Due giorni prima di imbarcarsi per la prima tournée negli Stati Uniti dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia, Beatrice Rana ripensa al concerto dello scorso Natale eseguito in streaming dal Teatro alla Scala. Nelle sue parole si apre una pausa di silenzio, sta cercando una formula che descriva quella sensazione, poi dice: «Terrificante bellezza». E aggiunge: «Era un concerto di Mozart che non avevo in programma, una vera gioia tornare a suonarlo, ma registrare nel teatro completamente vuoto e rivoltato come un calzino è stato surreale. Milano era deserta, non l’avevo mai vista così».

Il nuovo disco

Ventotto anni, Beatrice Rana è una star del pianoforte contesa dai maggiori teatri e dalle orchestre più prestigiose del mondo. Quando ci sentiamo è in procinto di suonare Tchaikovsky con la Los Angeles Philharmonic Orchestra diretta dalla finlandese Susanna Mälkki: «Lavorare con lei è un grande piacere, è eccezionale» dice. «Quello del direttore è sempre stato un ruolo prettamente maschile ma per fortuna negli ultimi anni sono emerse tante giovani direttrici. Vedendole, molte bambine pensano che nessuno più glielo vieti, che ce la possono fare anche loro, è una grande apertura».

La pianista leccese, che si è imposta per la forza e la personalità delle sue interpretazioni, oltre che per il livello eccelso di virtuosismo, ha suonato in passato con nomi come Valery Gergiev, Trevor Pinnok, Antonio Pappano, Zubin Metha, è stata eletta miglior talento del 2015 del Bbc Magazine, è Accademica di Santa Cecilia, direttrice artistica dell’Orchestra Filarmonica di Benevento e ha creato il festival di musica da camera Classiche forme, che è anche una formazione in cui suona con la sorella Ludovica, violoncellista.

Adesso, oltreoceano, incontra anche la Boston Symphony diretta del russo-finlandese Dima Slobodeniouk. «Mi piace essere da sola sul palco perché sono responsabile al 100 per cento di quello che faccio», racconta, «però amo molto suonare con l’orchestra, è di grande ispirazione. Ogni orchestra ha la sua personalità e ogni volta è una esperienza diversa. Tra le orchestre statunitensi e quelle europee cambia proprio la filosofia del suono; in Europa è caldo, molto profondo, colorato; in America è più brillante, splendente».

Beatrice Rana vola in America mentre esce il suo nuovo disco dedicato a Chopin pubblicato da Warner classics in cui esegue gli Etudes Op.25 e 4 Scherzi, Op.20, 31, 39 e 54. Appena uscito, il cd si è aggiudicato il Diapason d’Or e il Trophée Radio Classique in Francia ed è entrato nella top five di classica del New York Times.

Enfant prodige

Ma come si raggiunge la vetta a meno di trent’anni in uno dei campi della musica più difficili e competitivi che esistano? Figlia di due professori di pianoforte, Beatrice Rana comincia a suonare a quattro anni, a nove entra al Conservatorio di Monopoli, si diploma a sedici sotto la guida di Benedetto Lupo, con il quale prosegue gli studi fino a diciotto, quando vince il primo premio al Concorso internazionale di Montreal (una settimana prima dell’esame di maturità), dopodiché si trasferisce ad Hannover per studiare con Arie Vardi e ci resta quattro anni: «Per modo di dire», ride, «perché alla fine del secondo anno ho vinto la Medaglia d’argento al Van Cliburn international piano competition e non sono più stata ferma; veramente due anni deliranti, sono cominciate le tournée e durante l’ultimo anno di Hannover ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, facevo avanti e indietro, e per altri tre ho studiato ancora con Benedetto Lupo…».

Nel 2017 entra nell’olimpo dei pianisti grazie all’incisione delle Variazioni Goldberg, che il New York Times inserisce nella lista dei 25 migliori dischi classici di quell’anno. Racconta oggi, a proposito del monumento bachiano: «Le ho scoperte grazie all’incisione di Glenn Gould: ero bambina, il cd era in casa, e fu un momento di shock. Di Gould certe cose le ho amate molto, altre le ho detestate; da un lato, credo che il motivo per cui la sua interpretazione sia rimasta fondamentale è che le ha rese un brano da concerto: prima di lui si eseguiva solo qualche variazione. Gould invece le ha suonate tutte senza interruzione. Dall’altro, lui ha un approccio molto diretto: da bambina mi impressionò la sua mancanza di riserve, è verace, molto calcolato però istintivo: una rivoluzione storica».

Una rivoluzione, quella del pianista canadese morto nel 1982, che ha sempre diviso sia pubblico che critica. «Non ho mai conosciuto un artista che abbia messo d’accordo tutti», riflette la pianista: «L’arte non è fatta solo per essere ammirata, ma anche per essere oggetto di discussione. Va benissimo non piacere a tutti, ed è giusto e vitale che ci siano opinioni diverse».

Venendo al suo approccio a Chopin, racconta: «All’inizio non è stato accettato bene dal pubblico». E spiega: «Non esiste compositore più suonato di lui. Sono cresciuta con tante registrazioni, le mie preferite sono quelle di Maurizio Pollini e di Samson François. Quando ho deciso di suonare l’Op. 25 stavo leggendo uno Studio, e mi chiesi: “ok, devo seguire la linea interpretativa nota o posso seguire lo spartito e cercare altro?”. Non volevo fare per forza una cosa diversa, però autori come lui beneficiano e nello stesso tempo sono vittime della tradizione interpretativa, di abitudini non giustificate. Non volevo fare la purista, ma ho cercato un contatto diretto con lo spartito».

A quel punto, confessa, è stato un nuovo shock: «Quando mi sono trovata con lo spartito in mano, rispetto a quello che avevo ascoltato, scopro che Chopin era invece un compositore turbolento, crudo, pieno di chiaroscuri. Combinare le mie due visioni è stato un processo durato anni. Non riuscivo a trovare la quadra: avevo tante idee, però in fin dei conti non sapevo come riassumerle».

Quello che Beatrice racconta è il processo di interpretazione: «Di Chopin ho sempre trovato affascinante come, nelle indicazioni, fosse impreciso: se ne trovano di completamente diverse a seconda delle edizioni francese, tedesca o polacca. Bisogna capire perché ha scritto delle indicazioni così diverse. Qual è l’idea di fondo? Il mio è un lavoro di interpretazione delle intenzioni. Da una parte ci sono le intenzioni del compositore, dall’altra la nostra sensibilità».

Il mondo di Chopin

Nato a Sochaczew in Polonia nel 1810, formatosi alla scuola musicale di Varsavia, Frédéric Chopin ha vissuto da sradicato a Parigi gran parte della sua vita adulta, dove è morto nel 1849 nel pieno della creatività.

Dice Beatrice Rana: «Chopin ha scritto quasi esclusivamente per pianoforte e ha rivoluzionato tutta la scrittura per lo strumento. Fino a quel momento gli Studi erano semplicemente degli esercizi di tecnica, e lui ne ha fatto dei capolavori da suonare in concerto. Ha reso colta la musica popolare: le mazurke, i valzer. Ha usato formule nuove: prima di lui lo Scherzo era soltanto un movimento di sonata, non era un pezzo autonomo; la Ballata anche. Sono formule nuove. Ha conferito cantabilità al pianoforte che, in fin dei conti, è uno strumento a percussione. Non passa da rivoluzionario perché era una figura così gentile, eppure lo era, anche nella vita privata: stava insieme a George Sand, divorziata con un figlio avuto da un altro uomo, la famosa “donna con i pantaloni che fumava il sigaro”. Quando andarono a Maiorca seminarono il panico tra gli isolani a causa della loro relazione. Il secondo e il terzo Scherzo sono stati scritti a Maiorca, come i Preludi, gli Studi, la Seconda Sonata. Tutte le composizioni di questo periodo sono estremamente visionarie e ricche di contrasti: avverto la ricerca di qualcosa, in questi brani… Qualcosa che poi arriverà: il Quarto Scherzo, scritto qualche anno più tardi, ha una serenità di fondo che prima non esisteva nella musica di Chopin».

La risata franca, l’entusiasmo che Beatrice Rana mette nel raccontarsi simboleggiano il ritorno della musica alla sua dimensione naturale, il reincontro con il pubblico, i viaggi, le collaborazioni.

«Il fatto di non poter suonare per le persone è stato un trauma», dice con un sospiro, «nello stesso tempo trovarmi con un sacco di tempo a disposizione mi ha fatto riflettere su cosa volessi davvero suonare in quel momento: i quattro Scherzi entrati nel disco dopo gli Studi non erano in programma, sono figli del primo lockdown. Questo periodo ha cambiato anche la mia maniera di vivere la musica. Ovviamente c’è sempre tanta strizza prima di salire sul palco, ma quando siamo tornati a suonare con il pubblico era talmente grande la gioia che il mio approccio al concerto è cambiato. A maggio scorso, il primo concerto aperto al pubblico è stato con L’Accademia di Santa Cecilia. Mi ricordo che i musicisti dell’orchestra vennero da me dieci minuti prima di salire sul palco e mi dissero: quando il pubblico comincerà ad applaudirci rispondiamo anche noi con un applauso a loro. Mi viene la pelle d’oca solo a raccontarlo».

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