Ho cominciato a scrivere Lo sperpero dei fosfati, il mio primo libro, nel lontanissimo 1992. È stato poi pubblicato da Mondadori nel 2000 col titolo L’Atlante Criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso su mia stessa proposta, perché il titolo originario, tratto da una frase lombrosiana a proposito del triste destino (e declino) psichico di molti uomini di genio, era stato graziosamente definito dai dirigenti della casa editrice, per il resto e bontà loro entusiasti del volume, adatto al massimo a un trattato di chimica.

Nel 1992, dicevo, mi sono imbattuto per puro caso in un mirabolante articolo, pubblicato su una vetusta rivista di medicina, intitolato Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentotte, cammelli e zebù. L’autore di cotanto studio era Cesare Lombroso, il quale dopo averlo comunicato ai committenti si era visto invitare dall’Accademia di Torino e dalla facoltà di Scienze dell’università a non cercare di pubblicare in futuro sulle riviste degli enti in questione altri articoli dello stesso tenore.

Quanto a me, non esiterei a definirlo un incontro epocale. Sono rimasto folgorato da quello scritto in tutto e per tutto fuori dall’ordinario - stupito, esilarato, intrigato, ammaliato: tanto da dedicare alla ricostruzione della vita del suo autore - uomo camaleontico, versatile e proteiforme come pochi altri - ben sette anni della mia esistenza.

Questa l’idea: narrare finalmente la storia tragicomica del vituperato alienista, psichiatra, antropologo nonché enciclopedista del delitto e del crimine: ovvero di uno dei personaggi più screditati e mal chiacchierati delle patrie scienze, una sorta di terrificante spauracchio che ancora oggi viene citato a sproposito in qualsiasi giornale o trasmissione televisiva che si occupi appunto di delitti e di crimini, ma che in realtà viene allegramente bersagliato con enormi sciocchezze condite di frasi fatte e stereotipi anche da parte delle persone colte.

Per molti anni, in realtà, non sono riuscito a capire esattamente quale fosse la motivazione profonda che mi stava spingendo a occuparmi di un personaggio del genere: le passioni intellettuali, come tutte le pulsioni ossessive, finiscono fatalmente per svolgere il ruolo che certi ricordi assumono negli incubi. Col passare del tempo mi sono reso conto che lo stimolo era lo stesso di sempre, quando si scrive: una forma proiettiva di identificazione inconscia.

In effetti, temo che Cesare Lombroso sia stato l’eroe eponimo di una fase molto lunga della mia vita, e che nelle sue confuse imprese donchisciottesche e deliranti io abbia visto un abbagliante riverbero delle mie velleità, delle mie aspirazioni e dei miei sogni.

L’universo lombrosiano

Lavorando al libro, oltre alle tonnellate di suggestivi articoli e fantasmagorici volumi sfornati dallo stesso Cesare Lombroso – che ha creato un gigantesco e labirintico universo cartaceo ed è stato uno dei grafomani più incontinenti di ogni epoca – ho dovuto leggere tutto quello che è stato scritto sul nostro eroe.

Bene, devo dire con tristezza che raramente nei saggi degli studiosi e degli specialisti mi capitava di ritrovare una pur vaga ombra dell’uomo Lombroso, o almeno del personaggio unico e irripetibile che mi sembrava stagliarsi nelle sue opere e nelle numerose testimonianze su di lui, prime fra tutte quelle della devota consorte Nina De Benedetti e delle sue intelligentissime figlie, nonché stimate intellettuali, Paola Marzola e Gina Elena Zefora.

Il controverso, intrepido e a volte pericoloso paladino del positivismo e del progresso veniva costantemente interpretato a senso unico, mummificato e congelato in noiosi e inerti profili accademico/scientifici, a mio modo di vedere senza mai cogliere il prodigioso carattere narrativo della sua avventura intellettuale. Fin dall’inizio, invece, la vita scriteriata di Cesare Lombroso – ebreo veronese trapiantato a Torino per ragioni accademiche - mi è apparsa stupefacente, indimenticabile e monumentale come quella di un grande personaggio romanzesco, provvista per di più di un fascino paradossale, ipnotico e irresistibile.

Con la differenza che solo uno scrittore geniale avrebbe potuto inventare dal nulla Cesare Lombroso, mentre Cesare Lombroso era veramente esistito, dunque era per così dire disponibile e alla portata della penna di qualsiasi narratore, ma forse non aveva ancora trovato un ritrattista che provasse a disegnarlo come se fosse, appunto, il caleidoscopico protagonista di uno sfaccettato racconto biografico e non soltanto il protervo ideatore delle teorie pseudoscientiche più retrive di tutti i tempi.

Francamente, dopo aver letto quasi tutte le opere di Lombroso - migliaia di pagine polverose e dimenticate - con curiosità sempre più divorante, uno sbalordimento crescente e un’esilarata venerazione, alla fine mi sono convinto di aver capito con chi avevamo a che fare.

Ovvero, con un uomo che era stato sempre frainteso, che aveva sempre fallito, anche quando i suoi libri avevano riscosso un successo mondiale, e in sostanza non era stato capito da nessuno, forse nemmeno da se stesso. Un combattente, un visionario, un idealista con una smisurata e ambivalente passione intrisa di pietà per i folli, gli anarchici, i carcerati, i pellagrosi, i criminali in generale e persino per gli spiriti, un apostolo della scienza che si divertiva a fabbricare griglie e a inventare classificazioni ed era fuori da qualsiasi schema, sempre sull’orlo della catastrofe, malinterpretato e incompreso, sempre sbeffeggiato e deriso eppure sempre pronto a dare battaglia, ma destinato a essere ricordato e a passare alla storia solo per le sue idee più rozze e malsane.

Un progressista umanitario, dunque, a volte pernicioso e velleitario, ma ingiustamente eletto a simbolo eterno di oscurantismo, ciarlataneria e idiozia scientifica – lui, il maestro e mentore di Filippo Turati, lui il padre nobile del Socialismo italico, lui lo squisito padrone di casa di un raffinato salotto culturale cosmopolita, lui il primo rivoluzionario terapeuta al mondo a pubblicare gli scritti autografi dei galeotti e degli assassini più efferati, lui l’ormai anziano quanto instancabile organizzatore di memorabili sedute spiritiche – scopo delle quali: pesare i fantasmi con una bilancia di sua invenzione - con la medium idolatrata dai salotti borghesi di mezza Italia, l’ineffabile cucitrice napoletana semianalfabeta Eusapia Paladino…

Riscrivere il personaggio

Così, con un’improntitudine mista a una certa dose di sfrontatezza, ho deciso che avrei provato a essere io l’autore del personaggio Cesare Lombroso, e a riscriverlo così come lo vedevo: un uomo contraddittorio, scandaloso, nobile, eccentrico, inquieto, stravagante, dissennato, pirotecnico, imprevedibile, commovente, autolesionista, generoso e ridicolo.

Dare anima e corpo al personaggio è stata un’impresa lunga e difficile, che mi è costata notti insonni ma anche giorni di grande divertimento, e ancora adesso non so se sono riuscito a restituire come avrei dovuto il ritratto di questo ineffabile individuo, larger than life come nessuno, con tutto l’amore e in qualche modo la devozione e l’affettuoso umorismo che merita. Di certo oggi non sarei comunque in grado di scrivere quel libro meglio di come ho fatto così tanto tempo fa, perché sono convinto che ogni singola opera rappresenti una fase precisa della vita di un autore, e svanito quel momento non c’è più nessuna possibilità di catturarne di nuovo l’atmosfera, le sensazioni, gli stati d’animo, il fluido mentale che lo ha generato.

Ormai ho imparato che, con buona pace di molte teorizzazioni semiotico/letterarie, ogni libro, per quanto lontano dalla vita apparente, in realtà non rappresenta altro che la vera biografia occulta del suo autore - la biografia del suo io nascosto, sepolto, segreto. Proprio per questo, l’Atlante Criminale non era e non si presentava nelle vesti di una monografia scientifica su Cesare Lombroso - come molti, equivocando (sarebbe bastato accorgersi che veniva pubblicato in una collana di narrativa) hanno creduto di capire quando il libro uscì nel gennaio del 2000.

Lo scopo di quel racconto non era quello di rievocare con piatta fedeltà le vicende già di per sé romanzesche del famigerato psichiatra, ripeto, ma di farne un eroe letterario – solo per suggerire un esempio comprensibile a tutti, come Don Chisciotte o come Amleto.

Cesare Lombroso ha avuto uno stranissimo destino. Finchè visse, fu celeberrimo: era sicuramente il più famoso tra gli italiani nel mondo, con le sole eccezioni di D’Annunzio, Caruso e Marconi. Era l’autore nostrano di gran lunga più tradotto all’estero – nel caso del suo discusso capolavoro, L’Uomo Delinquente, stiamo parlando di un centinaio di lingue - e il solo scienziato italico a vantare un seguito affezionato in tutto l’orbe terracqueo e a esercitare l’influenza del suo pensiero su eminenti intellettuali e studiosi di altri paesi.

Ma quando morì, il padre dell’antropologia criminale trascinò con se nella tomba le sue idee, i suoi discepoli e gran parte del colossale ingombro della sua carta stampata – immensi, audaci e frettolosi volumi spesso ricolmi di impagabili sciocchezze e di teorie talmente cervellotiche da apparirci oggi, a volte, addirittura demenziali.

Così, distratti dal rutilante delirio dell’immaginario lombrosiano, non abbiamo reso il giusto omaggio all’uomo che dedicò gran parte della sua esistenza agli enormi e irrisolti problemi delle carceri e dei manicomi; e abbiamo rimosso il nobile cittadino anticonformista e ribelle che combattè con indomabile generosità, quasi sempre con esiti controproducenti e disastrosi, le sue disinteressate battaglie non solo per il progresso della scienza, ma anche e soprattutto per quello della società: una lotta senza esclusione di colpi contro tutto e contro tutti, che alla lunga gli ha fruttato soltanto una fama postuma spaventosa quanto immeritata.

Negli anni giovanili, oltre ad arruolarsi come medico aggiunto del Corpo Sanitario Militare Piemontese nella guerra contro l’Austria, Lombroso si dedica soprattutto a combattere le due piaghe dilaganti nelle campagne del nord Italia: il cretinesimo e soprattutto la pellagra, che si rivelerà la peggiore dannazione della sua già tormentata carriera scientifica.

Nel frattempo perfeziona e quasi inventa l’istituto del manicomio criminale, spedendo così i folli fuori dal carcere, e l’arte ancora in fasce della perizia psichiatrica – forse, questi due, i suoi lasciti più duraturi nel tempo - sfornando monografie futuristiche per l’epoca come quella su Vincenzo Verzeni, il famigerato strangolatore di Bottanuco, e – più avanti – sull’anarchico Giovanni Passanante, l’attentatore di Umberto I, e sul soldato Misdea, autore di una strage in una caserma campana, diventando così a poco a poco uno dei periti psichiatrici più ricercati dai tribunali di tutta Italia.

Dirige per un anno e mezzo il manicomio di Pesaro, poi torna all’amato insegnamento universitario prima di dare alle stampe nel 1876 il suo libro-bomba, destinato a un inatteso e imprevedibile successo mondiale e a fare del suo fino allora oscuro autore una celebrità internazionale: il Trattato antropologico sperimentale dell’Uomo Delinquente.

Un narratore horror

Romanticamente affascinato dall’anomalo, dall’orrido, dall’abnorme, dal patologico, dal lato tenebroso dell’esistenza non meno dei giovani scrittori scapigliati suoi contemporanei, Lombroso si sforza senza successo di razionalizzare l’incubo inquadrandolo in una serie infinita di casi patologici secondo gli schemi in buona parte consunti del positivismo.

In realtà, però, con la sua nuova opera Lombroso sogna innanzitutto di regalare all’Italia il primato nel diritto penale; e, per la prima volta nella sua accidentata esistenza, questo progetto in apparenza chimerico alla lunga si rivela vincente. Nel 1897, anno di uscita della quinta edizione in tre volumi di 650, 576 e 677 pagine, per un totale di 1.903 (la prima edizione contava un solo tomo di 252 pagine), L’uomo Delinquente è stato tradotto con enorme successo in tutto l’universo mondo ed è diventato, al termine di un colossale processo di work in progress, un sesquipedale ammasso di storie criminali che ne hanno fatto il più sorprendente e miracoloso best-seller dell’editoria nostrana.

Libro definitivo, massimalista, incontinente, ingombrante, insormontabile opera terminale che scrive la parola orizzonte nel macrocosmo della cultura che le è propria, che definisce e riassume lo zeitgeist di un’intera società, ne incarna i fallimenti intellettuali e le illusioni ideologiche e nello stesso tempo le sublima e le dissolve, L’Uomo Delinquente – inesauribile e immenso archivio del crimine, viaggio psichedelico nelle tenebre della follia, macchina affabulatoria incandescente e visionaria, summa del positivismo di incomparabile ferocia, demenza e oscenità, smisurata e sulfurea creazione di un oscuro, isolato e maledetto genio borghese - fa di Cesare Lombroso uno dei più agghiaccianti narratori horror di tutti i tempi: un vero e proprio enciclopedista onnicomprensivo della follia e della perversione che mescola con ammirevole disinvoltura suspence, patetico, feuilleton, melodramma e romanzo nero, gotico, naturalista, storico, poliziesco, d’appendice in un solo colossale, ribollente e fumigante calderone.

Cesare Lombroso ha in realtà un solo degno rivale in Richard von Krafft-Ebing, autore della stupefacente Psychopatia Sexualis (1886), campionario estremo di devianze con, del resto, annessa prefazione dello stesso Lombroso a una delle prime edizioni disponibili in italiano. Le due opere più audaci e sconvolgenti del tardo Ottocento non potrebbero comunque essere più diverse: tanto Krafft-Ebing è squadrato, impassibile, asettico, pignolo, impermeabile al pittoresco (in una parola, teutonico), tanto Lombroso è approssimativo, confusionario, aneddotico, colorito, magmatico (in una parola, italiano).

Dopo un simile exploit sarebbe difficile per chiunque ripetersi, e in effetti Lombroso riesce pienamente nell’impresa solo una volta, nel corso futuro della sua carriera, con la terza edizione (1882; ma ne conterà ben sei) dell’altro suo capolavoro assoluto, Genio e Follia. Senza dubbio il testo lombrosiano in maggiore sintonia con la narrativa novecentesca, è un esilarante centone di biografie che potremmo definire immaginarie, di ritratti borgesiani, di aneddoti pittoreschi e romanzati se non addirittura di falsi clamorosi basati su una documentazione quanto mai abborracciata e approssimativa.

Basato sull’idea che “il genio, come il delitto, è una delle forme teratologiche della mente umana, una fra le varietà della pazzia”, e che “i giganti del genio pagano il fio della loro potenza intellettuale colla degenerazione epilettica e colla follia”, il volume lombrosiano demolisce una alla volta, con furore selvaggio, la reputazione postuma di personaggi come Napoleone, Paganini, Pascal, Goethe, Leopardi, Hugo, Hegel, Balzac, Tolstoj, Cesare, Catone, Cristoforo Colombo, Schopenauer e Beethoveen, ma non risparmia stilettate e critiche acerbe nemmeno a figure ultraterrene come Francesco d’Assisi e persino Gesù Cristo (accusato di soffrire di “allucinazioni acustiche”).

L’apice della sua sterminata produzione, in verità, Lombroso lo raggiunge con il coraggioso e ampiamente dimenticato Palinsesti dal carcere (1888), ponderosa raccolta di produzioni grafiche “di due carceri cellulari e un ergastolo femminile”. Il nostro eroe non solo vi studia il gergo della malavita e il codice dei tatuaggi ma, soprattutto, raccoglie con poche intermediazioni d’autore dettagliati resoconti – quasi minuto per minuto – delle ultime ore di sovversivi condannati a morte, nonché commoventi autobiografie redatte da svariati criminali e sbalorditive prove di scrittura di numerosi galeotti – graffiti, poesie, lettere, invettive e memoriali.

Anni dissennati

Dopodiché, stimolato dalle adorate figlie, Lombroso si schiera sotto la bandiera fiammeggiante del partito socialista e sposa la nobile causa del proletariato rivoluzionario, per poi – subito dopo – pubblicare l’enorme zibaldone divulgativo intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, ultimo esempio di una lunga serie di clamorosi infortuni a stampa nel quale un Lombroso più dissennato che mai inanella una serie a suo modo stupefacente di luoghi comuni a sfondo sessista, finendo per concludere che il culmine della degenerazione della donna è rappresentato dalla “tribade, ovvero dall’urningo femmina”.

Il lesbismo viene descritto con toni inorriditi, le anomalie anatomiche femminili, gli amori saffici, l’androginia e l’ermafroditismo sono analizzati con morbosa dovizia di particolari scabrosi e con sgomento quasi metafisico, in sintonia con l’antifemminismo ben poco strisciante che caratterizza in negativo la borghesia progressista benpensante nonché la mentalità reazionaria e retriva dell’intero corpo sociale tardoottocentesco.

Quasi per lasciarsi alle spalle, una volta per tutte, queste proditorie nefandezze, un Lombroso ormai settantenne volta completamente pagina e si lancia impavido nell’ennesima sfida impossibile della sua lunga e faticosa carriera, condensata nel volume Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, l’opera destinata a vedere la luce proprio nell’ultimo giorno dell’esistenza terrena del nostro eroe e che è stata scritta, in seguito a una spettrale apparizione della defunta madre dello stesso Lombroso nel corso di una seduta spiritica con Eusapia Paladino, con la lucida consapevolezza che avrebbe attirato nei suoi confronti, ancora una volta e in dosi ancora maggiori, la pubblica esecrazione e il ludibrio universale della comunità scientifica.

Dopo la morte, avvenuta il 19 ottobre 1909, Lombroso si riscatterà in via definitiva donando il suo corpo alla scienza, e il suo scheletro per anni accoglierà i visitatori del Museo di Antropologia Criminale di Torino sorridendo dietro le vetrate trasparenti di un’apposita teca. Ai piedi della quale, in nudi recipienti di vetro, si potranno ammirare i visceri, il cervello, persino le fattezze del volto del mitologico e inconsapevole autore, in oltre cinquant’anni di produzione incessante, di vere e proprie gemme letterarie proto-dadaiste come Studi sulla distribuzione della tigna in Italia, La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto, Sulla cortezza dell’alluce negli epilettici e negli idioti, Sul vermis ipertrofico, Rapina di un tenente dipsomane, Il vestito dell’uomo preistorico, Il delitto col biciclo, Perché i preti si vestono da donna, Cosa possiamo imparare dalle bestie – il volto di un uomo, dicevamo, a sommesso parere di chi scrive destinato senza dubbio alcuno – nel bene e nel male – all’immortalità.

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