Martin Scorsese, che tutti conoscono come regista per i suoi molti film di grande successo, è meno noto come divulgatore per i suoi molti raffinati documentari, che spaziano dalla storia del cinema americano e italiano al panorama etnico e culturale newyorchese, come la serie su Fran Lebowitz appena uscita su Netflix. I più variopinti di questi documentari riguardano la musica popolare: dai concerti The Last Waltz (1978) della Band e Shine a Light (2008) dei Rolling Stones, alle biografie No Direction Home (2005) di Bob Dylan e Living in the Material World (2011) di George Harrison.

L’ultimo capitolo di questa singolare storia musicale raccontata da Scorsese è Rolling Thunder Revue (2019), uscito poco più di un anno fa su Netflix, che costituisce un caso a sé per l’interesse e la qualità. A prima vista, infatti, sembra essere soltanto un ottimo documentario sull’omonimo tour intrapreso da Bob Dylan negli anni 1975–76. Lo spettacolo consisteva di una rivista teatrale di canzoni, recite e improvvisazioni di un gruppo di artisti, da Joan Baez a Allen Ginsberg, e veniva portato in scena unicamente in piccole città di provincia, il cui ignaro pubblico era avvisato della serata soltanto un paio di giorni prima, senza alcun cenno alla presenza di Dylan stesso.

A ben guardare, però, si scopre che il film è invece una singolare opera d’arte a vari livelli, costruita a quattro mani dal cantante e dal regista. Lo suggerisce già il titolo completo Conjuring the Rolling Thunder Re-vue: a Bob Dylan Story by Martin Scorsese, che presenta l’opera come una “evocazione” del regista di una “storia” del cantante, basata su una rivisitazione della rivista (una “ri-vista”, col trattino).

Al primo livello sta Robert Zimmerman, cioè l’uomo privato che nella vita pubblica impersona Bob Dylan. Al secondo livello stanno appunto il cantante e il suo spettacolo del 1975–76. Al terzo livello sta il film girato da Dylan stesso durante il tour, e uscito nel 1978 con il titolo di Renaldo e Clara. Al quarto livello sta infine il film messo insieme da Scorsese, mescolando materiale di repertorio e interviste recenti. Molte delle quali, però, sono fittizie, e hanno lo scopo di confondere i fatti con le invenzioni. Ad esempio, un attore rivendica la paternità del film nel film, e il vero regista Bob Dylan conferma falsamente la sua testimonianza. L’attuale amministratore delegato della Paramount, che allora era uno studente, si attribuisce l’organizzazione del tour. E Sharon Stone si inventa un passato da groupie al seguito della banda, confortata da false foto d’epoca col cantante truccate al computer.

Nel film Bob Dylan dichiara, parlando a viso scoperto, che «chi non indossa una maschera difficilmente dice la verità». Forse per questo ha preferito non farsi vedere in pubblico, senza maschere, al momento dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 2016. Un premio che ha sollevato parecchie perplessità tra i letterati professionisti, soprattutto nostrani: un romanziere come Baricco non ha gradito il sorpasso da parte di un poeta, e un poeta come Magrelli non ha sopportato l’invasione di campo da parte di un cantante. Eppure sappiamo tutti che la poesia classica era ritmata e musicata, per motivi estetici e mnemonici, e non a caso le sue composizioni si chiamavano “inni” e “canti”. I primi grandi e popolari cantautori sono stati Vyasa e Omero, ma un analogo del premio Nobel agli autori del Mahabharata o dell’Iliade non avrebbe sollevato le perplessità dei loro contemporanei.

Matematica applicata

Naturalmente il ritmo e la musica, e dunque anche la poesia classica, non sono altro che matematica applicata. Lo sapevano bene gli Indiani, che proprio elaborando le regole della prosodia sanscrita, basata su elaborate combinazioni di sillabe brevi e lunghe, scoprirono la successione ricorsiva di Fibonacci e la rappresentazione binaria di Leibniz, qualche millennio prima di loro. E lo sapevano altrettanto bene i greci, che a partire da Pitagora svilupparono una sofisticata analisi matematica dell’armonia musicale basata sull’assegnazione di rapporti numerici ai rapporti armonici.

Tra poesia, musica e matematica esiste dunque un profondo legame, ignorato dalla maggior parte dei letterati, nostrani e non, ma non da Bob Dylan. Il quale aveva già dimostrato quarant’anni fa che lo spazio delle canzoni gli stava stretto, riunendo nel libro Scritti e disegni (1973) i suoi componimenti poetici di un decennio: dalle parole delle canzoni dei suoi album a vere e proprie raccolte di poesie indipendenti. Una di queste raccolte, chiamata significativamente Altri tipi di canzoni, conteneva molte “canzoni senza musica”, uguali e contrarie alle Canzoni senza parole pubblicate in dodici album da Felix Mendelssohn Bartholdy tra il 1829 e il 1845.

Il libro di Dylan, non a caso citato dall’Accademia svedese, testimonia il suo straordinario talento naturale per la lingua, analogo a quello di Paul McCartney per la melodia o di Woody Allen per la battuta. Un talento che la scena iniziale della seconda parte del citato documentario No direction home di Scorsese permette di osservare in azione, in una fantastica girandola combinatoria improvvisata sulle parole di due cartelli pubblicitari incontrati per strada, che lascia immaginare il flusso della fontana di ispirazione dalla quale sgorgarono in quegli anni le canzoni e le poesie di Dylan.

Nella sua produzione poetica non si trovano però che sporadici riferimenti alla matematica, in generale, e alla scienza, in particolare. I più significativi sono “la geometria della carne innocente sulle ossa” e “il libro di matematica di Galileo” in Tombstone Blues (1965), “Einstein famoso molto tempo fa come suonatore di violino elettrico” in Desolation Row (1965), e “all’interno dei musei l’infinito va sotto processo” in Visions of Johanna (1966). Oltre ad “alcuni matematici” citati come “gente che conoscevo e che ora è un’illusione” in Tangled up in blue (1975).

Ma se poca matematica affiora nel lavoro artistico di Dylan, molta ne emerge invece da alcune sue interviste: sorprendentemente, visto che egli se ne serve per identificare il carattere della sua musica, a fronte di altre definizioni che ha sempre rifiutato. Ad esempio, il 26 novembre 1965 dice a Chicago: «Non saprei come definirla, ma non è folk-rock, è suono matematico». Il 3 dicembre conferma a San Francisco: «È musica matematica, e le parole sono tanto importanti quanto la musica». Il 16 dicembre a Los Angeles specifica: «Io sono un cantante matematico, uso le parole come la maggior parte della gente usa i numeri». Il 28 aprile 1966 a Stoccolma aggiunge: «Io non sono un cantante di protesta, canto ordinarie canzoni matematiche», e alla domanda che cosa questo significhi elabora: «Si tratta di addizionare, sottrarre, dividere e moltiplicare». E il 22 settembre a Austin ripete: «Faccio attenzione alla forma e alla materia, alla matematica».

È interessante che Dylan abbia cantato per un paio d’anni, tra il 1965 e il 1966, il mantra del carattere matematico della propria poetica, e poi l’abbia abbandonato. Era come se avesse appena scoperto qualcosa che agli inizi lo sorprese, perché gli permise di razionalizzare ciò che aveva fino ad allora fatto istintivamente. La conferma è venuta quarant’anni dopo, nel primo (e per ora unico) volume della sua autobiografia Chronicles (2004), anch’essa citata dall’Accademia di Stoccolma.

Nuovo e vecchio mondo

In quel capitolo Dylan racconta che nel 1965 a New York il chitarrista jazz nero Lonnie Johnson gli insegnò una particolare tecnica musicale: «Una sera mi prese da parte e mi mostrò uno stile di esecuzione basato su un sistema di numeri dispari, invece che pari. È un sistema che richiede un intenso controllo ed è collegato alle note di una scala, a come si combinano numericamente, formano melodie ricavate da terzine e sono assiomatiche rispetto al ritmo e ai giri armonici».

Più precisamente, «la musica popolare di solito si basa sul numero 2. Per ottenere l’effetto dovuto viene poi riempita di tessiture, colori, effetti e magie tecniche. Ma l’effetto generale è spesso deprimente e oppressivo, una via senza uscita che tutt’al più può reggersi sulla nostalgia. Se invece si usa un sistema di numeri dispari, le cose che rafforzano un’esecuzione cominciano ad accadere automaticamente e la rendono memorabile nelle epoche a venire. Non c’è niente da pianificare o da pensare».

Johnson parlava della tecnica, comune nel jazz, di scrivere i pezzi in 4/4 ma suonarli in 12/8, inserendo una terzina in ogni quarto. All’epoca Dylan non la capì, ma nel 1987 gli tornò di colpo in mente durante un concerto in Svizzera, e l’effetto fu dirompente: da allora l’ha sistematicamente usata nel suo Never ending tour, che è iniziato il 7 giugno 1988 e ha ormai superato i 3.000 concerti, enumerati nei titoli di coda di Rolling Thunder Revue. E nell’autobiografia confessa: «Non sono un numerologo, e non so perché il numero 3 sia metafisicamente più potente del numero 2, ma è così».

Rimane il fatto che, dall’uscita di Chronicles in avanti, la matematica è tornata ad essere centrale nel modo in cui Dylan parla della sua musica. Addirittura, nel comunicato stampa per la ripresa del Never ending tour nel 2005 si è lanciato a scrivere: «So che ci sono gruppi in testa alle classifiche che vengono esaltati come i salvatori del rock ’n’ roll, ma sono dei dilettanti. Non sanno nemmeno da dove arrivi la musica, e se io nascessi ora non mi sognerei di mettermi a suonare. Probabilmente mi dedicherei alla matematica: quello sì che mi interessa». Naturalmente, è stato meglio per il pubblico che si sia invece dedicato alla poesia musicale e alla musica poetica, riportando la letteratura del Nuovo mondo alle dimenticate origini che aveva avuto nel vecchio. E, soprattutto, che l’abbia fatto e continui a farlo con un impegno e un metodo che lui stesso ha riassunto nei versi finali di A hard rain’s a-gonna fall (1962), una delle sue liriche più potenti, cantata anche in Rolling Thunder Revue: «Fronteggerò l’oceano prima di affogare, imparerò la mia canzone prima di cantare».

© Riproduzione riservata