Come ogni fenomeno umano anche il mondo letterario conosce delle mode, abitudini collettive rivelatrici e in genere condensabili in poche parole, talvolta in una soltanto, come è il caso oggi di “corpi”, parola onnipresente nelle quarte di copertina, nelle interviste, negli articoli.

Va premesso che non è solo sciatteria o conformismo di gruppo, lo scrittore con qualche ambizione di successo oggi è inserito in un meccanismo mediatico che richiede quelle che un pubblicitario chiamerebbe keywords e un giornalista – con uno spostamento di significato solo parziale – “ganci con l’attualità”. Di norma infatti quasi nessuno, fra chi gli porgerà il microfono o parlerà del suo libro, si sarà anche preso la briga di leggerlo, quelle son cose da lettori – specie in estinzione, almeno per quanto riguarda la letteratura. Gli addetti ai lavori il più delle volte non si abbassano a certi usi primitivi dell’oggetto libro: loro spingono, vendono, s’impegnano, stroncano, commentano, ironizzano, salgono sul carro, si consumano in invidie avendo in mente il loro romanzo nel cassetto o quello che non scriveranno mai, più spesso colgono la corrispondenza fra la scheda stampa e lo Zeitgeist, molto di rado, comunque, leggono. Anche i più volenterosi, va detto, non ne avrebbero il tempo con tutti i libri che vengono pubblicati, e poi a leggere tutto quello che arriva il rischio concreto sarebbe quello della fine di ogni entusiasmo e il rinfocolarsi di quel vecchio desiderio, un po’ stereotipato ma non privo di fondamento nel reale, di fuggire in campagna, in cima a una montagna o comunque in luoghi in genere privi di velleità artistiche che non siano quelle di abbozzare ritratti della fauna locale.

Insomma il più delle volte il libro rimane un oggetto sullo sfondo, interpretato dalla distanza attraverso un algoritmo estemporaneo fatto di simpatie e antipatie, budget pubblicitari ormai già spesi con conseguente nervosismo di molti, copertine riuscite o sbagliate, e, soprattutto, aderenza ai temi caldi del momento.

Al teatro delle maschere

Tutto insomma si piega a quei meccanismi della comunicazione che ogni cosa assorbono nella nostra epoca e che Vitaliano Trevisan descrive bene in Works, come il contrario, cioè, del dialogo e della ricerca spassionata della verità. La comunicazione è un atto di forza linguistico organizzato per fini prima di tutto commerciali, l’imporre un significato all’interlocutore, senza curarsi della sua effettiva corrispondenza con la parte di mondo che vuole descrivere. A ben guardare una delle cose più antitetiche in assoluto rispetto alla letteratura, che è invece il luogo del dubbio, del particolare, dell’incontro, dello scontro e soprattutto della ricerca.

Nell’epoca della lotta per l’attenzione il posizionamento dentro le quarte di copertina di parole pensate con la logica della comunicazione diventa però prioritario da un punto di vista industriale. Una prospettiva aziendalista che va comunque ricoperta da un sottile strato di glassa ideologica perché gli scrittori italiani, creature eteree che vivono di introiti misteriosi, ufficialmente non si interessano al vile denaro, né ai modi per farlo (se non per deprecare quello degli altri) e perché in fondo il pubblico, leggi il mercato, questo vuole: un mondo parallelo di buone intenzioni ed escapismo, ché la borghesia riflessiva italiana non ha mai amato particolarmente guardarsi dentro specchi che non fossero deformanti alla maniera del teatro delle maschere.

Vittimismo

Nel nostro specifico momento storico la parola preferita da questo genere di comunicazione è per l’appunto il sostantivo “corpo”, spesso anche nella sua forma plurale “corpi”, alludendo così a fenomeni di portata collettiva.

Un tempo confinati soprattutto al genere – “il corpo morto”, altro nome del cadavere – i corpi invadono oggi i romanzi e le quarte di copertina non tanto come presenze – difficile un romanzo senza qualche corpo – ma come teorizzazioni, come concetti chiave ai quali ancorare strutture che per il resto appaiono spesso deboli, talvolta debolissime.

Dalla condizione fredda del corpo morto nel giallo, il corpo del romanzo italiano contemporaneo eredita la natura passiva, il farsi cioè oggetto d’elezione delle violenze altrui, siano i carnefici dei maschi (quindi colpevoli per destino), delle malattie o degli impersonali meccanismi di selezione sociale: di solito razzisti o sessisti, molto meno spesso classisti, familisti o semplicemente mafiosi, tre fenomeni, questi ultimi, relegati ai margini dalla moda narrativa. Molto lontani sono anche i corpi consciamente in vendita dei Troppi paradisi di Walter Siti, raccontati in un’epoca di abbondanza che oggi, per via dell’impatto della Silicon Valley sul mondo, sembra a tanta parte dell’industria culturale lontanissima e non più replicabile.

Forse anche per questo il problema passa da come godersi la vita – e i corpi – a una retorica del corpo che nonostante sia ormai privo di qualsivoglia restrizione sociale si consuma in un risentimento radicale. Se il corpo del romanzo italiano contemporaneo non è ancora cadavere – lo è talvolta in fieri ma per il momento si agita e si lamenta – colpisce la scissione programmatica con la mente, luogo dove tanta parte del romanzo storicamente si è svolta.

Una novità che sarebbe potenzialmente molto interessante se solo questo accento sulla componente corporale si legasse alle teorie scientifiche che guardano al pensiero come il frutto di un processo organico corpo-mente-esperienza e non più come al risultato di una mente monade astratta dalla realtà. Insomma andiamo scoprendo che non siamo proprio dei polpi, con la loro intelligenza diffusa sui tentacoli, ma nemmeno puro pensiero cartesiano. Si può però dire con una certa tranquillità che non sono questi gli intenti dell’attuale “letteratura dei corpi”, molto più orientata a quella specifica tonalità di vittimismo che da giusta reazione a gravi torti degenera nel narcisismo compiaciuto, un narcisismo in virtù del quale, ad esempio, un’osservazione sul peso corporeo ricevuta da adolescenti può assurgere al ruolo di torto fondativo di un’intera esistenza, una banalizzazione del trauma oggettivamente grottesca.

Lasciapassare morali

In queste sue manie persecutorie la moda letteraria si dimostra anche un caso specifico del più ampio distacco delle élite dal resto della popolazione, perché, come è ovvio che sia, invocare lasciapassare morali lunghi una vita in virtù di un mezzo commento alla fermata dell’autobus ricevuto da ragazzi è un’affermazione che fuori dall’incantesimo dei circoletti può essere accolta soltanto da una sonora risata. Come ha giustamente notato Luca Ricolfi il popolo non difetta di senso del ridicolo, forse anche per questo l’élite culturale contemporanea ci si rapporta con tanto, malcelato, fastidio.

Non manca, nella retorica dei corpi, anche quella vena di cattolicesimo che sempre attraversa, nascosta ma costante come si confà alle forze dell’inconscio, il fronte progressista culturale italiano, un substrato in virtù del quale il corpo vittima assume una funzione quasi cristologica, seppur con la differenza, sostanziale, che il suo sacrificio non riporta la pace fra gli uomini in terra, ma invoca regolamenti più severi, iper-normazioni della realtà e soprattutto della lingua, atti amministrativi preferiti a quella responsabilità personale figlia dell’introspezione e dell’empatia nei confronti dell’altro che ci ha regalato la letteratura, oggettivamente più profonda, di altre epoche. La differenza può essere posta anche in termini di letteratura dei bambini contrapposta a letteratura degli adulti, perché l’insistenza monotona sui “corpi desideranti” ricorda per molti versi l’indugiare masturbatorio dell’infante sul suo corpo, il bambino che assume sé stesso a misura di tutte le cose trovandosi in una fase della vita in cui è protetto dall’affetto dei genitori e non conosce ostacoli alla soddisfazione dei suoi desideri primari. Ancora ignora, cioè, quanto sarà duro il successivo confronto con il mondo.

L’egoismo dei privilegiati

C’è precisamente molto di questa rinuncia all’altro, all’autenticamente diverso, nell’ansia di cancellare, vietare e proibire che attraversa lo spirito del tempo, l’egoismo cioè dei privilegiati che non si accontentano del loro privilegio materiale ed economico, ma richiedono con forza anche un’attestazione sociale di superiorità morale. Non basta la casa nel quartiere centrale, il cibo naturale, la vacanza ecosostenibile, il vestito del marchio di lusso ma riconoscibile solo agli iniziati. Vogliono tutto questo e la sensazione di essere migliori. Insomma vogliono tutto. Riuscirci non è semplice, data la natura contro-intuiva di questa condizione, ed è solo l’attuale affermazione della vittima come figura di potere definitiva – perché socialmente inattaccabile e perché in genere è una condizione che si acquisisce per nascita, quindi inalienabile – a permettere alla borghesia culturale la piena e totale soddisfazione di tutti i desideri, materiali e immateriali, a discapito del mondo. Alla maniera, insomma, dell’infante.

Anche per questo dalla categoria dei corpi delle vittime sono pressoché scomparse le vittime economiche, gli uomini (che, ad esempio, continuano a morire sul lavoro infinitamente di più delle donne, senza che questo generi alcun tipo di mobilitazione), e più in generale i lavoratori.

Se il declino della posa, un tempo molto diffusa, secondo la quale la borghesia culturale ufficialmente s’interessava come prima cosa al destino dell’operaio può anche essere vista come una positiva diminuzione del tasso d’ipocrisia, dall’altro lato è anche il sottoprodotto di questo inedito livello di narcisismo. Allargando il punto vista manca totalmente un ethos trasversale alle classi sociali, la sensazione, cioè, di condividere se non la stessa cultura di riferimento quantomeno il medesimo destino.

Persecuzione collettiva

Anche il romanzo di genere che ambisce a superare sé stesso muta il suo concetto operativo di corpo, di solito non lo fa per destrutturare la coerenza dell’impianto complessivo, alla Dürrenmat per capirci, ma cristallizzandolo dentro la denuncia sociale. Così facendo il corpo diventa anche in questo caso esemplificazione di una persecuzione su scala collettiva, un fatto sociale che però assume i caratteri ineluttabili del destino.

Questa inevitabilità introduce a quello che è forse il punto più delicato dell’intero meccanismo: la torsione cerebrale che sola permette la definitiva ascesa della vittima alla santità e le dischiude un potere persecutorio privo di ogni limitazione.

Sto parlando del fatto che l’occhio non debitamente condizionato coglie immediatamente la contraddizione fra la natura radicale della denuncia – il male è sistemico, è ovunque, è imbattibile – e il coro unisono dei denuncianti diffuso a canali unificati, senza più alcun contraddittorio. Ad esempio se il dominio del patriarcato è così ineluttabile e totale in ogni anfratto della società, tanto da spogliare della soggettività le persone che lo mettono in atto così come quelle che lo subiscono, come è possibile che non esistano libri, film, serie tv, articoli di giornale che sostengano le ragioni di questa entità iperpotente? Come è possibile che ogni giorno si cancellino opere, prodotti e persone al primo blando sospetto di mancata ortodossia, senza altro processo che non sia quello dei social network? Un potere abbastanza anomalo per delle vittime sistemiche assolute.

Universalismo illuminista

Partita da ragioni condivisibili questa lotta è ormai diventata da diversi anni, soprattutto nell’ambito della borghesia culturale, una lotta contro i mulini a vento, uno spettacolo su cui è fin troppo facile ironizzare ma che giustifica crescenti ingiustizie e abusi di segno opposto, oltre che uno spoils system sempre più implacabile. Sono i cicli della storia, si dirà con fare beffardo e un po’ vigliacco, credo invece che dovremmo tendere a regole che siano condivisibili ed eque per tutti, una prevaricazione di segno opposto non diventa per questo giustizia, rimane una prevaricazione. Niente oggi appare più urgente del recuperare l’universalismo illuminista per opporlo al dominio retorico delle vittime autoproclamante, lo si deve, per altro, anche alle vittime autentiche.

Da un punto di vista politico questo difficilmente potrà accadere senza la ribellione di tutte quelle donne e di quegli esponenti delle minoranze che sono stanchi di essere rappresentati come figli di un Dio minore e non come persone perfettamente in grado di meritarsi i loro posti senza l’utilizzo di corsie preferenziali. Persone che richiedano cioè l’equità delle condizioni di accesso e non l’uguaglianza imposta dei risultati.

Forse chiedere un simile atto collettivo di eroismo civile e disinteressato a degli esseri umani è un po’ troppo, si vedrà, di certo c’è che, se mai dovesse succedere, la letteratura dei corpi scomparirebbe in fretta nel dimenticatoio della storia, segno in fondo che un’intelligenza, in quei corpi, c’era ancora, seppur principalmente strategica.

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