Che gli italiani non leggano è convinzione diffusa, quasi un luogo comune. L’Italia, in effetti, è un paese ove si legge poco, ove non sempre si capisce bene ciò che si legge, e gli studenti stessi hanno scarsa dimestichezza con le parole dei libri. Non basta, perché quanti scrivono e pubblicano in italiano (facendo informazione o divulgazione scientifica, o anche occupandosi di fiction) faticano – oggi come in passato – a trovare una lingua “semplice”: una lingua pulita, diretta e facilmente fruibile.

Non sono problemi da poco. Padroneggiare male la propria lingua, stentando a spiegarsi con efficacia e capire ciò che dicono e scrivono gli altri, determina forme di esclusione sociale. E su un altro piano tende a favorire banalizzazioni e stereotipi, alimentando quelle verità virtuali senza fondamento reale e quelle “parole di nebbia” rilanciate anche dai social media.

Non è neppure un problema di oggi. La scarsa dimestichezza degli italiani con le parole scritte ha radici lontane. Si pensi al disagio e all’incertezza che a lungo hanno segnato, nella nostra penisola, le pratiche di lettura; all’analfabetismo come secolare piaga endemica; al divario tra colti e semicolti scavato nel tempo da una lingua scritta “bella e impossibile”. Pur radicati nel passato, tali problemi pesano ancora sul nostro presente; proviamo quindi a identificarne le cause.

Controlli e censure

Nel corso del Cinquecento i conflitti scatenati dalla Riforma protestante portarono drammaticamente alla ribalta il controllo dei libri e quello della cultura. Il timore dei disordini morali, politici e religiosi che potevano nascere dalla lettura determinò sorveglianza e sanzioni sempre più severe, che si estesero gradualmente dalle opere di religione a quelle di intrattenimento (novelle, poemi, commedie ecc.). La censura entrò allora a far parte dell’orizzonte quotidiano degli abitanti della penisola. La censura ma altresì l’autocensura, perché va rammentata anche la capacità dell’apparato diretto dal Sant’Ufficio dell’Inquisizione di orientare in profondo produzione e consumo di libri. Divieti e castighi agirono dall’esterno sulla condotta del pubblico, ma indussero al contempo forme di adattamento più sottili, che agivano sulle coscienze per tradursi poi in atteggiamenti e pratiche culturali. Pratiche che rimasero ben differenziate a seconda dei livelli sociali: mentre la minoranza colta, indotta all’autocensura, ripiegò negli esercizi poetici e retorici, nei gruppi popolari il clima di sospetto verso libri e sapere non autorizzati agì piuttosto a livello preventivo, minando la familiarità dei “semplici” con le parole scritte.

Il confronto con altre realtà permette di capire quanto le scelte religiose pesassero sui diversi destini dei paesi europei, scavando differenze destinate a durare nel tempo, con conseguenze oggi ancora visibili nei processi di alfabetizzazione e acculturazione.

Nei paesi protestanti l’intensa frequentazione della Sacra scrittura fu fattore non trascurabile per un’alfabetizzazione più precoce e diffusa, scoraggiata invece dalla chiesa controriformistica che vietò ogni lettura, anche parziale, della Bibbia in volgare, in base al principio secondo cui proprio da essa (o meglio dalle molte false interpretazioni) nascevano le eresie. Questo in piena Controriforma. Ma anche quando nel Settecento il papato romano avrebbe eliminato il divieto di lettura della Bibbia nelle lingue nazionali, l’inerzia delle antiche proibizioni continuò a produrre i suoi effetti, tanto che i più diffusi manuali di istruzione per i confessori ribadivano ancora in pieno Ottocento gli antichi e non dimenticati divieti del Concilio di Trento. Anche da questa radicale disparità discese il più largo uso delle lingue volgari, la maggiore consapevolezza dottrinale, la più frequente abitudine alla lettura individuale nel mondo protestante rispetto a quello cattolico.

Al timore delle eresie religiose si sommava quello dei disordini sociali nel popolo, un timore che spingeva a limitare fortemente l’istruzione dei ceti bassi e delle menti più fragili. Ai popolani e alle donne a lungo furono somministrate solo pillole di alfabetizzazione religiosa; un sapere ristretto che portava al riconoscimento di scampoli di testi già noti e memorizzati (come Catechismo e Dottrina cristiana) ma non necessariamente incoraggiava l’accesso ad altri libri, e tanto meno ne favoriva la piena comprensione. È significativo che intorno al 1850 il tasso di analfabetismo oscillasse fra il 10 e il 20 per cento in Scozia, Prussia e Svezia, di contro al 75-80 per cento di Italia e Spagna, superate solo dell’atavica Russia feudale con il 90 per cento.

Problemi di lingua

Ricordiamo anche la rilevanza della questione della lingua. Anzitutto la supremazia del latino come e lingua del sacro e della cultura, e il ruolo subordinato dell’italiano in ogni ordine di scuola. Poi la frattura tra una lingua parlata fortemente regionalizzata e una lingua scritta di alto tenore estetico-letterario: un modello definito a metà Cinquecento, controllato dall’Accademia della Crusca e quasi imbalsamato, come si trattasse di una “lingua morta”.

Tra il popolo la conquista di una lingua diversa dal dialetto fu lenta, e difficile il passaggio dal volgare “cencioso”, utile solo a decifrare testi minimi, a un italiano medio e comune. La lingua dei libri, diversa da quella usata per le scritture pratiche, rimase per secoli un marchingegno complicato ed esclusivo, un filtro che ostacolava l’accesso di gran parte della popolazione, anche alfabetizzata, a opere di politica, scienza e letteratura caratterizzate da uno stile elaborato.

La diffusione dei libri

Un dato ulteriore è la fragilità del sistema editoriale, che sempre nel corso del Cinquecento perse molte posizioni rispetto a concorrenti europei sempre più agguerriti. Librai e stampatori della penisola stentavano a intercettare nuove domande delle frange non letterate, come donne e giovani, e a farsi spazio in nuovi settori, come i romanzi o la divulgazione scientifica. Sopravvissero alla crisi soprattutto imprese di dimensioni ridotte e scarsi capitali, che campavano rispondendo alla domanda di un pubblico ristretto di eruditi ed ecclesiastici, e soprattutto offrendo scritture minime, di basso costo e poche pagine. Era in prevalenza un’offerta ripetitiva e poco qualificata, tra sacro e profano, tra lingua e dialetto: abecedari, catechismi, «libriculi, librettuzzi e libricciuoli», filastrocche, fogli volanti, almanacchi; che risultava però parzialmente accessibile anche agli incolti, se non altro attraverso l’ascolto della lettura altrui.

Strategie alternative

Anche la pluralità di fruizione va quindi tenuta in conto: la lettura collettiva, la recitazione, il racconto dei cantastorie, la memorizzazione di rime spiegano la fortuna avuta nella penisola dai poemi cavallereschi, dall’editoria teatrale e dai libretti del melodramma. Erano prodotti in bilico tra oralità e scrittura, capaci di arrivare dove analfabetismo, povertà e approssimativa conoscenza della lingua nazionale ponevano ostacoli altrimenti insormontabili. Ma si trattava di scorciatoie, che valevano poco di fronte alla sfida dei libri dal contenuto più complesso e dal ritmo meno orecchiabile.

Infine conviene valutare le posizioni di gran parte dei gruppi dirigenti della penisola, regolarmente schierati a favore di una cultura elitaria e di una lingua letteratissima, difese come ultimi baluardi di un glorioso passato entro un’Europa in cui progresso culturale e sviluppo economico parevano invece procedere di pari passo; quasi che nel nostro paese il ricordo dell’antica grandezza rendesse ancor più difficile affrontare il futuro.

Vale la pena tenerne conto, dal momento che formalismo retorico e particolarismo dialettale concorsero a disegnare un’Italia a lungo disunita, ove in pieno ’800 si fronteggiavano ancora, spesso senza capirsi, 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di poeti e accademici (P. Villari).


Marina Roggero è autrice del libro Le vie dei libri. Letture, lingua e pubblico nell'Italia moderna, edito da il Mulino

 

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