Quando Beppe Grillo faceva ridere e pensare anche un po’, se la prendeva con la tecnologia complicata, i videoregistratori con le diciture rewind e fast forward invece che avanti e indietro, e lanciava strali contro i telecomandi onusti di pulsanti come il cruscotto dello Space Shuttle: «Metteteci due tasti, uno verde con scritto “Acc”, e l’altro rosso con scritto “Sp”!».

Trent’anni dopo sono successe un po’ di cose. La prima è stata il passaggio, tutt’altro che indolore, dall’antenna analogica al digitale terrestre, complice la legge Gasparri del 2004 che ha portato innovazione ma anche un codazzo di polemiche, soprattutto perché ha finto di risolvere il problema dell’oligopolio e ha costretto un popolo di telespettatori dalle abitudini ultraconservatrici a familiarizzare con un oggetto estraneo come il decoder.

Che intanto, dai primi anni Novanta con Tele+ e Stream fino all’arrivo di Sky che ha incorporato entrambe, aveva lavorato per sovrascrivere l’opinione comune della famiglia media: di canone se ne paga uno solo, i canali della tivù vanno dall’uno al sei – al nove, per gli impavidi progressisti affezionati a Telemontecarlo e Odeon – e quella eccentrica padella che l’assemblea di condominio ha già bocciato più volte è così antiestetica che non passerà mai.

L’idea che il contenuto non si dovesse più adattare al contenitore né subire la tagliola della pubblicità o del collegamento con Montecitorio è stata una conquista della tecnologia. E il dibattito sul ruolo pubblico della Rai rispetto a questa nuova realtà, è necessario ma collaterale all’evoluzione dei sensi del telespettatore, che si sono affinati: oggi, seguire un evento sportivo su un canale a bassa definizione riporta alle dirette nebulose degli anni Ottanta. Sempre meno persone sono disposte a rinunciare all’HD mentre già si sta diffondendo la visione 4k e, dietro l’angolo, il suo doppio, l’8k, l’ultra dell’ultradefinito. Ma soprattutto la tivù a pagamento, in Italia, ha contribuito in maniera determinante a mutare il paradigma canonizzato.

Basta menù fisso

Se le generazioni precedenti erano abituate al menù fisso e rigidissimo dei palinsesti Rai-Mediaset, la crescita esponenziale dell’offerta televisiva ha creato una nuova generazione di utenza, non più passiva, e tendenzialmente armata di appetiti mostruosi. Ci sono spettatori che oramai reclamano il diritto soggettivo a non perdersi mai nulla, manco le inutilità, le prove, i retroscena o le pause, abituati come sono a telecamere accese ovunque e costantemente. Ma questo, la vecchia tivù non lo può offrire per propri limiti, non solo per miopia dei direttori di rete che tagliano ancora in segmenti orari ciò che lineare non è più.

In questo anno e mezzo di reclusione coatta, si sono verificati altri eventi non dappoco. Tim, che lavora per potenziare la banda larga in un paese che sconta arretrati cosmici, al di là della sua offerta TimVision si è alleata con Dazn, che è diventato l’editore che sta per trasmettere il campionato di serie A di calcio. In streaming. Per la prima volta il pallone italiano non sarà più presente, se non in quantità modiche e non in esclusiva, dov’è stato per vent’anni. L’antenna parabolica è hard e poco smart. Se piove o nevica, non si vede nulla. Se si esce di casa, non ce la si può portare dietro. Difatti fioriscono offerte che non sono più un surrogato smunto di ciò che è visibile tramite decoder, come è stato per SkyGo, ma riproposizioni di bouquet di canali per chiunque non sia disposto ad attrezzarsi alla vecchia maniera. Per la tivù di Murdoch è NowTv, per Mediaset è Infinity+. Per l’editore che ha acquistato i diritti delle Olimpiadi, comprese quelle di Tokyo nelle quali siamo immersi, è la piattaforma Discovery+.

Lo strappo tecnologico, evidente, ha sorpreso in fuorigioco chi non riesce a districarsi tra connessioni, scaricamenti di app, moduli di iscrizione, login, settaggi, proiezioni sul televisore del contenuto del telefono o del tablet. Ma il contraltare è potersi scegliere tutto ciò che a Tokyo si è visto correre, nuotare, saltare, lanciare, tirare, sparare, colpire, volare. Senza limiti di tempo e orario, riguardando a piacere e a volontà ciò che si è perso.

Un popolo di clienti

Certo, c’è anche chi in casa non ha manco una tivù adatta ai canali “normali”, tanto che il governo ha dovuto prorogare la data di passaggio dalla codifica Mpeg-2 al Mpeg-4 perché, al di là del tecnicismo, nella sostanza spegnerebbe la vecchia tivù a qualche milione di italiani che non hanno, non sanno di non avere, o non possono permettersi apparecchi moderni. Sono ancora tanti. Né si può pretendere che la popolazione dai 60 in su si sappia districare facilmente in un mondo che parla un linguaggio non suo. Ma la direzione è segnata. Ci si è guadagnata la possibilità di scegliere – pagando – cosa, quando, e dove guardare quanto aggrada.

Il contrappeso di tanta libertà è l’effetto collaterale di questi tempi, il telespezzatino. Il basket sta di qua, i motori di là; il programma comico piaciuto moltissimo durante il secondo lockdown, intitolato Lol – chi ride è fuori, è transitato di smartphone in smartphone per i soli abbonati ad Amazon Prime. Il servizio a pagamento di consegne celeri. E la stessa Amazon ha iniziato a rosicchiare, pure in Italia, diritti televisivi: dalla prossima stagione, a mo’ di esperimento, proporrà in esclusiva in Italia 16 partite del mercoledì sera di Champions League. Pure Disney ha aggiunto il simbolo +, e sotto quel marchio vende i propri programmi in autonomia. Idem per Paramount, plus pure quello, in arrivo tra qualche mese in Italia.

La prossima frontiera

La prossima frontiera di questo mondo in cui ci si fa il palinsesto da sé e in cui ciascun editore tende a confezionare e spedire a casa del cliente il suo prodotto come una consegna di cibo a domicilio, vien da pensare che sarà un metodo migliore dell’attuale per integrare le offerte e rendere più amichevole l’utilizzo delle piattaforme che trasmettono contenuti. Difficile dire come. I telecomandi delle nuove tivù stanno sostituendo, ai tasti coi numeri, i loghi degli editori. Certo è che disporre di tutta la tecnologia comunicativa del mondo, e doversi poi compilare una lista della spesa per raccapezzarsi su dove scovare cosa, e come accedere, e su quale dispositivo, con quale password crea impacci insensati. Congedata l’èra delle rubriche «Oggi in tv», talora servirebbe ingaggiare un consulente per districarsi in questa orgia di promozioni e di formule di abbonamento.

La grammatica della televisione è cambiata ma, finora, la rivoluzione ha sollevato una polvere fitta di partnership incrociate, sublicenze di contenuti, guerre dichiarate oppure sottotraccia e accordi tra detentori di diritti, abbonamenti autonomi da versare contemporaneamente a vari editori.

Con il risultato, talora paradossale, che un tempo non si potesse vedere ciò che ora è visibile, e che adesso si finisca col non poter guardare quanto si ha a portata di tocco sullo schermo, e solo perché non si sa dove sia.

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