E se avessimo tutti torto? Mentre l’intelligenza artificiale continua a sconvolgere le nostre vite a velocità esponenziale, ci rassicura immaginare che esista una soluzione che ci proteggerà dalle principali derive: la regolamentazione. Ecco un dato evidente che non viene mai messo in discussione. Si tratta in realtà di un favola, dal momento che, per come s’intende questa nozione, le misure adottate in questi ambiti non sono affatto all’altezza delle sfide, o non si occupano dell’essenziale.

Di cosa ci occupiamo, infatti, da una quindicina d’anni? Di un cambiamento di status delle tecnologie digitali, che non sono più impiegate soltanto nella raccolta, archiviazione, indicizzazione e manipolazione – sempre più semplice e per scopi diversi – delle informazioni.

D’ora in avanti avranno un’altra missione: farci fare esperienza di parti sempre più estese di realtà. E poi consigliarci, di caso in caso, una certa azione invece di un’altra. Si parla di dimensione cognitiva e organizzativa dell’intelligenza artificiale.

A questo aspetto si è recentemente aggiunta una novità: i sistemi arrivano a generare testi, immagini e suoni. È quella che viene definita “la svolta intellettuale e creativa dell’Ia”. Un esempio tra tutti è la moltitudine di “libri” scritti dall’intelligenza artificiale e venduti su Amazon. Questo salto tecnologico ha principalmente tre conseguenze. In primo luogo, sono le nostre capacità più fondamentali, quelle di produrre simboli, e soprattutto il linguaggio – vale a dire, la facoltà di affermarci come individui sociali che parlano in prima persona – a essere sostituite da robot che utilizzano procedure matematizzate, standardizzate e industrializzate. In secondo luogo, in un momento in cui la maggior parte delle professioni si basa sui servizi e mobilita principalmente le nostre facoltà intellettuali e creative, come non vedere l’uragano che sta arrivando? A questo proposito, è fuorviante parlare di “complementarità uomo-macchina” o di “incremento delle competenze”, il peggiore neolinguaggio manageriale che cerca solo di far passare lucciole per lanterne.

La verità è che ovunque – se non stiamo attenti – i sistemi, con costi inferiori, saranno in grado di svolgere, più rapidamente e presumibilmente in modo più efficace, compiti che fino a ora venivano assegnati a persone. Si tratta di quel genere di compiti che spesso richiedono studi lunghi e costosi, che danno piacere, offrono momenti di socialità, oltre che riconoscimenti. Stiamo assistendo alla fine del principio teorizzato dall’economista Joseph Schumpeter della “distruzione creativa”, ovvero il passaggio da professioni divenute obsolete, a causa di innovazioni cosiddette “dirompenti”, a impieghi di nuova creazione.

Un terzo aspetto è che oggi tutti hanno a disposizione tecnologie che grazie a una semplice istruzione (prompt) generano immagini o video corrispondenti ai desideri, o capricci, di persone a volte inclini a giocare con gli altri. È il caso dei deepfake, di cui recentemente si è parlato sui giornali, di Joe Biden che invita i suoi elettori a non votare alle primarie del New Hampshire, o gli pseudo contenuti pornografici con protagonista la cantante Taylor Swift.

Riferimenti comuni

Stiamo entrando in un’era in cui non sapremo più l’origine e la conformità di un’immagine. Oppure in un regime dell’indistinzione ben presto generalizzato e portatore di numerosi pericoli. Perché la democrazia non è solo una questione di principi comuni, ma anche di riferimenti comuni, senza i quali non saremmo più in grado di comprenderci l’un l’altro. Di fronte a questioni così ampie e complesse, tendiamo a immaginare che il legislatore, per un potere magico concessogli, sappia inquadrare le cose al meglio. È il caso dell’Ai Act dell’Unione europea, presentato come il documento più “restrittivo al mondo”, ma che ignora completamente la sostanza del tema. Questo perché il testo si basa su una scala di presunti rischi (furto di dati personali, pregiudizi discriminatori, rating sociale, ecc.). Ci sono tanti altri punti, certamente importanti, ma tutti nascondono le tre rotture di civiltà che si stanno attualmente preparando, quale la crescente automazione degli affari umani, il deterioramento delle nostre facoltà fondamentali e una sordità sempre crescente tra le persone. Allo stesso tempo, invece, la volontà dichiarata consiste nel «non limitare l’innovazione digitale», proprio quella che supporta questi processi in corso. Questa distinzione, che divide le minacce e i presunti vantaggi dell’industria digitale, è in vigore da circa quindici anni ed è errata. Infatti, si fonda su giudizi soggettivi, spesso prudenti, orientati soprattutto al primato economico, essendo oggetto di incessanti pratiche di lobbying. È per questo motivo che va privilegiata un’equazione completamente diversa e duplice. Da un lato, occorre distinguere tra i casi in cui abbiamo il controllo e quelli in cui non lo abbiamo. Tra i tanti esempi, si pensi agli indegni metodi manageriali nel mondo della logistica, che vedono i sistemi di intelligenza artificiale dettare ai manovali le giuste azioni da svolgere a una certa velocità, riducendoli a robot in carne e ossa. Dall’altro, occorre preservare i nostri principi cardine intangibili: libertà umana, integrità, dignità, creatività. L’alternativa è il rifiuto categorico. Occorre arrivare a criteri che hanno valore universale, che permettono la nostra personale autodeterminazione al di là dei tropismi particolari e degli interessi privati.

Rifiuto

Per come stanno andando le cose, presto ci renderemo conto che abbiamo bisogno molto più di mobilitazione che di regolamentazione. È stato il caso degli sceneggiatori di Hollywood, che si sono resi conto che il loro lavoro era in pericolo e così nel maggio 2023 si sono opposti in gran numero, con coraggio e determinazione, per vincere la loro causa. Non si sono semplicemente affidati alla regolamentazione, che per salvare capra e cavolo li avrebbe mandati al patibolo.

Sarebbe bene che tutte le professioni messe a rischio dall’Ia generativa (potremmo stilare un lungo elenco di pagine includendo, tra gli altri, giornalisti, grafici, traduttori, avvocati, medici, professori, ecc.) si mobilitassero a livello nazionale, ma anche internazionale, per gruppi e dicessero in nome delle loro rivendicazioni cosa sono pronti ad accettare e cosa rifiutano categoricamente. Sarebbe bene che lo facessero senza attendersi qualcosa, anticipando il legislatore, che spesso è cieco di fronte a tante realtà della nostra vita quotidiana.

È come se ripetessimo gli stessi errori da decenni. Non sappiamo forse che ciò che ha portato al disastro ambientale, a folle di esseri distrutti da implacabili logiche gestionali, al declino dei servizi pubblici, è spesso dipeso da leggi presentate come benefiche di cui ci siamo accorti troppo tardi che perpetravano dinamiche deleterie?

È inutile gridare il nostro risentimento contro chi detiene il potere e le istituzioni se non impariamo dalla storia. Non dobbiamo più unicamente fare affidamento sui rappresentanti, per dimostrare che agiamo in modo diverso. Altrimenti ci sveglieremo un bel mattino in un mondo nel quale ci sentiremo estranei.

La questione filosofica che ci preoccupa è quella di sapere – in un’epoca in cui i sistemi onniscienti continuano ad amministrare il corso delle cose, cominciano a parlare in nostro nome e a produrre simboli – qual è esattamente il nostro ruolo sulla Terra. Consisterà nell’essere solo spettatori passivi di fenomeni guidati da logiche che ci risulteranno impenetrabili, pur avendo rinunciato all’espressione delle nostre facoltà? O, al contrario, intendiamo celebrare il nostro slancio vitale e la genialità che risiede in ognuno di noi?

Viviamo in un tempo cruciale, sconvolto da incessanti sconvolgimenti – di portata antropologica – in cui, ancora per qualche anno, ci sarà spazio per decidere quali modalità di esistenza e di organizzazione comune vogliamo. Una società pienamente democratica che, sulla base dei suoi precetti più essenziali, intenda finalmente farli rispettare, contro venti e maree molto potenti.

Traduzione di Monica Fava

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