Fare una campagna elettorale, benché locale, deve essere molto più dura che fare un tour. Per questo mentre schiaccio il tastino che collegherà il mio computer a quello di Max Casacci, come una scena horror che irrompe inaspettata nella banale quotidianità, immagino di vederlo in giacca e cravatta, libreria finta alle spalle, ficus alla destra e volto tirato; naturalmente e per fortuna non è così.

Nel riquadro verticale sullo schermo appare il suo volto sorridente e disteso, perfettamente rasato, i capelli biondi tagliati corti – sembra ancora il capitano di una orchestra intergalattica che suona per gli alieni. Ha una felpa neutra e un muro bianco dietro. Tutto a posto. Non c’è metamorfosi, eppure, gli confesso subito, la sua decisione di candidarsi mi ha preoccupato. E inizio spiegandogli subito il perché.

Uno degli intellettuali più rilevanti in questi tempi scaleni che viviamo, il critico e storico della musica Simon Reynolds, più di vent’anni fa disse che era stufo di sentire rockstar che provavano a farlo ragionare e politici che gli spaccavano i timpani. Si augurava di poter vivere di nuovo in un mondo dove accadesse il contrario – e noi avevamo già avuto Berlusconi… Sono passati vent’anni e, parentesi Obama a parte, le urla spaccatimpani dei politici sono peggiorate.

Diciamo che durante il periodo berlusconiano, sul terreno di gioco dei luoghi comuni “rock’n roll”, per noi musicisti si è alzata la bandierina del fuori gioco. Dissolutezze, ambivalenze, atteggiamenti imbarazzanti, provocazioni, scorrettezze istituzionali, menzogne plateali avevano un unico, ingombrante protagonista. E non passava di certo le sue giornate tra furgoni e sound-check. In qualche modo a noi artisti è toccato il ruolo gramsciano della responsabilità. In un clima generale di narrazione falsata e paradossale, è stata spesso la musica ad assumersi il compito di lanciare messaggi sensati e coerenti con la realtà. È stato anche un momento nel quale la musica: le band, gli artisti e il pubblico, riuscivano a compattarsi rapidamente per fronteggiare le minacce comuni. Molto più di oggi. Nell’era dei social e di una politica che ha distrutto molti legami d’appartenenza, gli artisti più giovani raramente scelgono di schierarsi apertamente, anche solo per evitare un assalto, sempre piuttosto violento, sui propri canali. 

E dunque, in questa cornice cosa ti ha spinto a fare questo passo ambizioso e azzardato?

Premetto che quello del testimonial “celebre” che si candida è un gesto che non mi piace, appartiene a una concezione “personalistica” della politica, troppo novecentesca per i miei gusti. Io sono più per l’algoritmo di buon funzionamento, per le cose che funzionano bene e vengono spiegate e raccontate senza il bisogno di attori ingombranti che creino una scena. In questo senso considero la mia candidatura un gesto contro natura. Ma le cose sono andate così.

Negli ultimi due anni, in previsione delle elezioni comunali, ci sono state molte iniziative volte a dare voce a quella sensibilità civica piuttosto diffusa che aveva smesso di sentirsi rappresentata dai partiti. Il Pd locale, che era uscito sconfitto da ben due elezioni, non dava segni di voler rinnovare nulla della propria classe dirigente e le guerre tra correnti, quelle che un anno più tardi porteranno alle dimissioni del segretario nazionale, erano l’unica attività visibile. Torino Domani, la lista civica a cui appartengo, nata da un gruppo di persone con storie umane e professionali significative nasce in questo contesto.

All’interno dei suoi laboratori ho lavorato per coordinare un tavolo musicale che ha messo in rete, per la prima volta, un’idea di “comunità musicale” molto aperta: dai club elettronici ai locali per concerti, festival, Conservatorio, centri sociali…L’idea era quella di produrre un documento, una specie di programma, per fare comprendere il valore aggiunto che la musica, i suoi protagonisti, i suoi luoghi sono in grado di offrire alla città. Alla fine serviva qualcuno che si facesse carico di rappresentare questo lavoro e questa rete. E tutti si sono tirati indietro. Ho passato davvero molto tempo a cercare di convincere alcuni operatori musicali, quelli che gioco forza dialogano quotidianamente con l’amministrazione, ma niente. Alla fine mi sono caricato il fardello ed eccoci qua. Ha prevalso l’essere stato troppo spesso testimone di quello spreco che per miopia, provincialismo, atteggiamenti svalutanti ha sempre contraddistinto una Torino che sistematicamente sciupa le sue migliori risorse. 

La Torino dei centoepassamila studenti avrebbe un grande debito di riconoscenza nei confronti delle energie spontanee, dei movimenti culturali sotterranei, dei luoghi musicali che l’hanno trasformata in una capitale giovanile capace di diventare attrattiva anche oltre confine. Per fare solo un esempio, parlo del Traffic, perché ne ero presidente ma potrei parlare anche di altri episodi analoghi, come la chiusura dei Murazzi. All’indomani del concerto dei Daft Punk e degli LCD Soundsystem insieme sul palco della Pellerina, il sindaco ritenne che le proteste dei residenti che per tre giorni l’anno non trovavano parcheggio fossero più rilevanti rispetto a ciò che il festival stava generando. Vietando la possibilità di utilizzare un parco che era sede naturale del Festival. Festival che era incredibilmente riuscito a entrare di diritto in una mappatura europea, come molti apprezzamenti di artisti internazionali confermavano. Un sintomo, uno tra i tanti, della cronica miopia di una città che non si mostra in grado di apprezzare, valorizzare e proteggere le proprie risorse. 

Il senso della mia candidatura sta proprio nel rappresentare il pensiero che la capacità di investire o anche semplicemente di non ostacolare energie e capacità di questo tipo, generi benefici a lungo termine; per far sì che ciò accada è necessaria una nuova mentalità, più lungimirante e strategica nel suo complesso. Oggi questo tipo di strategia può essere ancora più utile di dieci o quindici anni fa, perché oggi il rapporto tra una città vivace, piena di persone stimolate, e l’energia che l’espressione musicale è in grado di liberare diventa occasione per tradurre tutto ciò anche in intuizioni non limitate al campo dell’arte e della musica; sono intuizioni che in uno scenario tecnologico hanno una distanza molto più corta rispetto alla finalità produttiva e di offerta di posti di lavoro.

La Seattle che ha covato per anni quello che poi negli anni Novanta è esploso e che l’ha resa la capitale dell’Indie rock e la stessa Seattle che aveva in pancia Microsoft e Amazon con tutto ciò che si può avere da ridire su Amazon. La Silicon Valley nasce non a caso in una città che è stata per decenni culla di controculture – non lo sostengo io, lo dice Steve Jobs, l’ultima grande pop star. Questo per dire che le città musicali, creative, con un underground attivo mettono in circolazione risorse creative che poi servono per reggere gli urti di un mondo in costante trasformazione. 

Sono d’accordissimo. La psichedelia californiana ha un legame diretto con quello che poi diventato il centro di uno “strappo” evolutivo del genere umano – mi torna in mente il saggio di Baricco The game, stimolo utilissimo per riflessioni su questi temi. E Seattle ha covato insieme Microsoft, Amazon e l’ultima rivoluzione musicale che ha tenuto insieme una generazione intera. Tuttavia in questi percorsi vien da pensare che la politica non avesse alcun ruolo…

Penso che come minimo non abbia ostacolato il percorso. Il ruolo delle politiche culturali di un’amministrazione illuminata dovrebbe essere quello di intercettare e valorizzare le risorse creative di un territorio. Troppo spesso, soprattutto in Italia – e noi a Torino abbiamo avuto un  esempio nell’ultima giunta di centro sinistra – gli uffici della cultura ritengono di potersi sostituire alle progettualità delle energie spontanee e a quelle dei singoli operatori culturali, con pessimi risultati.

Un altro modo di guardare alla tua candidatura è quello di chiedersi se la tua scelta non sia un segno chiaro che la figura dell’intellettuale e dell’artista non abbia più la forza per avere un impatto sul reale, in un paese che dopo l’era del pensiero intestinale del Berlusconismo ha portato al potere inetti e ignoranti, al punto da dare a ognuno di noi (quelli che hanno letto tre libri e sanno l’inglese, per dire) la certezza che saremmo dei ministri degli Esteri migliori di quel tale – un pensiero orrendo da avere, che ribalta in toto i valori fondanti della delega a chi sa fare, delle competenze… 

Hai centrato la questione. Parlando con persone con le quali sono cresciuto, che stimo, che hanno grandi competenze dicevo: «Se pensate al profilo di quello che dovrebbe essere un operatore della macchina amministrativa, un assessore eccetera vedrete che farete il profilo di voi stessi». Ma perché quando ti è stato chiesto non l’hai fatto allora? Semplice, perché i partiti non sono scalabili. Un giovane, anche di grandi capacità, resta col bigliettino del numerino in mano fino a quando gli si sbianca la barba. Per questo abbiamo creato un habitat civico fatto di persone che non vedono l’ora di poter mandare avanti le nuove generazioni, professionisti che hanno storie professionali o di vita significative.

Costruiamo un sistema scalabile, un progetto che diventerà una scuola di politica per i più giovani. I tempi sono stati un po’ stretti ma spero che la mia candidatura possa evidenziare e accelerare il processo. Vogliamo creare possibilità di accesso. Ma i ragazzi più giovani vanno messi a confronto con le esperienze e le competenze di chi è passato attraverso la macchina amministrativa, di chi è uscito dalla politica perché non aveva più voglia di combattere col coltello tra i denti guerre tra correnti. La mia testimonianza non è il capolinea di nulla, è un passaggio intermedio per arrivare – la sparo grossa – a rinnovare questo paese, facendo in modo che le generazioni più giovani abbiano accesso e strumenti di crescita. Abbiamo visto che non ci si può improvvisare politici, l’esperimento dei Cinque stelle è stato utile proprio negli aspetti più deleteri: rappresenta un precedente di cui tener conto.

È un precedente che avrei evitato volentieri, non penso ci abbia immunizzati dal qualunquismo. Tornando alla tua candidatura temo che il problema siano le generazioni che ci hanno preceduto; piuttosto si trascinano con la flebo a rotelle ma il posto non lo mollano. E noi siamo gli eterni giovani. Prima di aiutare i (veri) giovani più preparati a scalare la politica si dovrebbero eliminare i più vecchi e noi, diciamo la generazione X, non ci siamo riusciti. Poi certo abbiamo avuto un gigantesco problema di competenze, dunque questo tema è diventato secondario.

Credo che ci siano persone che si sono formate all’estero, perché qui non avevano la possibilità di farlo, che devono essere messe nella condizione di ridisegnare il paese. Io non sono nemmeno generazione X, sono in quella terra di nessuno che sta tra le rovine del sogno anni Sessanta e l’inizio della generazione X. I miei soci del gruppo lo sono, loro sì, ma mi sento molto più in sintonia con i ventenni che oggi crescono in uno scenario di crisi che somiglia a quello in cui noi, in una Torino completamente chiusa e impermeabile rispetto alle necessità giovanili, cercavamo di inventare cose; la mia generazione ha creato i centri sociali perché non c’era nient’altro, mettendo in circolazione energie che sono successivamente esplose negli anni Novanta. Ci sono pochissimi politici della mia generazione e anche la generazione X raramente ha espresso una propria rappresentanza significativa. Questo tirarci indietro ha fatto sì che quella spallata necessaria non ci sia mai stata.  Ed è tempo che ci sia. Non se ne può più di ascoltare vecchi politici dire: «Noi dobbiamo imparare a parlare ai giovani attraverso i social network». No! Deve esserci uno giovane al posto tuo, non devi imparare tu a ballare su Tik Tok.

Ok, parliamo un po’ di musica – o meglio di musica degli ecosistemi. Cos’è?

Durante il lockdown, partendo da alcune esperienze precedenti, ho realizzato un album senza strumenti musicali, utilizzando esclusivamente suoni della natura e degli ecosistemi. Ho incontrato nel percorso collaboratori illustri come Stefano Mancuso, Mario Tozzi, Michelangelo Pistoletto, Carlo Petrini e altri. Alcuni di loro mi hanno incoraggiato e fornito suoni, per esempio delle piante o dei vulcani, altri, come Pistoletto, mi hanno commissionato direttamente brani. Tutta questa esperienza si è estesa alle pagine di un libro, Earthphonia, che contiene anche il cd omonimo. Ho vagato con i microfoni tra fiumi, foreste, montagne e alveari per catturare i suoni, e poi mentre la città era bloccata dal lockdown ho viaggiato  attraverso i suoni della natura immaginando una musica per il mondo che avremmo vissuto dopo la pandemia.  

Sento un tentativo di ricerca del trascendente, un afflato romantico…  

Assolutamente sì. Il disco non è l’ascolto dei suoni della natura che usi per rilassarti – ci sono movimenti lievi che accarezzano l’udito ma anche momenti con i vulcani che scuotono i subwoofer, quasi techno primordiale, suoni nati quattro miliardi di anni fa… o movimenti come il pezzo sugli oceani strutturato sul rumore dei ghiacciai che si rompono. Sono due anse: da un lato c’è una relazione senza tempo, perché metto in musica suoni che sono nati prima della presenza umana su questo pianeta e contemporaneamente c’è l’asse storico per cui io vado alle manifestazioni di Fridays for Future a suonare i fiumi; e ancora, il gorgogliare di una fonte può diventare un coro sacro, quindi c’è anche una ricerca spirituale. Il musicista può accarezzare tutte le suggestioni e arrivare anche a una visione mistica che prescinde dal credere o non credere in Dio. Ma anche semplicemente rimanere affascinati da come gli insetti abbiano cominciato ad avere delle protuberanze che dissipassero il calore e poi si sono accorti che queste protuberanze li aiutavano a saltare tra una foglia e poi puff! hanno iniziato a volare. O le api che prendono decisioni collettive danzando: pensa se potessimo sostituire alla guerra una danza! 

Non temi che tutto questo – il sacrosanto egoismo dell’artista, i tuoi interessi – possano venir fagocitati dall’impegno politico e che tale impegno possa rivelarsi una perdita di tempo, o perlomeno, non avere l’efficacia necessaria a renderlo sensato?

È una questione. Il fatto di avere in qualche modo dimostrato a me stesso e alle persone che hanno avuto la pazienza e la passione di seguire il percorso mio e dei Subsonica di avere prodotto una serie di cose che oramai sono nero su bianco, si sono storicizzate, mi mette un po’ più al riparo dal rischio di non sentirmi libero di esprimere la mia creatività. Adesso penso alla mia città che vive una fase cruciale, tra l’esigenza di individuare una direzione per il futuro e la chiusura di una, anzi più fasi politiche. Torino ha bisogno di attingere a tutte le sue risorse, incluse quelle creative per ridisegnare una prospettiva. Credo davvero che non sia il momento di tirarsi indietro.

Dimmi come se la passano i Subsonica. 

Intanto non abbiamo potuto assembrarci per un anno e mezzo… nel frattempo abbiamo fatto uscire un album che in parte era già nel cassetto e avevamo preparato una tournée strutturata sul ventennale di Microchip emozionale con degli ospiti che avrebbero suonato con noi e noi avremmo suonato i loro pezzi. Eravamo gasatissimi e pronti a partire. Poi la storia è nota. Il lockdown ha congelato quel tour perché ha motivo di essere soltanto nel club, e sui club come sappiamo il futuro è più che incerto. Nel frattempo c’è stata la possibilità di fare un tour estivo nel quale abbiamo raccontato tutta la nostra storia, trovando di nuovo un piacere reciproco nel girare tutti insieme. È stato uno dei tour più armoniosi che abbiamo mai fatto.

Beh, sai, è la mezza età che porta consiglio…

Ahahaha. Abbiamo trovato anche il modo di fare una settimana di scrittura creativa per quello che dovrebbe essere il nostro nuovo album, il numero 10. Siamo riusciti a capire bene la nostra storia; quali sono stati i momenti più incisivi, le cose che rimangono più delle altre, i momenti in cui eravamo veramente autenticamente noi stessi e altri nei quali abbiamo ceduto a sirene che ci hanno portato un po’ fuori strada, almeno questo penso io, ma pian piano stiamo arrivando a condividere un punto di vista sulla nostra storia. Quindi direi che i Subsonica stanno veramente molto bene. 

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