Quest’anno ricorre il novantesimo anniversario di un folle volo che va ricordato come merita un’impresa generosa, eroica e temeraria. Il 3 ottobre 1931, verso le otto di sera, i romani che passeggiavano per le strade videro scendere dal cielo una nevicata di fogli. Un aviatore solitario stava sorvolando Roma a bordo di un piccolo aereo da turismo; fece cadere sulla città 400mila manifestini con un testo scritto di suo pugno contro il regima fascista. Volava a bassa quota e ogni tanto piovevano manifestini; passò sopra palazzo Venezia dove il duce stava tenendo consiglio, planò su piazza di Spagna, poi scomparve.  

Quell’aviatore si chiamava Lauro De Bosis; aveva preso alcune lezioni di volo prima di montare su un aereo che lo aspettava nell’aeroporto di Marsiglia, un modello tedesco acquistato con una sottoscrizione di antifascisti in esilio; l’aereo si chiamava, miticamente, Pegaso.

«Domani alle tre» scrive De Bosis nel suo testamento spirituale, l’Histoire de ma mort, «su un prato della costa azzurra, ho un appuntamento con Pegaso. Pegaso, è il nome del mio aeroplano, ha la groppa rossa e le ali bianche; benché abbia la forza di ottanta cavalli, è svelto come una rondine. S'abbevera di benzina e si avventa nei cieli come il suo fratello di un tempo, ma di notte, se vuole, sa scivolare nell'aria come un fantasma. L'ho trovato nella foresta Ercinia, e il suo ex-padrone me lo porterà sulle rive del mar Tirreno credendo in buona fede che abbia da servire agli svaghi di un giovane signore britannico. La mia cattiva pronuncia non gli ha destato sospetti: gli chiedo qui scusa dell'inganno. Ma non andremo a caccia di chimere. Andremo a portare un messaggio di libertà a un popolo schiavo di là dal mare».

Ispirarsi a D’Annunzio

De Bosis non era un aviatore, né un soldato: era un intellettuale e un poeta, ma tutt’altro che un poeta-vate e un tribuno della grandezza d’Italia, come D’Annunzio il quale aveva compito lo stesso gesto tredici anni prima sorvolando Vienna con la sua squadriglia, impresa a cui naturalmente De Bosis s’ispirò.

Col suo Pegaso volteggiò per mezz’ora nel cielo di Roma; sfuggì agli aerei di Balbo che si erano alzati per dargli la caccia, poi virò verso il Tirreno e nessuno lo vide mai più. Si perse nel nulla perché aveva esaurito il carburante così cadde tra le onde, come Icaro (e come sarebbe caduto un altro eroico scrittore, Antoine de Siant-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe). 

Per sviare le spie fasciste aveva dato un’identità falsa e detto che intendeva dirigersi a Barcellona; perciò i tecnici non gli avevano riempito completamente il serbatoio. All’epoca aveva trent’anni.

De Bosis imitò d’Annunzio; ma la situazione non poteva essere più diversa. L’impresa di D’Annunzio, uomo peraltro dotato di un coraggio leonino, nasceva dal suo principio di “ardere sempre e non bruciare mai”, dalla sua voluttà di sfidare la morte, e una fine eroica e teatrale, compiuta davanti alla gran platea del mondo della nazione di cui era l’idolo; la sua impresa fu preparata con i mezzi dell’aeronautica militare, con una squadriglia che comprendeva i migliori piloti che l’Italia potesse offrire, e venne acclamata dalla stampa di tutto il mondo, compresa quella nemica.  

Sembra che il motore dell’aereo di D’Annunzio si sia fermato tre volte durante il viaggio di ritorno (almeno, così raccontò il poeta) e che ogni volta egli avesse estratto da un cofanetto foderato di broccato rosso quello che chiamava “il segreto della tenebra”, un veleno che portava con sé nel caso di un incidente di volo. L’impresa di De Bosis, invece, fu clandestina e compiuta in totale isolamento. Ebbe un certo risalto sulla stampa internazionale; quella di regime gli dedicò solo un articoletto con il becero titolo. Il Times di Londra commentò invece: «Finché esisteranno uomini come De Bosis, la salvaguardia della libertà è assicurata».

Cattedra ad Harvard

De Bosis era un uomo noto e stimato nel mondo di lingua inglese; insegnò in America, scrisse un’antologia della poesia italiana per le edizioni di Oxford. Poliglotta, coltissimo, con amicizie tra i grandi intellettuali inglesi e americani del suo tempo, si può dire che sia più noto nel mondo inglese che in quello italiano: esiste tuttora una cattedra di civiltà italiana Lauro De Bosis a Harvard.

Il suo era un antifascismo monarchico e liberale; fondò un movimento politico che venne immediatamente smantellato dalla polizia del regime e ne seguirono alcune dure condanne. Non invano, però. Molti anni dopo il folle volo di Lauro, nel 1944, nella casa romana della famiglia De Bosis in via Due Macelli 66, si riuniva il comitato di Liberazione nazionale e vi entravano uomini come De Gasperi, Nenni, Saragat, Amendola. Quando dopo la Liberazione le fu portata la lettera di ringraziamento del comitato di Liberazione, la madre commentò: «Guarda, i volantini di Lauro stanno ancora cadendo». Il padre di De Bosis aveva diretto una rivista letteraria per la quale avevano scritto Pascoli e Carducci; la sorella Virginia fu una pioniera dell’arabistica italiana, coautrice con Francesco Gabrieli di quella che è ancora la più bella traduzione italiana delle Mille e una notte.

Una famiglia di letterati, intellettuali, poeti. De Bosis fu non fu un poeta di primo piano ma un traduttore eccellente; si può dire che traducesse come respirava. Tradusse tra l’altro – impresa immensa – il Ramo d’Oro del padre dell’antropologia, James George Frazer, per una piccola casa editrice di Roma, Stock. La traduzione, e Frazer stesso, cadde nell’oblio sinché l’editore Einaudi la ripubblicò nel 1950. Il Ramo d’oro è un’opera capitale della cultura internazionale degli inizi del XX secolo, e resta tuttora un classico; ma l’antropologia, come del resto la psicoanalisi,  in quei decenni era terreno quasi inesplorato in Italia.

Tra mito e letteratura

Il cuore di quest’uomo fu anche in parte greco. Piero Boitani nel suo bel libro di qualche anno fa, Parole alate. Voli nella poesia e nella storia da Omero all’11 settembre, dice di lui che «vive e muore nella storia: ma si muove in essa sospinto dal mito e dalla letteratura. E con essi dà forma al suo destino… pare egli stesso della stoffa del mito. Brillante e bello: in una sua immagine sulle rive dell’adriatico sembra Ermes o Icaro pronto a spiccare il volo». Mitico, eroico: però l’eroismo luminoso degli eroi omerici pronti a dare tutto in un istante, piuttosto che quello torbido dei personaggi tragici.

Eppure, o forse appunto per questo, il mondo della tragedia greca lo attirava. Incominciò a tradurre da giovanissimo: Edipo Re, il testo fondamentale del teatro greco; poi Antigone di Sofocle e Prometeo incatenato di Eschilo (tra le tre, la traduzione più bella). Antigone e Prometeo erano personaggi che gli assomigliavano: due ribelli, che hanno il coraggio di guardare in faccia un tiranno e non si piegano.  

Potremmo dire che De Bosis li portava nell’anima e li fece suoi. Non si sentiva un demiurgo, come D’Annunzio, ma piuttosto un Icaro, un essere votato al sacrificio di sé perseguendo un sogno di libertà e Icaro è il titolo di un dramma che De Bosis compose, per il quale ottenne la medaglia d’argento alle olimpiadi poetiche di Amsterdam del 1928. Fu tradotto in inglese dalla sua compagna, la grande attrice americana Ruth Draper, di vari anni più anziana di lui: fu un amore totale, d’impronta romantica, sino alla morte di Lauro, e anche oltre. Icaro non è un’opera memorabile, ma è con un fremito d’emozione che noi immaginiamo questo testo come una premonizione, e non ci è dato immaginare quali furono le parole di Icaro mentre cadeva o di De Bosis mentre precipitava.

Icaro è però anche una manifestazione di libertà. Per millenni l’umanità è stata radicata alla terra, e quello di Icaro con le sue ali di piume è parso soltanto un sogno folle, destinato a cozzare contro un limite invalicabile. L’uomo non può volare così come Ulisse (per Dante) non può varcare le colonne d’Ercole. Sogni, peccati di hybris di un’umanità che ardisce tentare di valicare i suoi limiti. Ma pochi dopo la nascita di Lauro De Bosis, questo sogno era diventato reale; i fratelli Wright avevano sperimentato il primo aereo, la specie umana aveva infranto l’ultimo limite che l’ancorava alla terra.

Lauro De Bosis compì il suo temerario volo ispirato anche da questo sogno, e da un’immagine dell’uomo che si portava dietro dalla sua formazione umanistica, dalle sue letture classiche, da tutta una tradizione di volatori dell’anima che parte da Platone, per il quale se un poeta non vola con la mente non può essere  tale. De Bosis era troppo intellettuale per trascinare folle e fare davvero politica; quando però il suo aereo volò sopra Roma, portava con sé non solo idee di libertà, ma anche una concezione dell’essere umano che era maturata in lui dal suo incontro con il mondo greco. Perciò va ricordato, come si ricordano gli eroi, e come lo commemora Iris Origo nella sua biografia, contenuta nel volume Il bisogno di testimoniare. De Bosis progettava di atterrare in Corsica dopo il suo volo: ma quella volta Pegaso tradì il suo cavaliere.

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