I raccattapalle sulla terra rossa del Roland Garros, mentre corrono rattrappiti e col volto ingabbiato, assomigliano a certi personaggi minori nei quadri di Hieronymus Bosch; il ballo delle coppie a Uomini e donne sembra una versione casereccia di Eyes Wide Shut; il tempo dell’emergenza si legge più chiaro dall’intrattenimento che dai telegiornali. Massimo Giletti dice «non abbiamo lo scaldapubblico» (cioè l’assistente di studio addetto a calibrare l’entusiasmo), Milly Carlucci fa vedere come due pubblici distanziati, in due studi diversi, vengano sovrapposti digitalmente per dare l’impressione dell’ovazione all’unisono; col Covid-19 la magia svela i propri trucchi, le ruote dell’ingranaggio si mostrano allo scoperto, le componenti di cui è fatto un varietà risultano più facili da individuare.

Tra queste componenti, una delle più interessanti e indispensabili è quella degli “opinionisti”: neologismo che corrisponde a una nuova qualifica e quasi a un nuovo mestiere («tu come ti mantieni?» «faccio l’opinionista»). Certo, visto che il compito primario dell’opinionista è litigare, la mascherina può essere un ostacolo; e infatti Tina Cipollari, a Uomini e donne, se la mette e toglie compulsivamente quando ingaggia i consueti combattimenti verbali con Gemma Galgani.

Il distanziamento, come la mancanza degli applausi e dei buuh, non favorisce chi dovrebbe alimentare la caciara; però è anche vero che proprio la drastica riduzione del pubblico impone una maggior presenza degli opinionisti stessi: a Ballando con le stelle, Milly Carlucci ha aggiunto quest’anno alla solita ciurma anche tre “tribuni del popolo” incaricati di discutere su quel che dicono gli opinionisti e i giudici, come se fossero opinionisti al quadrato. Il termine “opinionista” è lontanissimo da “opinione” come la intendiamo quando parliamo di “libertà d’opinione” o di “opinione pubblica”, sembra anzi un abuso linguistico; eppure è un abuso rivelatore di qualcosa di più profondo che sta accadendo nella fiducia delle masse rispetto alla possibilità di risolvere i conflitti con la ragione.

Il conversatore

Ma andiamo per ordine e vediamo prima di tutto che cosa un opinionista non è. Non è un tecnico, non è un esperto; non fonda la propria autorevolezza sulla pacatezza articolata dei discorsi (Roberto Calasso o Sabino Cassese sono impensabili come opinionisti).

Un opinionista è essenzialmente un conversatore con forte predisposizione per lo spettacolo, proviene da ambienti diversi e non teme i contesti burrascosi. L’areale in cui prospera si estende dai reality e dai talent fino ai programmi sportivi e ai talk pomeridiani o serali di gossip: il fine è “sottolineare il fattore umano, creando dibattito".

(Foto: Claudio Bernardi/LaPresse)

Un parterre variegato

Una regola che vige nel mondo degli opinionisti è che il parterre debba essere il più variegato e bizzarro possibile: all’intellettuale eslege e all’accademico disinvolto devono affiancarsi il pornoattore e la criminologa, il cantante vintage e il giovanissimo tiktoker, la moglie del calciatore e la presbitera della chiesa episcopale, il politico ormai fuori dai giochi e la casalinga miracolata.

Il kitsch inevitabile che nasce dall’impasto (l’irredimibile Antonio Razzi o la martellante Caterina Collovati) viene riscattato dalla speranza e dalle risorse del “camp”, che è una forma di kitsch consapevole e voluto, provocatorio e tra virgolette («tutto questo è divertente perché fa orrore»).

Ruoli reversibili

Maestri in questo sono le creature di Piero Chiambretti, da Costantino della Gherardesca a Drusilla Foer (alias Gianluca Gori); ma ci rientrano anche il dannunzianesimo dadaista di Vittorio Sgarbi, il pizzetto blu di Giovanni Ciacci e il disperato narcisismo di Guillermo Mariotto (per non parlare di Cristiano Malgioglio). Se a qualcuno (mettiamo Alba Parietti, o Alessandro Cecchi Paone, o Enrica Bonaccorti) scappa di esprimere qualche idea, subito sui social è aggredito dagli haters, e la volta dopo si parlerà di quello.

Altra regola è la reversibilità dei ruoli: chi partecipa a un reality o a un talent può diventare opinionista ma anche viceversa, chi opina è stato o sarà opinionato. Nonostante la caotica difformità dei membri, la consorteria assume pian piano le sembianze di un’allegra compagnia di giro, che si sorride nei camerini tra maldicenze e invidie, alimentata dai gettoni di presenza (pudicamente definiti “rimborso spese”). Torna alla mente la proverbiale immagine dei ladri di Pisa, che litigavano di giorno ma di notte andavano a rubare insieme.

(LaPresse Colarieti)

Prima di tutto, litigare

La lite, dicevo, è l’obiettivo principale dell’opinionista: ma non deve arrivarci in modo troppo rozzo e rapido, il mestiere richiede una ricchezza di sfumature e un ventaglio di abilità.

La prima di queste abilità è “fare le facce”: di stupore, di scandalo, di violenta negazione o di appoggio compiaciuto; il cameraman riprende e la panna monta. L’altra abilità è l’acutezza psicologica di capire il punto debole dell’antagonista; ma la dote più importante è certamente l’autoironia – i pochi refrattari all’ironia (per passione o stolidità) sono un pretesto per qualche siparietto comico del conduttore.

Bisogna restare fedeli alla propria maschera (la nata–ieri, l’artista–che–ha–vissuto, il ragazzo–coi–valori, la simpatica canaglia) ma senza diventare monotoni, ci vuole inventiva nell’incoerenza. Le personalità si squadernano ma la virtù principale è sapere quando fermarsi; se esci dai limiti, subisci l’onta che ti venga spento il microfono, o peggio di non essere più chiamato. Il terreno è scivoloso: l’opinionista-tipo è libertario nelle faccende di sesso e di costume (i rari “bacchettoni” sono funzionali al sistema), ma ci vuol poco a inciampare nei trabocchetti del politicamente corretto. Luciano Passirani, opinionista di calcio a Telelombardia, fu esonerato l’anno scorso per aver detto di Romelu Lukaku (il calciatore belga di origine congolese) che «lo fermi solo se hai dieci banane da buttargli»; e voleva essere un complimento alla sua forza travolgente in attacco. L’opinionista deve saper essere naturale ma controllato, libero ma responsabile.

(Andrea Ciucci / LaPresse)

Tormentoni

Però il pregio più grande del buon opinionista è non arrivare mai a una conclusione. I tormentoni devono trascinarsi da una settimana all’altra, per ovvie ragioni di palinsesto e di share: esiste Marco Caltagirone? Patrizia De Blanck è veramente nobile?

A livello giornalistico basterebbe qualche indagine un minimo seria per risolvere la questione, ma così il virus del dubbio ucciderebbe il gossip che lo ospita. Conviene che ogni documento venga contraddetto, che qualcuno disseppellisca vecchi fatti o proponga spin off; che si divaghi e ci si offenda fino al prossimo tassativo pubblicitario, dopo il quale c’è l’obbligo di passare ad altro argomento.

È in questo lavoro che gli opinionisti risultano preziosi, facendo da complici agli autori e alle loro trame strutturali. Ottime, in questo senso, le sinergie tra programmi diversi: per esempio, far entrare al Grande fratello vip personaggi con storie chiacchierate, poi far emergere tali chiacchiere a Pomeriggio cinque, quindi mostrare quelle immagini ai gieffini nella Casa per vedere le loro reazioni, che verranno discusse a Pomeriggio cinque. Un circolo vizioso a somma zero, ma decine di minuti di trasmissione guadagnati. Le faccende sentimentali, trattate così, sono potenzialmente infinite.

Maria De Filippi, con onestà intellettuale, a Uomini e donne una conclusione non la cerca nemmeno; i confronti sembrano un manuale su come non intendersi, una bibbia dell’attaccare briga. Gli stacchi pubblicitari, o perfino la chiusura della trasmissione, tagliano questo nastro infinito di battibecchi e rinfacci in modo totalmente casuale: un uomo e una ragazza stanno ancora discutendo, ed è subito la soap di turno. Lo share di questi programmi è più alto di quello delle trasmissioni di approfondimento: ciò significa che nella testa di molte persone si incista pian piano il pensiero che le opinioni, e quindi le idee, non risolvono nulla – che alle domande non c’è risposta, che una convinzione vale l’altra finché non si arriva al punto che chi comanda ci toglie il microfono.

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