«D’una città non godi le sette o le settanta meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda o la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere»
Italo Calvino


Le città moderne sono specchio del nostro passato e monito per il nostro futuro. Sono terreno di contraddizioni, spazi di frontiera, luoghi di visioni infrante e di proiezioni senza coraggio. Proprio qui, a discapito della natura, viene meno la concezione di ecosistema e prevale la centralità dell’uomo a danno perfino dell’uomo stesso, che perpetua uno schema dominato dalla logica del profitto e del consumo. È urgente ragionare sullo spazio urbano perché è proprio lo spazio urbano la chiave per ragionare sull’essere umano e sui possibili futuri del mondo.

Se ci risuonano le parole di Calvino, per cui il mondo è ricoperto da città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve, allora possiamo solo ambire a una rivoluzione, a una mutazione radicale e generativa. È nella trasformazione che le istanze di cambiamento della vita che conduciamo possono realizzarsi, ed è nella collettività che si manifesta la spinta capace di rendere possibile la metamorfosi.

Per questo diventa urgente generare occasioni di partecipazione, forme di comunità, di collettività, anche fugaci, transitorie, magmatiche, ma che ci permettano di riconoscerci parte di un sentire comune. Penso che riportare l’abitudine alla partecipazione, come azione attiva con un potere trasformativo, sia oggi una necessità in diversi ambiti della cultura, della politica e della vita quotidiana. Si può coltivare questa consuetudine anche attraverso piccole occasioni che, per quanto marginali, possono momentaneamente scardinare logiche passive o le seduzioni dell’isolamento. Da questa spinta nasce il desiderio di costruire uno spettacolo di circo partecipato a partire dall’opera di Calvino Le città invisibili.

Come autrice di circo sono costantemente in relazione con lo sguardo del pubblico, ma per questo progetto sentivo necessaria la collaborazione di spettatori e spettatrici e la loro invasione dello spazio scenico. Attivare la partecipazione è stato il mio obiettivo: non per rendere protagonista il pubblico, ma per portarlo a essere co-creatore e osservatore dell’opera medesima, invitandolo attraverso un’attivazione materica, tattile e concreta, a comporre un’installazione in continua trasformazione. Mi interessa rimettere il corpo al centro, condurre il pubblico alla relazione con un oggetto, guidare l’azione attraverso un linguaggio fisico che ci obbliga a riprendere in mano il contatto con la materia esistente, tangibile, qui e ora. Come succede nel circo, esercitare il corpo a contatto con le cose.

Il momento di partecipazione è un istante fragile, ma estremamente vivo, dove la finzione smette di esistere sulla scena e viene messa in atto una verità spogliata dall’artificio teatrale: si costruisce una collettività che si muove insieme con un inconsapevole portato poetico. Il pubblico entra nello spazio scenico utilizzando un codice dato e condiviso, il suo intervento è determinato all’interno di una regola e libero di muoversi nei confini della stessa, cosa che rende possibile lo svolgimento drammaturgico dando a ciascuna persona un potere narrativo. Mi interessa che il pubblico possa entrare perché invitato, attratto, curioso. In questo senso per me il gioco è la chiave della partecipazione: gioco non come costrutto strategico, ma forma primitiva di esperienza tattile, ripetitiva, immaginifica.

Il primo pubblico naturalmente disposto all’azione sono bambini e bambine. Sono loro a guidare la scena e le persone adulte potranno seguirli condividendo il gioco, o osservandoli come spettatori silenziosi in ascolto della loro partecipazione. È un’occasione di incontro su un terreno comune, una relazione d’arte. I bambini con la loro presenza e le loro azioni collettive diventano immediatamente costruttori di metafore, portatori di una visione sul presente e sul futuro, altrimenti impossibile.

È uno spettacolo per bambini?

È uno spettacolo per adulti fatto dai bambini?

È uno spettacolo che vuole creare dei ponti e un altro strumento per costruirli, oltre al gioco, è il circo. Credo che il circo possa dialogare con lo sguardo di un pubblico infantile e adulto e diventare chiave d’accesso per una comunicazione intergenerazionale, creando un tessuto d’incontro e stimolando un dialogo non verbale. L’assonanza percettiva provocata dal circo non è solo intergenerazionale, ma rende questo linguaggio accessibile e popolare contrastando il vizio dello spettacolo dal vivo quando si fa elitario. Costruisce invece una forma di comunicazione per tutti, senza doversi piegare all’etichetta dell’intrattenimento. Credo che oggi sia più che mai necessaria una forma d’arte che possa mantenere un dialogo aperto con un pubblico multiforme riuscendo a porre domande, costruire metafore, portare visioni.

Ampliare il panorama

Il circo contemporaneo, inteso come linguaggio di creazione, può attingere da molti campi del sapere e coltivare il confine con molte arti, contribuendo ad ampliare il panorama delle arti performative e ad abbattere l’autoreferenzialità sottesa a molte pratiche circensi. In questo spettacolo il circo si muove tra reale e utopia, entrando in dialogo con l’opera di Calvino, che nutre la nostra fantasia attraverso il paradosso, il ribaltamento dei piani, la scomposizione, la rappresentazione dell’impossibile. Concorre a creare uno spazio extra-ordinario. Mi interessa dare parole al corpo, sostanza narrativa al circo e costruire un’esperienza partecipata per continuare a nutrire quest’arte della scena che, pur mantenendo le proprie radici, cerca nuovi orizzonti e forme di espressione. Se consideriamo la relazione corpo-oggetto o corpo-corpo la matrice del circo contemporaneo, uno degli obiettivi di questa performance è creare un dialogo tra artisti e pubblico che rimetta in discussione le coordinate spaziali attraverso oggetti anche molto diversi dagli attrezzi propriamente circensi, per trasformare questa relazione in un’esperienza dialogica e proteiforme, capace di aprire nuove possibilità.

Lo spettacolo è un percorso itinerante e a ogni rappresentazione si compone con città differenti: Bauci, Leonia, Cecilia, Ersilia... Le scene, come costellazioni di un unico racconto, si dispiegano in spazi diversi, invitando il pubblico a una marcia, a una silenziosa migrazione alla scoperta della prossima città. L’itineranza ci porta a scegliere a livello progettuale di uscire dalla scatola teatrale per entrare in parchi, edifici industriali, fortezze, nutrendo il lavoro di infinite variabili.

Come un luogo di rappresentazione risuona all’interno di un altro luogo? Circo delle città invisibili tesse una narrazione che entra in relazione con lo spazio e i suoi abitanti per salvaguardare un tempo per domandarsi quello che è, quello che potrebbe essere e quello che vorremmo fosse il mondo.

Un terreno di dialogo

Per me la creazione non è un luogo solitario, ma un terreno di dialogo continuo e una possibilità di incontro umano e artistico generativo. Come Compagnia Quattrox4 costruiamo progetti a più mani e questo lavoro è nato da una riflessione condivisa con Filippo Malerba, sodale compagno creativo, e si è alimentato del dialogo con artiste e artisti con cui abbiamo la fortuna di lavorare Danilo Alvino, Lucia Granelli, Luca Lugari, Luca Torrenzieri, che hanno nutrito il progetto co-scrivendo l’azione scenica, e dell’ascolto del nostro tecnico Flavio Cortese, che ha stimolato la riflessione sonora. È cresciuto grazie all’incoraggiamento di Stefania Lo Giudice, alla vicinanza della storica compagnia di danza Sosta Palmizi, al sostegno di BAM di Milano e del Romaeuropa Festival di Roma e al contributo del ministero della Cultura.

Generare l’incontro è per noi una modalità di lavoro, ma è prima di tutto l’augurio condiviso per una rivoluzione possibile.

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