Un’adolescente trascorre una notte dentro un cimitero della capitale della Groenlandia desiderando di essere già sepolta lì insieme ai morti e temendo più di ogni altra cosa il sole di mezzanotte perché, contrariamente a cosa pensa chi non ha mai desiderato togliersi la vita, non è l’inverno la stagione più pericolosa bensì l’estate, con tutta quella luce da cui non ci si può nascondere e con tutte quelle ore di veglia in cui non si sa cosa fare di sé per smettere di sentirsi inadeguati, sbagliati, non voluti.

Leggendo l’incipit di La valle dei fiori, secondo, premiatissimo romanzo di Niviaq Korneliussen definita dal New Yorker “inaspettata stella letteraria groenlandese” e pubblicato in Italia da Iperborea, il già mi è venuto in mente pensando a un ragazzo che, tanti anni fa, dopo avere implorato una ragazza e averla convinta a scendere dal cornicione del balcone al terzo piano su cui stava piangendo e guardando un po’ troppo spesso di sotto le disse che prima o poi sarebbe successo, che sarebbe morta per davvero e non c’era bisogno che si desse tanto da fare.

Era un pomeriggio assolato di luglio in una città del sud Italia e quel che il ragazzo, per sua fortuna, non capiva avrebbe potuto spiegarglielo Aleksy, adolescente di origine polacca, cresciuto a Londra, protagonista del romanzo della moldava Tatiana Țibuleac L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi che ha ricevuto il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania, tradotto e pubblicato in Italia da Keller editore, e che ho letto subito dopo La valle dei fiori non sospettando che ci avrei trovato un’eco.

Un giorno di giugno - tra i più lunghi dell’anno, perciò - in vacanza nel sud della Francia, Aleksy vorrebbe poter morire, vorrebbe che la morte fosse in suo potere, vorrebbe poterla invocare in qualunque istante senza sforzo e senza spese. E scrive: «L’impossibilità di morire quando ne avevo assolutamente bisogno era la più grande ingiustizia che mi avessero mai fatto, e di ingiustizie me ne avevano fatte tante. A cominciare dal farmi nascere da una donna completamente estranea».

Un giorno in più

Se è difficile per un altro essere umano comprendere il desiderio di quel già, non stupisce che non lo sappia il corvo che nelle prime righe di La valle dei fiori si posa sulla grande croce all’ingresso del camposanto e vola via appena rispunta il sole, «tramontato un quarto d’ora prima», ignorando, come scrive l’io narrante del romanzo, «che non era dall’oscurità che avrebbe dovuto proteggermi, ma dalla luce».

Il lettore non conoscerà mai il nome della protagonista che rimarrà invece un numero nella statistiche del paese con il più alto tasso di suicidi al mondo.

Per questo, Korneliussen dedica il libro «a voi che trovate la forza di vivere un giorno in più, nella speranza che domani andrà meglio, e che forse stavolta ci sarà qualcuno pronto a prendersi cura di voi». Aleksy, pur senza essere groenlandese, si sentirebbe parte di quel “voi”.

Chi ha pensato, progettato e tentato il suicidio sa che è proprio così: trovare la forza di vivere un giorno in più talvolta è inimmaginabile e se succede ci si aspetta in cambio qualcosa di forte che ripaghi dello sforzo e che per questo possa garantire un altro po’ di tempo, un’altra ora, un altro giorno di vita in più «a voi che vi sentite brutti, incapaci, un peso».

Una storia di comunità

Il discorso di Korneliussen pronunciato in occasione del conferimento del prestigioso Premio del Consiglio Nordico - prima volta per un romanzo groenlandese - e pubblicato nelle ultime pagine del libro, c’entra l’obiettivo. L’autrice va dritta al punto e dedica il discorso «a coloro per cui scrivo. Ai bambini e ai giovani che sono a casa, voi siete il motivo per cui ho vinto questo premio».

Il suo primo romanzo era ambientato nella comunità LGBTQ+ della capitale groenlandese, Nuuk, ed esplorava argomenti inediti per la letteratura locale: Korneliussen sa cos’è una comunità e sa che chi pensa, progetta, attua un suicidio si sente solo e credo sia proprio per questo che si riferisce a ciascuno di loro - troppo spesso adolescenti se non bambini - come se fossero parte di una comunità, come dovrebbe essere e come dovrebbero sentire di essere, cosa che forse impedirebbe loro di diventare «persone che avrebbero potuto essere ancora qui».

Che sia un problema di comunità lo si capisce anche solo scorrendo i titoli dell’indice del romanzo: “Loro”, “Tu”, “Io”. Manca un “noi” nella vita della protagonista. Manca sempre, anche a casa con i genitori, alla vigilia della partenza per gli studi in Danimarca - «Non so come ho fatto a vivere qui». Anche in coppia con la sua bellissima ragazza - «La testa mi si riempie di un’accozzaglia di parole come amore e speranza, ma non riesco a pronunciarle, rimangono imprigionate dentro di me».

Anche, e soprattutto, in Danimarca - di cui la Groenlandia è stata una colonia (dal 1721 al 1953) prima di diventare parte del Regno danese, conquistando maggiore autonomia nel 1979 e formalmente autonoma dal 2009 - e dove si annuisce per dire sì, invece di sollevare le sopracciglia, e si scuote la testa per dire no, invece di arricciare il naso, e si dice “non lo so” invece di alzare le spalle, e dove i compagni di corso dell’università per fare conoscenza fanno domande tipo «Come stanno le cose in Groenlandia?» a cui la protagonista, per «sembrare intelligente», risponde «Il buio invernale causa una carenza di vitamina D e molti soffrono di depressione».

Tra “loro”, “tu”, “io” 45 cittadini entrano in scena all’improvviso, ordinati per numeri descrescenti, solo perché si sappia com’è andata a finire: “Donna. 25 anni. Si è impiccata nell’appartamento del fidanzato”; «Uomo. 23 anni. Impiccato»; «Uomo. 56 anni. Si è sparato. Causa della morte: annegamento nelle acque del porto» e poi, seguendo il vortice delle ultime settimane della protagonista, un dolore sempre più acuto e: «Ragazza. 15 anni. Si è impiccata con un cavo elettrico fuori da una falegnameria» fino a «Ragazza. 17 anni. Si è impiccata nel capanno del padre, che l’ha trovata al mattino».

Questa adolescente di 17 anni che si è impiccata nel capanno del padre è la cugina della ragazza della protagonista che da questo momento osserva l’elaborazione del lutto della famiglia coinvolta come se volesse mettere tutti alla prova. Nessuno di “loro”, neanche “tu”, sarà all’altezza delle sue aspettative. E allora, altro che «ti ricorderemo per sempre», come scrivono su Facebook, piuttosto «truth is che solo una minima parte di loro lo farà davvero». «Loro» che, intanto, «continueranno a vivere». Vizio imperdonabile.

Gli occhi verdi

Nell’altro romanzo, Aleksy continuerà a vivere grazie alla madre. Una madre che nell’incipit è odiata più che mai. «Piccola e grassa, stupida e brutta. Era la madre più inutile che fosse mai esistita». Eppure ci sono quegli occhi verdi del titolo.

Dopo aver letto le prime righe, ho pensato a un’amica, una psicoterapeuta, Monica Burato, che durante una conversazione sulla relazione con la madre mi disse che, per riuscire a separarsene, un figlio deve prima perdonarla. Solo così è possibile riprendersi i pezzi buoni. Anche gli occhi che, pur se bellissimi, possono essere stati troppo ingombranti da accogliere e tanto più da amare. La chiave della salvezza di Aleksy sta proprio in quegli occhi della madre che d’improvviso, in un’estate, diventano verdi.

Naturalmente, lo sono sempre stati, ma lui non poteva vederli. Né tantomeno amarli. Prima di quell’estate, la madre di Aleksy «aveva degli occhi verdi talmente belli che sembrava uno sbaglio sprecarli su una faccia lievitata come la sua».

Durante quell’estate, quegli occhi diventano sempre più importanti. Indimenticabili: «Aleksy, tu come mi ricorderai?. Dimmi una cosa che ti mancherà più di ogni altra». E Aleksy risponde: «Gli occhi». Ed è con quegli occhi, dal loro punto di vista, che ora guarda sua madre.

La protagonista di La valle dei fiori scrive: «La mia morte non riguarda me, riguarda tutti quelli intorno a me». Il fatto è che non sempre se lo ricorda. Entrambi questi romanzi ci aiutano a non dimenticarlo.

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