epocale, popolato di spettri del passato. It’s the end of the world as we know it. E non ci sentiamo bene, contrariamente a quanto i R.E.M. aggiungevano al loro titolo. E un’immersione nel woke di Cannes, effimera, temporanea, per quanto consapevolmente precaria, fa bene al cuore.
© Riproduzione riservata