Una sera di qualche anno fa, ero con Francesco De Carlo a un tavolo del leggendario Comedy Cellar di Manhattan. Con noi sedeva il comico francese Gad Elmaleh, il quale, dopo una carriera assolutamente mastodontica tra cinema e televisione in Francia – dove è considerato alla stregua di una specie di Roberto Benigni che non ha perso la verve comica – aveva deciso di trasferirsi a New York e tentare la strada della stand-up comedy in inglese, aiutato anche dal supporto dell’amico Jerry Seinfeld. «Un’esperienza brutale», ci raccontava. «All’inizio non rideva nessuno e io, che ero abituato a sale gremite di milioni di persone a Parigi, mi trovavo paralizzato davanti a una saletta con poche centinaia di occhi puntati addosso».

De Carlo annuiva e sorrideva. Io mi preoccupavo, ma lui sembrava nutrirsi di questi racconti angoscianti. Sembrava che capisse perfettamente, che fosse preparato e che non aspettasse altro.  Sono abbastanza certo di avergli letto nello sguardo una qualche forma di sinistro appetito.

I pionieri del genere

Era la prima volta di De Carlo in America, ma ci arrivava con alle spalle diversi anni di esplorazione del sottobosco della stand-up comedy nei club di Londra, dove si era trasferito proprio per inseguire la sua carriera da comico internazionale. Per un italiano, uno spirito di iniziativa più unico che raro.

Nel panorama della nuova stand-up comedy, De Carlo è decisamente e senza esitazioni tra i pochi ad avere un obiettivo chiaro e puntuale, e a dimostrare, spettacolo dopo spettacolo, di possedere la giusta dose di iniziativa e di volontà per perseguirlo.

Benché la stand-up sia un genere che, soprattutto negli ultimi anni, ha sempre guardato all’America come a un obiettivo, più che una stella polare o un termine di paragone, in pochi hanno tentato veramente il passo.

Tra i veri pionieri del genere, nessuno. Paolo Rossi, che negli anni Ottanta era tra i pochi a procurarsi e ascoltare con attenzione gli album provenienti da oltreoceano sebbene masticasse pochissimo l’inglese, ha preferito guardare alla commedia dell’arte e al tetro classico; Beppe Grillo, che si è nutrito di estetica americana dalle suole delle scarpe alla macchina che guidava, si è accontentato di rimanere profeta in patria e ne ha fatto una bandiera; Daniele Luttazzi, che come la storia ci insegna ha sempre nutrito una profonda, devota e dettagliata conoscenza del panorama comico anglosassone, non è arrivato al punto di poter guardare fuori dai confini prima che la sua carriera prendesse una piega desolante.

Le nuove generazioni

Chi si è affacciato al genere più di recente, invece, pur provenendo da una generazione che ha riscoperto la stand-up attraverso l’ondata favorita dalla diffusione delle piattaforme e quindi pescando a piene mani dalla comicità internazionale, si porta dietro una sorta di segreta e inconfessabile aspirazione che però si traduce in vie di fatto solo in pochi casi. In generale, i nostri comici preferiscono rimanere nel noto e battuto sebbene ormai non esista più una vera distinzione di mercato che vada oltre i numeri degli ascolti.

De Carlo, invece, è un fissato. Per lui l’America è sempre stata un punto di arrivo, una meta non sognata ma costruita passo dopo passo, modellando il repertorio sulla traducibilità e costruendosi un personaggio che funzionasse anche al di fuori del conosciuto. Con Eddie Izzard che lo definiva il «miglior comico italiano in circolazione» e anni di Fringe Festival di Edimburgo sotto le unghie, mentre altri inseguivano contratti in Rai, lui gettava i ponti per attraversare l’Atlantico.

C’è un particolare che rende questa operazione ancora più interessante: sebbene parli un inglese fluente e possegga un vocabolario al di sopra della media nazionale, quando si esibisce succede qualcosa nella sua percezione di sé che lo trasforma in individuo a metà tra il turista confuso e l’expat scioccato.

Le “erre” normalmente blese gli si arrotano in bocca come una sega circolare, i termini gli si volatilizzano dalla memoria, i false-friends impazzano. È tutto calcolato. «Il pubblico in Inghilterra non vuole sentire la stessa storia che potrebbe raccontargli qualsiasi altro comico con un accento vagamente esotico», mi ha spiegato.

«Vuole avere la sensazione di trovarsi di fronte a un elemento completamente nuovo. Se sei italiano, devi dargli in pasto un italiano».

Elmaleh è d’accordo: «Le prime volte provavo a tradurre il mio materiale in inglese, ma era qualcosa che tutti avevano già sentito, detto in maniera vagamente più internazionale. La vera svolta è avvenuta quando ho capito che dovevo raccontar loro della mia condizione reale, dell’essere uno straniero che provava a farcela in un campo completamente ignoto». E per compiere questa operazione fino in fondo, De Carlo lo sa, bisogna liberarsi di tutti i travestimenti e le sovrastrutture e lasciare correre fuori l’autenticità dell’italiano spiazzato di fronte al resto del mondo.

Meravigliosamente tragico

Nel suo ultimo spettacolo, Limbo, il personaggio De Carlo è al suo massimo: attraverso una storia perfettamente circolare, nella quale nulla è lasciato al caso e tutto alla fine concorre a costruire una conclusione tragicomica, l’expat spiazzato viene trascinato di forza a Roma e torna indietro nel tempo rimanendo sospeso tra l’ambizione americana e la realtà popolare che gli sta aggrappata alla schiena da tutta la vita. È meravigliosamente tragico. È stupendamente comico. È l’intrattenitore che pesca a piene mani dalla sua più intima quotidianità e sbatte di fronte al pubblico contemporaneamente la sua immensa brama e la sua imbarazzante modestia. Benigni da David Letterman, ma senza l’auto accondiscendenza.

La stand-up comedy, più di qualsiasi altra espressione artistica, contiene la necessità di fingere una realtà così ben assimilata e così tanto rimasticata da lasciare la sensazione che il comico si stia confessando in pubblico. Quello che si dice sul palco non deve sembrare vero, deve essere vero.

È come quando una persona affetto da pseudologia fantastica si convince a tal punto di una propria menzogna da considerarla reale pur sapendo che è frutto di fantasia.

Il segreto sta nel dosare gli ingredienti, mescolare la finzione a elementi di realtà a poco a poco finché le parti non saranno invertite e il racconto non sarà diventato completamente falso ma del tutto plausibile. Parlare correttamente inglese, ma con un accento marcato e preoccupandosi di buttare qui e là qualche termine solo vagamente incorretto.

Osservare De Carlo che insegue il suo sogno americano, ogni giorno più vicino, è come assistere alla nascita di una nazione. Ogni elemento viene assimilato e riutilizzato in un gioco di equilibrio tra la realtà del palco e quella della propria stanza. Tra le feste dei produttori hollywoodiani e le serate nel garage di un amico. Tra New York e la Magliana. Tra il Francesco che parla romano, e il Francesco che parla inglese, ma non benissimo. Abbastanza da farsi capire.

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