La ramanzina delle macchine che ci vogliono più umani

Mi ricordo dov’ero l’11 settembre 2001, il 24 febbraio 2022, il 7 ottobre 2023. E mi ricordo quando ho subìto gli attentati e le invasioni della tecnologia: la prima volta che mi sono connesso alla rete; la prima volta che ho visto uno smartphone fare cose che nemmeno un agente del Kgb; e, pochi giorni fa, la prima volta che mi sono unito al coro catastrofista sull’intelligenza artificiale: «Siamo fottuti». PASOLINI A SPINEA Mi hanno invitato alla biblioteca di Spinea, in provincia di Venezia, dove il responsabile del servizio cultura del comune, Eugenio Parziale, ha organizzato un ciclo di incontri e spettacoli per il cinquantenario della morte di Pier Paolo Pasolini. Dall’anno scorso, Parziale ha avviato anche un originale gruppo di lettura: non commentano romanzi ma testi teatrali, scelti fra quelli attualmente in scena in Italia. E così, incrociando il gruppo di lettura con le iniziative pasoliniane, mi ha chiamato a coordinare un paio di incontri sul Manifesto per un nuovo teatro, che Pasolini scrisse nel 1968. Ho ripreso in mano i testi teatrali di Pasolini. Non li avevo ancora letti tutti. Una vita fa vidi in scena Affabulazione con Vittorio e Alessandro Gassman, Orgia con la regia di Walter Malosti. La convinzione con cui Pasolini si dedicò per qualche anno al teatro gli lasciò solo delusione e risentimento: nell’introduzione a Bestia da stile paragona la critica e il sistema teatrale italiano a «una Gerusalemme di cui mi auguro che non rimanga presto pietra su pietra». Attraversare sulla pagina tutti i suoi testi è come bere da una tazza che ti versa in gola a volte cioccolata, a volte malta. Su tutti svetta il magnifico Pilade; ma anche il dialogo fra Uomo e Donna all’inizio di Orgia è stupendo, descrive perfettamente il carattere italiano. Pasolini lo ritrova nelle cittadine di provincia, dove si ciarla tutto il tempo, ma nessuno parla delle cose che contano: «La sera la piazzetta davanti al palazzo del comune, dove Venezia o Torino o Bologna furono capitali imitate in piccolo e in sublime, le voci venivano dai caffè aperti fin tardi, s’era estate, o tra gli stridii desolati, s’era inverno, degli ultimi tram (e non dimentico le voci tuonanti dei piccoli cinema rionali): MA NESSUNO PARLAVA». Ci sono annotazioni teoriche e metateatrali illuminanti, come in Affabulazione: «Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata. È scritta, come la parola di Omero, ma insieme è pronunciata come le parole che si scambiano tra loro due uomini al lavoro, o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio, o le donne al mercato – come le povere parole insomma che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita: le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello». Di riflessioni e ragionamenti, nelle sue pièce ce ne sono fin troppi. Ci si chiede come fosse possibile che una persona di genio come lui li considerasse proponibili e recitabili, e sognasse di infliggerli, attraverso la mediazione di un’élite culturale di «intellettuali avanzati», all’incolpevole «classe operaia (…), nelle fabbriche e nei circoli culturali comunisti, magari in stanzoni con le bandiere rosse del ’45». La società in cui gli scrittori pensano come ChatGpt LA CHIACCHIERA E L’URLO Nel Manifesto per un nuovo teatro, Pasolini distingue due tipi di spettacoli egemoni sulle scene di quegli anni. Uno, il «teatro della Chiacchiera»: accademico, fatuo, ipocrita, borghese; l’altro, il «teatro del Gesto e dell’Urlo»: avanguardistico, provocatorio, sacrale, borghesemente antiborghese. Entrambi hanno in comune «l’odio per la Parola». È proprio il teatro di Parola che Pasolini vuole opporre a essi: «senza scene, costumi, musichette, magnetofoni e mimica». Un teatro puritano nella forma e scandaloso nei contenuti; frontale, discorsivo. E cerebrale: lo spazio teatrale dev’essere «non nell’ambiente, ma nella testa» dello spettatore. Viviamo nel paese che Pasolini temeva: alla sinistra servono gli eretici I COMPITI A CASA «Bene, per la prossima volta scrivete un manifesto anche voi, il Manifesto del teatro che vorrei», ho proposto alla fine del primo incontro. Ci siamo ritrovati la settimana dopo. Qualcuno i compiti a casa li ha fatti. Un regista ha detto che ci sarebbe bisogno di teatri di zona, locali, condominiali, sui problemi concreti delle piccole comunità. Poi si è chiesto: cosa siamo noi, oggi? Prima di tutto, consumatori. Il teatro dovrebbe mettere in scena gli acquisti, i prodotti, la socialità dei supermercati. Una poetessa ha detto che mancano le occasioni di discussione: vorrebbe un teatro che le desse spunti sul presente, per parlarne insieme dopo gli spettacoli. Un’attrice ha detto che le cose più interessanti a teatro succedono durante le prove. Bisognerebbe farne di più, magari aprendole al pubblico. Poi ha preso la parola Luigino. Ha messo lealmente le mani avanti: «Questo testo l’ho chiesto alla mia segretaria. L’intelligenza artificiale. L’ha scritto in forma di monologo teatrale», e si è messo a leggere. L’intelligenza artificiale non potrà mai lasciarci uguali a noi stessi IL MONOLOGO DELL’IA «Il primo tipo è il teatro della riproduzione. Il teatro che imita le serie tv, i film, i dialoghi che già conoscete. È un teatro che vi tiene la mano e vi dice: “Non preoccupatevi. Tutto andrà come deve andare.” È un teatro che intrattiene. E non serve a niente. Il secondo è il teatro del gesto vuoto. Quello che vi stupisce, che vi ipnotizza, che vi fa dire “che bello”, “che strano”, “che forte”… E poi vi lascia esattamente come vi ha trovati. E poi c’è il terzo. Quello che rivendico. Il teatro della parola radicale. La parola che non consola, non addolcisce, non spiega: ferisce. Perché il teatro – quello vero – non è uno spettacolo. È un conflitto. È un luogo dove qualcosa accade tra me e voi, qui, adesso, senza rete, senza replay, senza pausa. È un luogo dove la lingua non è un decoro, ma un’arma. Un bisturi. Una crepa nel muro. Là fuori c’è una macchina che trasforma tutto in intrattenimento. La politica, il dolore, l’arte, la vita. Tutto deve essere semplice, vendibile, digeribile. Ecco: io voglio un teatro indigeribile. Voglio un teatro che si rifiuta di diventare “contenuto”. Un teatro che non chiede like. Che non chiede approvazione. Che non chiede niente. Il nuovo teatro vive in piccoli spazi. In ghetti volontari. Luoghi dove ci si raduna non per fuggire dal mondo, ma per guardarlo più da vicino. Per smontarlo. Per sentirne l’odore. Qui dentro nessun algoritmo vi protegge. Nessuna timeline vi distrae. Per un’ora siete costretti – sì, costretti – a stare presenti. A pensare. A rischiare. La responsabilità di chi sta sulla scena non è intrattenere… ma dire. Dire ciò che altrove viene censurato dal rumore. Dire ciò che non ha posto nelle vetrine digitali. Dire ciò che fa male, ciò che divide, ciò che inquieta. Perché il teatro è un luogo sacro: non di pace, ma di verità. Il nuovo teatro non deve rassicurare. Non deve rendervi felici. Non deve darvi risposte. Il nuovo teatro deve aprire ferite. Deve accendere dubbi. Deve svelare ciò che la società tenta di nascondere sotto la tappezzeria lucida del consumo. Il nuovo teatro è resistenza. Non resistenza eroica, no: resistenza quotidiana. Ostinatissima. Minoritaria. Viva». Un limite per l’intelligenza artificiale: non può dare giudizi LA MACCHINA: «SII PIÙ UMANO!» Alla fine della lettura tutti hanno applaudito. Tranne me. Un po’ perché ho sentito odore di plagio dallo scrittore francese Édouard Louis, che nel suo imperdibile libro-intervista Que faire de la littérature? propone un «teatro di conflitto». Forse l’intelligenza artificiale ha raccattato in rete qualche dichiarazione di Louis e l’ha impastata nel suo proclama. Un dispositivo posticcio ci ha fatto la lezione: proprio sul teatro, che è l’ultimo baluardo dell’umano, ha bisogno dei corpi viventi, non può essere ricreato dall’intelligenza artificiale, come i filmatini falsi o i meme nello stile dello studio Ghibli che erano di moda la primavera scorsa. Da fradicio umanista, non ce l’ho fatta a battere le mani a un discorso generato da un programma informatico che ci fa la ramanzina sull’alienazione in cui viviamo. Una macchina che ci sprona a essere più umani. Rileggo la frase precedente e mi rendo conto del suo fascino: per essere più intensamente sé stessa, come un’industria delocalizzata l’umanità si esternalizza in discorsi meccanici che le puntano il dito addosso e, di rimbalzo, le servono a definirsi per opposizione; così da poter fare ritorno a sé stessa, rassodata, corroborata. Ad ogni modo, siamo fottuti. Neocoloniale e poco tutelato, il duro lavoro dell’uomo dietro l’intelligenza artificiale