Telmo Pievani insegna presso il dipartimento di Biologia dell’università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle scienze biologiche. Filosofo della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione, Pievani è autore di molti libri, tradotti anche all’estero, tra questi: Homo sapiens e altre catastrofi; La teoria dell’evoluzione; Creazione senza Dio, Imperfezione – una storia naturale; Viaggio nell’Italia dell’Antropocene; Serendipità – l’inatteso nella scienza.

Perché è cosi difficile accettare la teoria darwiniana dell’evoluzione?

La nostra mente predilige le spiegazioni finalistiche, quelle cioè in cui c’è un fine ultimo, cerchiamo sempre storie con una direzione, uno scopo, e ci sono ragioni, evoluzionistiche anch’esse, per questo genere di predisposizione. Spiegazioni finalistiche, ad esempio, sono quelle animistiche: cade un fulmine e invece che pensare a una differenza di potenziale elettrico, la reazione più ovvia per l’essere umano è quella di trovarsi di fronte a un messaggio mandato dalla natura.

Sono le stesse ragioni che estremizzate poi portano al complottismo, al cospirazionismo: ogni cosa deve avere uno scopo, una progettualità segreta. La teoria darwiniana invece è fortemente storica, conosce causa ed effetto ma al suo interno anche la contingenza gioca un ruolo ineliminabile. Tornando all’inizio dei tempi e rilanciando di nuovo i dadi i risultati sarebbero diversi ad ogni ripetizione, e questo ci mette a disagio. 

Darwin era consapevole di questa difficoltà?

Assolutamente, sul finire della sua vita scrisse in una lettera a Thomas Henry Huxley che il problema maggiore non erano tanto l’aver messo in discussione il creazionismo o l’antropocentrismo, quanto il fatto che la mente umana fatichi ad accettare questo genere di spiegazioni non finalistiche. Aggiunse che dopo quattro o cinque generazioni ancora se ne sarebbe discusso. Aveva ragione.

Come si affronta questa predisposizione cognitiva?

Bisogna ricordarsi che non essere il centro dell’universo non è un fatto negativo ma un’occasione, la teoria dell’evoluzione permette di sentirsi parte di un sistema più grande. È anche un messaggio di umiltà: non siamo i padroni del sistema e l’evoluzione ci ricorda anche che siamo vulnerabili. Basti pensare a come un organismo semplicissimo – un filamento di Rna con intorno un po’ di proteine – abbia distrutto per due anni la vita sociale e economica dell’intera umanità. Facciamo parte di un sistema complesso e meraviglioso e la nostra vita è un dono rarissimo.

Uno dei tuoi libri si intitola “Storia naturale dell’imperfezione”, in che senso la natura è imperfetta?

Con quel libro volevo smentire questa immagine che ha sempre grande successo della natura come sistema perfetto, in equilibrio, armonico, saggio, addirittura “buono”. Se studi la natura ti rendi conto che le cose non stanno così: la natura è cambiamento, trasformazione, disequilibrio. Un sistema perfettamente in equilibrio in biologia è un sistema morto. L’imperfezione è una chiave di lettura per capire che nei processi evolutivi si fa di necessità virtù, non si riparte mai da zero. Il meccanismo è quasi “artigianale” e sicuramente non “ingegneristico”: l’evoluzione non pianifica, non progetta, bensì cambia un po’ alla volta o riutilizza per nuove funzioni quello che ha già. Il nostro cervello è un esempio perfetto di questo processo: è un bricolage di strati successivi.

Altri esempi di imperfezione?

Il nostro bipedismo è un adattamento estremamente imperfetto, è molto costoso e genera una serie di problemi a partire dal mal di schiena. Fornisce però anche una serie di vantaggi competitivi, come ad esempio la liberazione delle mani. L’evoluzione è questo: un compromesso dinamico fra costi e benefici, non progettazione di strutture perfette.

Una delle componenti dell’evoluzione è la selezione sessuale, come è emersa questa strategia?

È un meccanismo per nulla scontato perché molto costoso, oltre che rischioso. Sappiamo che è un sistema nato circa mezzo miliardo di anni fa ed è uno stratagemma efficacissimo per produrre diversità. Tramite la ricombinazione del Dna del maschio e della femmina ottieni una prole geneticamente diversa, i figli non sono mai dei cloni, neppure i gemelli omozigoti. La pandemia ci ha mostrato molto bene come all’interno delle famiglie alcune persone potessero essere molto più resistenti di altre a un virus, e questo proprio in virtù della diversità genetica che grazie al meccanismo di riproduzione sessuale si ottiene anche nei consanguinei. La riproduzione per clonazione creando esemplari perfettamente identici permetterebbe invece a un patogeno o a un parassita di uccidere facilmente un’intera popolazione.

Uno dei meccanismi interni alla selezione sessuale è quello dei dispendi “gloriosi” di risorse da parte degli esemplari maschi: i palchi dei cervi, le code sgargianti dei pavoni.

Nella selezione sessuale i maschi si mettono in mostra e la femmina decide chi ha la possibilità di fornirle i geni migliori: è chiaro che se la femmina vede un esemplare maschio dotato di un ornamento sgargiante e molto costoso – come appunto la coda del pavone – capisce che se nonostante questo è riuscito è sopravvivere, è molto probabile che quel maschio abbia dei buoni geni. Recentemente stiamo scoprendo che ci sono anche casi in cui la scelta femminile diventa più arbitraria e dettata dalla moda, c’è, cioè, una componente per cosi dire “culturale” anche in alcuni animali, esistono specie di uccelli in cui i canti riproduttivi dei maschi sono sottoposti a delle “mode” e una melodia diventa quindi quella giusta non perché segnali il possesso di geni migliori ma perché è quella che si è affermata all’interno in un determinato gruppo. Negli esseri umani l’importanza della componente culturale all’interno della selezione sessuale è ancora maggiore.

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Per descrivere il funzionamento dell’evoluzione hai usato la metafora della “regina rossa”, in cosa consiste?

È una metafora tratta da Attraverso lo specchio (il secondo libro della saga di Alice nel paese delle meraviglie) di Lewis Carroll. Alice vede la regina rossa che corre, le chiede perché e la regina le spiega che tutto l’ambiente si sta muovendo e quindi per stare fermi è necessario correre, mentre per muoversi è necessario correre il doppio. È una metafora che si adatta bene al gioco di mosse e contromosse evolutive all’interno degli ambienti naturali: se un parassita cambia, anche la specie ospite deve mutare se vuole sopravvivere. Il nostro rapporto con il virus del Covid, ad esempio, è una corsa della regina rossa.

In questa corsa esiste uno spazio ottimale, fra immobilismo assoluto e sradicamento perpetuo?

È una buona domanda: un’eccessiva stasi porta ad una situazione molto pericolosa perché al primo cambiamento ambientale il rischio di estinzione è concreto: specializzarsi troppo per funzionare all’interno di un ambiente molto specifico è pericoloso. D’altro canto esistono specie generaliste che cambiano così tanto da finire per cambiare anche lo stesso ambiente in cui vivono e così facendo si mettono in pericolo da sole, è questo il caso degli esseri umani. Con questi presupposti la regina rossa deve correre tantissimo e l’adattamento diventa via via sempre più costoso.

Che rapporto ha il raccontare storie con l’evoluzione umana?

Siamo una specie narrativa, cerchiamo di dare un senso al mondo raccontandocelo. Siamo diventati migranti e esploratori quando abbiamo imparato a raccontare storie: chi andava un po’ più in là tornava indietro e raccontava quello che aveva visto. Non avremmo mai cacciato animali di grossa taglia se non avessimo organizzato tutto la sera prima attorno al fuoco, raccontandoci storie. Se vuoi guidare un gruppo sociale devi imparare a narrare. Naturalmente le storie sono un’arma a doppio taglio ed esiste anche un lato negativo: tutte le ideologie, comprese quelle totalitarie, raccontano storie a posteriori, ovvero usano il passato come giustificativo del presente in cui si sono affermate. In realtà esistevano infinite possibilità alternative, ma il meccanismo narrativo tende a ridurre ogni passaggio a una coerenza strumentale: se il risultato finale è x, allora tutto ha sempre cospirato a x. È l’idea di un destino, ovvero la negazione di come vanno davvero le cose nella vita, dove, al contrario, quello che succede è solo una possibilità fra le tante.


La versione integrale dell’intervista è ascoltabile gratuitamente in “Pdr – Il podcast di Daniele Rielli” su YouTube, Spotify, Apple e Amazon podcast e tutti i principali canali podcast.

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