Al telefono Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, mi risponde da casa sua a Bologna col suo incredibile accento sardo-bolognese. Mi dice di essere «appena rientrato dal market». Io sulle prime non capisco, poi realizzo che si tratta del supermercato – che felice arcaismo post-moderno! Il market! Sono già conquistato, non bastasse il fatto che il suo disco è notevole. Gli dico che il markèt, con l’accento sulla “e”, mi fa venire in mente il fantastico pezzo di Battisti, intitolato appunto “Supermarkèt” e cominciamo a cantarlo insieme: «Lunedì, tu lavori lì… supermarkèt, supermarkèt». Ce la ridiamo un po’, prima di addentrarci in una conversazione piuttosto complessa e stimolante, perché è una conversazione con un intellettuale; il merito del “vostro scriba”, come direbbe l’amatissimo Gianni Clerici, seppur innegabile, è marginale. Iosonouncane, non solo è un compositore avveduto, ma, come leggerete, ha la dote della consapevolezza; la lucidità con la quale parla del suo lavoro è rara, così come la ricchezza dei suoi riferimenti culturali. Consiglio caldamente, prima di proseguire nella lettura, di ascoltare la sua ultima opera, della quale qui parleremo, misteriosamente intitolata IRA.

Un’opera rock, come si sarebbe detto negli anni Settanta, ai quali questo disco mi sembra appartenere non voglio farti l’elenco infinito degli artisti e delle esperienze che ha richiamato alla mia mente, ma mi interesserebbe capire cosa hai ascoltato in questi 5 anni di lavoro e come i tuoi ascolti sono entrati nel disco. Prenditi il tuo tempo, ti ascolto.

Sono piuttosto onnivoro da sempre, ho avuto molte passioni passeggere che sono finite nella roba che scrivevo e producevo per poi scomparire o sedimentarsi. La mia prima formazione è avvenuta con la psichedelia degli anni Sessanta, dai Beatles ai Birds, fino a cose più oscure come The Red Crayola. Non sono certo sia evidente in quello che faccio, ma è stato il mio punto di partenza. Negli ultimi cinque anni ho deciso di studiare il jazz, mi son messo ad ascoltare un sacco di dischi e ho studiato il manuale di Stefano Zenni. Sono andato avanti in maniera cronologica, riuscendo ad avere una visione dettagliata di quel linguaggio e scoprendo cose che non conoscevo. Ogni disco jazz è fatto da musicisti che in quello stesso anno hanno fatto altri dieci dischi con altri musicisti, è veramente un labirinto meraviglioso. Parti da Charles Mingus, passi da Max Roach e arrivi all’infinito. È stato un ascolto importante, sempre insieme a quei dischi che continuo ad ascoltare senza stufarmi, perché ancora non li ho afferrati completamente, su tutti Robert Wyatt. Ho poi ascoltato tanta musica del Maghreb, in special modo marocchina. Già alla stesura delle prime bozze del disco cinque anni fa stavano emergendo delle linee che si riferivano a quel mondo. Nel 2017 poi ho fatto un viaggio in auto in Marocco con la mia compagna ed è stato un vero trip acustico per me, ho raccolto un sacco di idee. Nella stratificazione costante degli ascolti, negli ultimi anni si sono aggiunte prepotentemente queste due cose.

Io sento anche forti radici mitteluropee e francesi…

La radice mitteleuropea arriva dall’ascolto dei tedeschi, dai Can ai Klaus Schulze, e più in generale la kosmische musick. E poi, passando alla Francia, Brigitte Fontaine, Comme à la radio, per esempio, arrangiato dall’Art Ensemble di Chicago. Sono dischi meravigliosi di canzoni popolare francesi, assolutamente distrutte, acide, deflagrate e veramente scure. Qualcosa che non ha termini di paragone nel nostro paese.

Il tuo disco è contemporaneo e antimoderno al tempo stesso. Per esempio l’idea che possa essere suonato live esattamente com’è composto richiama il processo di composizione di una partitura per orchestra, pensata e scritta avendo come unico limite tecnico l’esecuzione dal vivo.

Ho scritto tutte le singole parti sulla base di quello che ognuno dei musicisti poteva fare e sulle possibilità che emergevano dalle improvvisazioni fatte nel corso degli anni. È un paragone ardito, ma, per capirsi, ho approcciato questo disco come avrebbe fatto il direttore di una big band di jazz. Ellington ha suonato per decenni con gli stessi musicisti, modificando la sua musica in base a ciò che i musicisti avrebbero potuto fare e portando al tempo stesso i musicisti a una maggiore padronanza dei territori nei quali voleva avventurarsi, coinvolgendo profondamente i musicisti nel suo progetto. Nel mio piccolo è quello che ho provato a fare in questi cinque anni, tanto ci è voluto a completare IRA. Ho cambiato arrangiamenti in corsa sulla base di quello che potevamo fare, spingendo sempre più in là i musicisti, sapendo che poi il live sarebbe stato complicato anche per loro, dovranno cantare, armonizzare e intervenire a più livelli. Dopo tantissimi anni di autarchia ho chiuso il tour del disco scorso con una band; è stato meraviglioso poter condividere questo percorso con persone con le quali è nata una affinità sia artistica sia umana. Questo ha avuto un peso enorme rispetto alle modalità nelle quali ho realizzato questo disco.

Parli di jazz ma a me pare che il tuo disco si metta quasi in dialogo con la musica classica, in una sua qualche declinazione. Non solo per il tema della “partitura” cui accennavo sopra, anche perché è quasi musica colta, richiede molta attenzione…

Ma non elitaria! Io ascolto tanta classica, ma non ne ho una conoscenza approfondita; ho lo stesso limite che avevo prima col jazz. Conosco tanta roba, la ascolto, ma non ho una visione. Quando si parlava di mix e di master, abbiamo molto discusso tra noi: IRA è stato masterizzato con il volume più basso rispetto ai dischi contemporanei, per avere un suono più scuro e una maggiore escursione dinamica tra le parti morbide e quelle dure, cosa che in effetti è pertinente rispetto a quanto dici, proprio perché tipica della musica classica. Abbiamo suonato piano – una pratica desueta. Oggi si sta sempre al picco, sia per assecondare i desideri delle radio sia quelli dell’ascoltatore: anche se ascolti il pezzo sull’iPhone ti sembra sempre “in botta” e a palla. Questo approccio tuttavia uccide le dinamiche, che è esattamente ciò che volevo evitare.

D’altra parte IRA è veramente un disco popolare; è ricco di melodie e ognuna rimanda a tradizioni riconoscibili. La ricchezza sta, a mio parere, proprio nella capacità compositiva che dà forza al cantato e ai cori, che sono davvero molto presenti. L’aggettivo polifonico si attaglia alla perfezione al tuo disco.

Sì era mia intenzione. Questo è l’aspetto più istintivo del mio processo di composizione. Scrivo e appunto costantemente cose. IRA è arrivato a due ore, ma avevo materiali per venti ore. Attraverso le melodie riesco poi a far quadrare gli elementi. Il tema melodico – che sia fatto da sintetizzatori, da mellotron o da voci – parte dall’istinto per arrivare poi alla visione complessiva. È il cuore pulsante del disco.

Le voci sono usate come strumenti, il più delle volte. In molti i pezzi i cori mi ricordano le colonne sonore dei film italiani sentimentali anni settanta. Languidi.

Senza dubbio. È un languore espresso sia da certe melodie sia dalla coralità in sé, soprattutto quella femminile capace di registri molto gravi e dunque languidi.

Ho riascoltato il tuo pezzo Novembre e la tua versione di Vedrai vedrai di Tenco e mi son detto: rinunciare quasi del tutto a quel modo di cantare beh, è una decisione forte…

Io penso che l’obiettivo debba essere quello di provare ad arrivare a qualcosa che ti supera, che vada oltre le tue aspettative o addirittura oltre le tue possibilità. La voce è uno strumento e come tale deve essere al servizio delle idee, non sacrifico le idee per la voce. Il mio primo disco aveva una voce molto stridula, che declamava, poi nel secondo disco ho rinunciato a quello stile. DIE era caratterizzato da una voce molto presente e prevalentemente posizionata sui registri alti. Ho deciso di rinunciare anche a quell’idea. Pensare a un disco nuovo implica sempre il rinunciare a qualcosa. IRA è nato con questa idea: liberare lo spazio che permettesse di fare entrare altre idee. Naturalmente nulla è definitivo, magari tornerò a utilizzare il registro vocale di Novembre, che peraltro ho scritto 11 anni fa ed è rimasta lì in attesa per tutto questo tempo. Il pezzo di Tenco l’ho fatto più volte nei miei concerti acustici e anche prima, è parte di me e lo sarà per sempre. Il punto è che sono molto spaventato dal rischio che corre un’artista – scrittore, regista o musicista, non importa – quando finisce per diventare vittima dei vezzi che sviluppa per portare a casa il risultato. Dopo il tour di Die mi sono reso conto che mi ero affidato troppo alle sparate in alto della mia voce gracchiata e muscolare. E mi sono reso conto che stava diventando una zona sicura, come un calciatore che fa sempre la stessa finta, se posso azzardare questo paragone. All’inizio fa gol, poi tutti sanno cosa sta per fare, sia in campo sia sugli spalti. Quindi l’ho abbandonata e mi son detto vediamo che voce viene fuori adesso… ed è venuta fuori la polivocalità, i registri in falsetto, la mezza voce rilassata. Ho rinunciato a cose acquisite per impararne altre.

Ho trovato interessante l’uso di lingue diverse e di pseudo-lingue, e l’accettazione della possibilità di non comprendere e di non poter essere compresi. Senza scomodare la storia delle idee sul linguaggio, la sua funzione e le sue possibilità, mi è parsa, concettualmente, un’idea estremamente feconda, quasi una chiave di interpretazione del mondo in cui viviamo, in cui ognuno sembra parlare una sua lingua. Riuscire a comunicare, a dirci, rimane la più grande fatica del vivere…

Non c’è nulla in quello che io faccio che non comporti fatica. Non sono stato un bambino o un adolescente prodigio. Tutto ciò che riesco a fare è costato studio e fatica, non sapevo fare niente, ero sostenuto solo dalla passione e dall’attitudine. È vero che non amo l’aspetto mondano di questo lavoro; a me piace stare a spippolare in studio, ascoltare i fonici e questo probabilmente mi ha aiutato. Ciò che invece non mi costa nessuna fatica è stendere la melodia. Improvviso davanti al mio software, ascolto in loop qualcosa, mi viene un’idea, clicco “rec” e nove volte su dieci viene fuori la melodia definitiva. La natura delle melodie è inafferrabile, a volte sono quasi solo degli assoli di voce… e poi c’è un immediato indirizzo del suono, io inizio già a immaginare come la voce dovrà “suonare” e questa volta fin da subito ho sentito risuonare molte voci. Arrivando al linguaggio: mi sono reso conto che quelle melodie portavano con loro distanza e solitudine, mi sono immedesimato completamente nello smarrimento, nella disperazione e umiliazione che porta il provare a spiegarsi senza riuscirvi. Non è una cosa solo dei nostri tempi, dei migranti soprattutto, ma una condizione umana. Ho capito di dover rinunciare anche alla mia lingua, perché mi interessa quel grand canyon che si apre tra la cosa detta e quella compresa; perché è lì che si crea la relazione, la società e dunque il mondo. Mi interessava vivere quella sensazione. I testi di IRA dicono cose, si possono tradurre, ci si arriva con difficoltà, magari con fatica, ma quei testi in tante lingue diverse dicono cose. Non una parola è messa lì a caso, magari solo per il suo suono. Penso sia importante fare fatica per decifrarli, volevo creare un lavoro stratificato in cui il primissimo livello di lettura, quello della totale incomprensibilità di quello che viene detto, ponesse l’ascoltatore in uno stato di smarrimento.

Ci sono mille motivi per i quali il tuo disco dialoga con un mondo internazionale e non solo italiano, uno di questi è il disinteresse totale rispetto alla facilità di ascolto, del consumo, una cosa che chi guarda solo all’Italia pensa sia scomparsa.

Già per DIE, avevamo avuto un interesse dall’estero, avevamo anche suonato al Primavera sound e risuoneremo lì. Per IRA sta accadendo lo stesso se non di più. È un disco apolide, è straniero per tutti. Ciò permette di arrivare dritti al disco, nessuno ascoltando IRA potrebbe mai pensare che tutto il disco è retto da una storia sentimentale ambientata nell’epoca dei vocali di WhatsApp. Arrivi fuori dall’Italia se musicalmente sei all’altezza, è così; il mercato musicale italiano è molto chiuso, autoreferenziale, poco permeabile, come il paesino balneare di provincia che si riempie solo d’estate e poi torna alla solitudine. A parte la settimana in cui i Radiohead magari vanno primi in classifica, poi finisce lì. Non è che i Flaming Lips vanno da Fazio! E poi arriva Sanremo, fermi tutti! La prospettiva in cui un diciottenne italiano comincia a fare musica è differente da quella di un suo coetaneo non italiano. Da un lato mancano dei contenitori che rivendichino complessità, apertura e idee. Allo stesso tempo la logica dei numeri di Spotify ha cambiato tutto. Il cosiddetto entry level non era «faccio 500 streaming e amen», ma vado a suonare ovunque, davanti a qualsiasi pubblico e in qualsiasi condizione e poi faccio il disco. Oggi è tutto più artificiale, non c’è più ricerca dal basso. Uno stronzo ventenne come me andava su un palco con due campionatori a fare feedback per due ore… e andava bene così! Ora c’è una omogeneizzazione spaventosa sia del lessico sia delle tematiche. Si parla di sentimenti, non di relazioni che è una cosa complessa, ma di sentimenti semplificati. Raramente si va oltre al «mi hai lasciato/sto male». E grazie al cazzo! Non si esce quasi mai da questa cosa, senti sempre la stessa voce, gli stessi suoni, la stessa forma. Tuttavia credo che non ci sia nessuno spauracchio, se non quello auto-imposto del fare canzoni che funzionino subito, qui e ora. Certamente inserirsi nel mercato internazionale è complesso, l’ho provato sulla mia pelle al Primavera sound. Fai il tuo concerto, lo fai per bene, con le ginocchia un po’ tremanti, dopo un disco che aveva avuto grande attenzione in Italia e i concerti che erano andati bene, potresti anche essere relativamente tranquillo, poi vedi Steve Albini che ti guarda con le braccia conserte, e insomma, le ginocchia tremano ancora di più. Peggio ancora quando ti fai un giro dei palchi e vedi che il più inculato dei gruppi vietnamiti ha un livello altissimo, cose che non vedi in Italia. Sei felice ma ti rendi conto della difficoltà dell’impresa. Non ho idea se ce la farò, ma non è impossibile per nessuno.

IRA, perché questo titolo?

Non te lo dirò mai. Si capirà.

Ammazza. Ok, ascolta. Detesto l’idea di definire un’opera come coraggiosa, di starle accanto perché è hype oppure chiedersi se l’artista vincerà la scommessa – come se si potesse vincere o perdere con l’arte. Sei infastidito quanto me da questo dare per scontato che il successo si confonda col valore, che la complessità si riduca a statistica – e peraltro quale statistica, un algoritmo che moltiplica gli ascolti non appena c’è un picco…

La questione di confondere queste due cose è un abominio. Io fortunatamente mi son ritrovato negli anni a essere circondato da persone con cui non solo lavoro ma da persone con le quali condivido una visione, un’attitudine. Si è consolidata la falsa idea che una canzone sia buona se funziona. Funziona ciò che assolve a uno scopo, il mio comodino funziona per dire…

Beh sì, è storia dell’estetica. L’arte definita come ciò che non ha una funzione. Dopo la nascita dei mass-media e ancor di più del mercato globale, un sentiero impervio…

L’arte non serve a niente, nel momento in cui l’artista riesce a liberarsi dal giogo dello scopo, arriva a esprimersi davvero. Il concetto di funzione è un concetto economico. Le canzoni non sono patatine, né sottobicchieri.

Beh, oramai sì. Tocca farci i conti.

Ma se guardiamo oltre i confini vediamo che c’è una grandissima quantità di musicisti con un pubblico enorme e festival frequentatissimi. Non dovremmo assolutizzare. Certo il fastidio è enorme per tutti quei progetti straordinari che vengono immediatamente catalogati come “cose che non funzionano” e finiscono nell’oblio. Però questo è un discorso lampante da noi, ma diventa più sfumato e complesso guardando all’estero. Dobbiamo dire chiaramente che questa idea – la canzone che funziona è la canzone buona – è un falso valore. Allo stesso tempo dobbiamo anche dire chiaramente quanto questo discorso sia circoscritto alla conservazione di un ambiente piccolo, quello italiano.

Mi racconti della tua formazione? Sei nato nell’Iglesiente, una terra radicale, assoluta e paradossalmente addolorata a causa della sua sublime bellezza. Una terra color ruggine – quello delle miniere abbandonate, delle rocce, del mare al tramonto, della solitudine. Ma queste sono farneticazioni di un viaggiatore superficiale. Raccontamelo tu, se ti va.

Sono cresciuto a Buggerru. Quello che dici è vero, è una terra in cui la vita è drammatica e il dramma è vitale. Le due cose sono indissolubili e però alimentano una esistenza che pare essere da sempre e per sempre. Immota ed eterna. Ciò ha modellato la grammatica del mio inconscio, per questo dico che nonostante io viva a Bologna da vent’anni e ascolti musica che probabilmente non avrei mai ascoltato se fossi rimasto a Buggerru, se fossi cresciuto altrove un disco come IRA non l’avrei potuto nemmeno pensare con la stessa ostinazione, fantasia, senso del tragico e della vita. Quella costa è aspra, ha una densità abitativa tra le più basse d’Europa, è battuta perennemente dal maestrale, il mare è sia un luogo di scoperta, una immagine di una possibile partenza o fuga, ma allo stesso tempo è materia che ti schiaccia. Nel caso di Buggerru ciò che vado dicendo è lampante, per la sua stessa conformazione. È un posto in cui vivi la duplicità degli elementi dell’esistenza in maniera inequivocabile e inaggirabile – dramma e vitalità. È una terra che scava dentro di te; gli elementi ti trattano come trattano la scogliera, ti lasciano dentro la stessa cosa.

Passiamo dallo spazio al tempo. Parlami del tuo tempo in Sardegna, vuoi?

Ho un’estrazione proletaria se non sottoproletaria, vengo da un paese di minatori pescatori e da una famiglia di minatori e pescatori. Ho avuto la fortuna nell’adolescenza di conoscere amici che sono tuttora tali e con i quali ho cominciato a suonare. È stata un’adolescenza che già anticipava una maturità, che preparava al viaggio.

 

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