Un giorno all’anno, verso la fine di agosto, dalle coste della Calabria si può vedere il sole sull’orizzonte di fuoco mentre si immerge proprio al centro del cratere di Stromboli, come se fosse inghiottito nel ventre del vulcano. Strongyle, la rotonda, così la chiamavano i Greci. E per chi si avvicina in barca di notte è tagliata, come una lama, dalla sciara del fuoco, ora più stretta ora più diffusa, che scivola nel mare come se volesse ferirlo e si riflette sulle onde tra i brontolii di un piccolo gigante, in realtà poco più che uno scoglio, e tutto sommato benevolo.

Le Eolie, un trionfo di profumata bellezza mediterranea, si trovano in una zolla vulcanica molto attiva e a poco a poco emersero dal mare circa 300mila anni fa. Un giorno, verso il 5mila a.C. o forse prima, arrivarono gli uomini, di cui restano sparute tracce di tombe e di capanne: città, non ne costruirono mai. Era un popolo per noi sconosciuto, che sfruttava la natura di questi sette scogli dispersi nel mare, esportando l’ossidiana eruttata in grande quantità dai vulcani: il materiale più tagliente che si potesse usare prima dell’invenzione dei metalli, merce pregiata.

L’ossidiana delle Eolie è stata trovata sino alle coste dalmate. Poi, verso il 1.500 a.C., arrivarono gli Ausoni, che si erano insediati sulle coste della Calabria; probabilmente furono loro a costruire la prima acropoli fortificata, nel luogo in cui sorge ora il castello. Si favoleggiava che il loro capostipite fosse stato un Ausono, figlio nientemeno che di Ulisse e Circe. Un altro loro re leggendario si chiamava Liparo, da cui prese nome l’isola.

L’arrivo dei Greci

A un certo punto, verso l’850 a.C., gli Ausoni scompaiono dalle isole, che furono devastate e rimasero quasi deserte. All’inizio del VI secolo sbarcarono i Greci, provenienti da Cnido sulle coste dell’Asia Minore, e le Eolie divennero un lembo di terra greca. A quanto pare allora le isole erano abitate da circa cinquecento persone, che si fusero con loro e fecero di Lipari la capitale: sembra – come racconta Diodoro Siculo – che i coloni avessero inaugurato una forma di comunismo primitivo in cui le proprietà e i bottini erano in comune e venivano equamente spartiti tra gli abitanti. Solo dopo molto tempo le terre vennero privatizzate.

I Greci delle Eolie erano temibili pirati, che seminavano il terrore nel Tirreno, in particolare tra gli Etruschi. In un’occasione distrussero una flotta etrusca e per riconoscenza ad Apollo gli dedicarono a Delfi più di venti statue. Nel 393 a.C., dopo che Furio Camillo aveva conquistato Veio, i Romani inviarono a Delfi un tripode d’oro come ex voto. La nave che lo portava fu intercettata da un corsaro di Lipari che se ne impadronì: ma poi gli isolani pensarono che fosse più prudente restituirla ai Romani con tante scuse, come racconta Diodoro Siculo.

Per i Greci quelle terre furono sin dall’inizio le Eolie, il luogo dove aveva avuto sede il padrone dei venti e che fu visitato per la prima volta da Ulisse: sull’acropoli di Lipari è stato trovato un grande pozzo sacrificale, profondo più di sei metri e coperto da una lastra di pietra, in cui gli abitanti gettavano offerte in onore di Eolo.

Eolia

Ulisse arrivò con la sua flottiglia, già provata da un lungo vagare per mari ignoti. Erano appena sfuggiti ai massi del Ciclope, videro un’isola in lontananza, a forma di cono, con una costa ripida e spoglia, e un pennacchio di fumo si alzava sopra di essa. Un piccolo vulcano. Sulle falde del vulcano luccicava un palazzo, tutto di bronzo. Era – dice Omero – l’isola Eolia dove abitava Eolo figlio di Ippota: non un dio, ma un uomo «amato dagli dèi immortali».

Ci viveva solo lui insieme alla sua famiglia. Ma era una ben strana famiglia: Eolo aveva avuto da sua moglie dodici figli, sei maschi e sei femmine. Gente lieta e pacifica che trascorreva il giorno banchettando e oziando. Ma la notte, ogni fratello dormiva nella sua stanza insieme a una delle sorelle, perché Eolo li aveva sposati tra loro. Nella solitudine di quella terra, esisteva un’endogamia perfetta, e non si conosceva la parola incesto. Una situazione unica, che farebbe pensare a ciò che Freud immagina in Totem e tabù: un mondo delle origini perfettamente casto e perfettamente incestuoso, ma in questo caso tutt’altro che selvaggio, perché Eolo fu di una perfetta cortesia con i nuovi arrivati.

La strana endogamia tra i figli di Eolo era un ottimo spunto per ricavare storie. Il primo a farlo fu Euripide, in una tragedia chiamata Eolo di cui conosciamo solo la trama: il maggiore dei figli di Eolo, Macareo, si innamorò di sua sorella Canace e le fece violenza. La ragazza nascose la gravidanza simulando una malattia, e nel frattempo Macareo convinse il padre a sposare i fratelli con le sorelle. Per stabilire le coppie, si ricorse a un sorteggio: ma il destino fu avverso, perché Canace venne estratta come sposa per un altro dei fratelli. Quando poi Eolo scoprì il segreto e seppe che Canace aveva partorito un figlio, le inviò una spada con cui Canace si trafisse.

Macareo nel frattempo riuscì a impietosire il padre, dopo avere ottenuto il suo perdono si precipitò dall’amata, ma la trovò morente e allora con la stessa spada si suicidò. Una tragica storia d’amore e di morte, una specie di Romeo e Giulietta euripidea.

Ma dalla tragedia torniamo a Omero. Eolo sedeva sopra un trono di pietra e accanto gli stava la sposa. Attorno a un tavolo, i figli e le figlie, che sembravano identici come le figure riflesse da uno specchio. Il nome di Ulisse lo conosceva, e anche le imprese compiute dagli eroi sotto Troia, perché i venti sono i messaggeri più veloci e portano con sé ogni notizia.

Eolo volle che Ulisse raccontasse le sue imprese e le storie della guerra, e ricavava un grande piacere a immaginare tante cose accadute in giro per il mondo, lui che viveva su un piccolo vulcano isolato insieme alla sua famiglia. Per un mese intero Ulisse si fermò da lui. Raccontò, raccontò, sinché Eolo fu inebriato dalle sue parole. Il giorno della partenza Eolo lo accompagnò alla nave con un grande otre di pelle di bue chiuso con una catenella d’argento, in cui si sentivano ribollire strane presenze.

Erano i venti che si agitavano, chiusi lì dentro. «Qui», disse Eolo, «ho raccolto i venti furiosi e ho liberato soltanto Zefiro, che ti soffierà nelle vele sinché sarai arrivato a casa. Bada però di non aprire l’otre: scateneresti un uragano quale non se ne sono mai visti in questi mari».

La piccola flotta riprese il mare, ma Ulisse non disse niente ai compagni. Non si fidava della loro stoltezza e temeva che qualcuno incautamente aprisse l’otre. Non aveva però tenuto conto del più miserevole dei sentimenti, l’invidia. Per nove notti e nove giorni soffiò una brezza propizia e ogni giorno Itaca si avvicinava. Ulisse reggeva il timone, che non volle cedere a nessuno: si fidava solo di se stesso. Ogni tanto il suo capo si piegava nel sonno, ma subito si riscuoteva. Doveva resistere, ormai era quasi alla fine delle sue peripezie!

Itaca come un sogno

Infine, Itaca apparve all’orizzonte. Era proprio lei, non c’era dubbio, si vedeva la sagoma della sua montagna e in lontananza il fumo che saliva dalle case. Gli dèi però furono ancora una volta maligni con Ulisse. D’un tratto, le sue palpebre si chiusero come fossero di piombo e il sonno lo afferrò. Ma da tempo i compagni stavano mormorando tra loro. Erano curiosi di sapere che cosa contenesse l’otre. «Ulisse», si dicevano l’un l’altro, «torna da Troia ricco, e noi ce ne veniamo a mani vuote. Chissà quanto oro Eolo gli ha donato e lui lo tiene ben chiuso dentro quell’otre! Perché non ci ha detto niente e non vuole mai mollarlo?»

Così gli sciocchi sciolsero la catena d’argento. Subito i venti furibondi per la prigionia volarono fuori e la nave fu sbattuta tra i marosi come un fuscello. Per miracolo non affondò, ma Itaca scomparve in lontananza, come un sogno che si dissolve, e i venti trascinarono indietro Ulisse all’isola di Eolo.

Forse, ci avrebbe concesso un’altra possibilità, pensò l’eroe. Trovò Eolo nella sua sala insieme alla famiglia mentre stavano banchettando e l’aria era piena dell’odore spesso delle carni arrostite. Eolo lo guardò stupito: «Perché sei tornato qui, Ulisse? Hai conquistato un’altra città?». Quando seppe che cosa era accaduto, balzò in piedi con gli occhi fuori dalle orbite: «Via di qua, maledetto!». Gridò: «Quello che è accaduto mi fa capire che sei un uomo odiato dagli dèi, e che ti vogliono rovinare». Così Ulisse riprese le sue peregrinazioni e i vulcani delle Eolie sparirono dal suo orizzonte.

Sotto i vulcani

A un certo punto, Eolo fu sostituito da Efesto, il fabbro divino. Quei vulcani erano il luogo perfetto per immaginarvi la sua fucina, dove il dio del fuoco aveva portato i suoi mantici e le sue incudini. Sotto quei vulcani si lavorava sodo, e il fumo sbuffava dai crateri. Tucidide, nel V secolo a.C., ricorda tre delle isole: Stromboli, Didime – vale a dire «la doppia», per le due colline parallele che vi sorgono, che corrisponde a Salina – e Hierà, la «sacra», che oggi si chiama Vulcano e dove gli abitanti già allora affermavano che sorgesse la fucina di Efesto.

Lo storico parla di un’incursione della flotta ateniese su queste isole. Saccheggiarono, ma se ne andarono lasciando le Eolie lì dove erano, ai margini della storia, però al centro delle rotte commerciali tra l’Italia e la Sicilia. Anche Virgilio nell’Eneide localizza nelle Eolie la fucina del fabbro divino, ma chiama l’isola con il nome latino del dio, e come poi sempre si chiamerà, Vulcano.

Efesto però non lavorava da solo, perché aveva molte opere da compiere; affidò l’officina ai suoi fidi aiutanti, i Ciclopi. Questi Ciclopi non sono i pastori selvaggi che Ulisse incontrò nelle sue peregrinazioni, ma i tre Ciclopi primordiali, nati all’inizio dei tempi, che costruivano i fulmini per Zeus e si chiamavano Arge, “l’abbagliante”, Bronte, “il tuono”, Sterope, “il lampo”.

Artemide

Quando Venere, dopo lo sbarco di Enea nel Lazio, arrivò alle Eolie per chiedere splendide armi per suo figlio – racconta Virgilio nell’Eneide – i Ciclopi stavano affannandosi come stacanovisti dietro a una quantità di opere da finire commissionate dagli dèi: le ruote per il carro di Marte, un fulmine per Zeus, lo scudo di Minerva. Ma prima che arrivasse Venere, era passata da quelle isole, molto tempo prima, un’altra dea: Artemide. Lo racconta Callimaco nell’Inno ad Artemide.

Era una bambina, però aveva idee molto chiare su quello che desiderava. Salì, piccola com’era, sulle ginocchia di suo padre Zeus e gli rivolse una preghiera: «Concedimi, papà, di conservare la verginità per sempre, dammi un corteo di sessanta Oceanine, tutte di nove anni, e di venti Ninfe, concedimi di dominare sui boschi e le selve». Zeus l’accontentò, allora volando nel cielo assieme al suo corteo di bambine Artemide andò a farsi costruire l’arco e le frecce nella fucina di Efesto, che però per questo poeta non era situata a Vulcano ma a Lipari, che allora si chiamava Meligunis.

Questo antico nome di Lipari viene probabilmente da una parola pregreca, anche se potrebbe forse significare “isola del miele”. Comunque Artemide incontrò lì i giganteschi Ciclopi che stavano lavorando per costruire l’abbeveratoio per i cavalli di Poseidone. Erano terribili a vedersi: alti come montagne, e nel mezzo della fronte si apriva un immenso occhio, grande come uno scudo di quattro pelli. A ogni colpo dei loro martelli tremava l’Etna, e il soffio dei mantici sibilava sino alla Sicilia e alla Corsica.

Così li immaginava la gente, tanto che quando una bambina faceva i capricci la madre le diceva: «Guarda che chiamo i Ciclopi», e lei piangente andava a rifugiarsi tra le sue braccia. Ma certo non potevano fare paura a una dea: in un attimo i laboriosi giganti lasciarono in sospeso l’abbeveratoio e le fabbricarono l’arco e le frecce, con cui sempre cacciò.

Le Eolie poi furono contese tra Romani e Cartaginesi, saccheggiate, ricostruite, ma tutto sommato prosperarono sotto l’impero di Roma sino alla sua caduta. Lipari, la capitale, continuò ad avere una certa importanza in un mondo impoverito, sinché verso l’VIII secolo una serie di eruzioni vulcaniche finirono per spopolarla. L’acropoli fu poi ricostruita dai Normanni e il castello medievale sorge là dove era l’acropoli. Scavi archeologici hanno ricostruito varie fasi della storia dell’isola, e i reperti fanno del museo archeologico di Lipari uno dei più importanti di Sicilia.

Maschere

Tra l’altro, il museo intitolato all’archeologo Bernabò Brea, che morì proprio a Lipari, contiene una serie di oggetti eccezionali, unici al mondo nel loro genere. Sono le cosiddette “maschere di Lipari”: più di mille volti in miniatura che riproducono maschere teatrali in uso tra il IV e il III secolo a.C. Erano modellate in argilla sopra un doppio calco, uno per il viso e uno per la testa. Venivano cotte e poi dipinte a mano. Sono state trovate in decine di tombe della necropoli greca: a Lipari era abituale, in quell’epoca, farsi accompagnare nel viaggio verso l’aldilà dai volti del teatro che formava in vita la grande passione della folla.

In ogni tomba sono state trovate maschere diverse, in genere della stessa opera, come se il dramma dovesse essere nuovamente rappresentato davanti agli occhi del defunto. In una sono stati trovati i personaggi dell’Edipo re di Sofocle, gli sposi incestuosi Edipo e Giocasta. In altre figure tratte da altre tragedie e commedie, note e ignote, come le Donne in assemblea di Aristofane e l’Ecuba di Euripide. Anche alcune delle matrici sono state ritrovate durante gli scavi.

Una volta estratte dalla matrice l’artista interveniva sull’argilla tenera della maschera, plasmandola: così ogni esemplare differiva dagli altri. Poi la maschera veniva cotta e infine dipinta: le maschere femminili con una vernice chiara, quelle maschili in ocra. Spesso erano dipinti particolari anatomici come occhi, pupilla, labbra, ciocche di capelli, barba. Alla fine della fase di decorazione le maschere erano cotte una seconda volta, per fissare il colore.

Così piccoli volti con la bocca aperta fissano il visitatore dalle vetrine del museo: satiri con le corna, visi rugosi e grotteschi di vecchi, donne e uomini con lo sguardo sgranato. E poi i tipi fissi di quella che i grecisti chiamano “commedia di mezzo”: il servo furbo, lo zerbinotto galante, la cortigiana… Nella buia fissità della morte questi volti allietavano il defunto con il movimento del teatro, nel caleidoscopio delle sue forme.

Perché queste mascherine erano deposte nelle tombe? La spiegazione più probabile è che onorassero l’invenzione di Dioniso, il teatro, di cui era il dio fondatore e protettore. E i culti misterici di Dioniso, diffusi negli ambienti dell’Italia meridionale, assicuravano che egli proteggeva e accompagnava le anime verso la vita eterna nell’Ade. Così questi oggetti erano un omaggio al dio, nella speranza che fosse benevolo con il defunto.

Il periodo longobardo

Prima di sprofondare nella decadenza dei secoli bui, le Eolie furono lo scenario di un’altra leggenda. La più antica testimonianza è quella di papa Gregorio Magno, nel cuore del VI secolo, quando già l’Italia era in buona parte nelle mani dei Longobardi. In uno dei suoi Dialoghi, Gregorio racconta che, durante il regno di Teodorico re dei Goti, un monaco che viveva in solitudine a Lipari ebbe una visione: gli apparvero due fantasmi, quello del senatore Simmaco e quello di papa Giovanni, entrambi messi a morte da Teodorico, che trascinavano in mezzo a loro il re seminudo e legato. Lo portarono a Vulcano, sin sul ciglio del cratere fumante e lo scaraventarono giù.

Proprio quel giorno, a Verona, la sua capitale, il vecchio re morì. Lo stesso re, con tutt’altra veste, è il protagonista di varie saghe germaniche, dal Canto di Ildebrando ai Nibelunghi, in cui Teodorico di Verona è Dietrich von Bern e compie mirabili imprese cavalleresche. Ma Teodorico era goto e ariano: perciò la sua figura nelle leggende italiane medievali si colora di tratti diabolici. Sicuramente, per i cattolici il suo destino è l’inferno.

Il testo forse più noto è La leggenda di Teodorico di Giosuè Carducci, una ballata in saltellanti ottonari. Teodorico, vecchio e stanco, sta facendo il bagno nella sua reggia di Verona, ed ecco che i servi gli annunciano trafelati che nei dintorni è comparso un cervo meraviglioso, con le corna d’oro. Il vecchio cacciatore si rianima e chiede il suo cavallo. D’improvviso gli compare vicino un cavallo sconosciuto nero e possente, con occhi di fuoco. D’istinto, Teodorico monta in groppa. Ma il cavallo anziché seguire le redini inizia a galoppare a rotta di collo. Teodorico non può scendere di sella, solo un servo cerca di stargli dietro per un po’, e Teodorico gli grida: «mala bestia è questa mia, / mal cavallo mi portò: / sol la vergine Maria / sa quand’io ritornerò». Non ritornerà, infatti: quel cavallo è il diavolo. E Maria non lo aiuterà: «altre cure su nel cielo / ha la vergine Maria: / sotto il grande azzurro velo / ella i martiri covria / ella i martiri accoglieva / de la patria e de la fé / e terribile scendeva / Dio sul capo al goto re».

Attraversano gli Appennini, varcano fiumi e arrivano sulla costa in faccia a Lipari. D’un tratto il cavallo si impenna e il re, volando per l’aria, viene sbalzato nel cratere. Mentre Teodorico precipita all’inferno, dal confine calabro compare, grande e luminoso nel cielo, un viso: quello del senatore e filosofo Boezio, che Teodorico aveva messo a morte.

non sono più, all’inizio del Medioevo, la terra dei venti o la fucina di Vulcano, ma l’ingresso dell’inferno che accoglierà per sempre il sanguinario re dei Goti.

da La Sicilia degli dei, una guida mitologica, Raffaello Cortina editore

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