Alcuni riescono a ricordare solo qualche evento della loro infanzia, altri invece non ricordano nulla. La memoria legata agli eventi dell’infanzia è come una stanza buia dove, a volte, sembra di scorgere qualcosa, ma non è chiaro se sia realtà o frutto della fantasia
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Se è vero che non c’è memoria dei nostri primi tre anni di vita, mio figlio non ricorderà niente di tutto questo, pur avendolo vissuto. E visto che però ne resterà per sempre traccia nella sua corteccia cerebrale, per tutta la vita sentirà che da sotto qualcosa spinge per farsi ricordare, qualcosa che batte sotto la memoria, che vorrebbe trasformarsi in ricordo e che invece lui vivrà come una specie di presentimento. E che in realtà è successo tra il 2020 e questa primavera, tra l’Italia e il Texas, tra due primavere di fiori che urlavano promettendo rinascite cui nessuno ormai credeva più.
La cartina
Tra le prime cose che non ricorderà c’è una cartina dell’Italia incorniciata e appesa in cucina a due passi dai fornelli, e la sua richiesta, ogni volta perentoria, di starmi in braccio mentre preparo da mangiare. La cartina e le pentole, così come il mio passare mescolando da una padella all’altra, sono il primo tentativo di costruire un racconto dell’Italia per mio figlio da dentro una cucina texana. Cibo e geografia, due dispositivi facili da usare, lo stereotipo italiano come identità surgelata da passare al microonde e offrire a un bambino che chiede di mangiare.
La cartina l’ho presa da Paper Source, sulla Westheimer Road, e non era pensata come una cartina geografica. Mi fu venduta come carta da pacco appena mi sentirono pronunciare al telefono la parola “Amore”. Mi accompagnarono a una parete in cui erano esposte carte di ogni tipo, per avvolgere regali. Insieme a motivi floreali, mari e cieli sterminati, c’era l’Italia pronta da incartare. E così feci: l’Italia contenne quattro scatole di candele profumate e un’agenda Moleskine. Una volta a casa, finì dentro la cornice.
È ancora lì, la vedo anche adesso mentre scrivo. Allora, un anno fa, l’oceano si era appena chiuso, era ritornato una barriera naturale che non si poteva più passare. L’unico modo per dire a mio figlio che cos’era l’Italia, era mostrargli quella cartina appesa al muro. Non mi ero accorto, quando l’avevo stirata per metterla dentro la cornice, che era un’Italia di prima della guerra, quella che gli stavo consegnando. Trieste era ancora Austria, il mio Paese arrivava a Venezia, e poi moriva.
Il Friuli Venezia Giulia sarebbe stato annesso soltanto con la prima guerra mondiale. Poco male, mi ero detto, ci assomiglia, la figura è più o meno sempre quella, aggiungerà lui una regione e un secolo quando sarà grande. E così diceva “Italia” a modo suo mentre mi cresceva in braccio un chilo dopo l’altro, e io imparavo a fare tutto con il braccio destro, il sugo, la pasta al pomodoro, l’Italia da servire.
Gli europei
Intanto l’Italia restava oltre l’oceano e dentro lo schermo del portatile. Oltre l’oceano finiva chiusa in casa, in lotta contro il virus. Alle sei del pomeriggio si presentava sui balconi, cantava, poi rientrava dentro ad aspettare che passasse. Poi il tempo passò, l’Italia smise di uscire sul balcone e anche di aspettare. A Houston mio figlio vedeva teste di italiani dentro il monitor, li portava in giro per la casa come santi decollati, spingendo una sedia con sopra il computer dentro cui quelle teste pronunciavano il suo nome. I suoi due passaporti prendevano polvere tra i documenti, e fuori il Texas lo invitava a entrare in un racconto più facile da maneggiare. Una vicina, dopo averci visto camminare – in diverse formazioni, famiglia intera o, più spesso, padre con passeggino – un giorno ci regalò dalla veranda una tutina per nostro figlio. Lo fece rispettando i protocolli pandemici: la lanciò restando nel front yard, cadde sopra il marciapiede, e un’ora dopo le inviai la foto di un bambino vestito con una bandiera texana, taglia 6-12 mesi. Anche quella foto è ciò che non ricorda.
Noi eravamo gli ‘europei’ perché camminiamo e ancora oggi siamo tra i pochi a farlo in quella zona. Nostro figlio divenne il beniamino di Montrose. Il suo bilinguismo diventò l’attrattiva del quartiere, l’inglese della madre e l’italiano del padre. Da dentro le verande ci guardavano passare, come spettatori di una gara in cui non è permesso aiutare i concorrenti da vicino.
Dalla strada, nostro figlio dava prova della sua piccola babele. L’Italia cominciò così a comparirgli in bocca, e lui prese a maneggiare le cose non più solo con le mani ma avvolgendole dentro le parole. I cani erano americani ma abbaiavano in italiano. I gatti, italiani. Italiana era la luna, il mangiare – la “pappa” – e il dormire. Italiane erano le nuvole, gli alberi e il sole. L’orso rimase ostinatamente inglese, così come le civette, forse perché animale totemico di Rice, che è la ragione per cui viviamo qui.
Al suo vocabolario si aggiunsero poi i nomi dei poeti che con tanta precisa ostinazione defenestrava dagli scaffali: diceva “Dante”, “Baudelaire”, “Brodskij”, “Neruda”, “Simic”, “Montale”, “Pinsky”, prima di afferrarli. Poi li faceva cadere sul pavimento, innalzando disordinati monumenti poetici su cui poi inevitabilmente poco dopo sarebbe caduto aprendosi in un pianto disperato e fugace.
I poeti divennero così a tutti gli effetti parole non dissimili da “mela”, “biscotti”, “occhi”, “naso”, “leone”, “pasta” o “pizza”. Iniziò a nominarli tra le cose, a mettere Dante tra i biscotti, Montale tra gli animali che spostava per casa, Merwin tra un giaguaro, un elefante e Snoopy. Se gli chiedevamo che cosa facessero quei signori ammucchiati sul pavimento, diceva “poe”, per dire “poesia” - in italiano.
Dante e Brodskij usati da un bambino di un anno come un linguaggio, come un ponte per parlare con gli altri, furono l’evidenza di come tra la realtà e la sua negazione - così forte in quest’era pandemica - c’è sempre uno spazio libero, e quello spazio è per la poesia, cioè un fuoco fatto con le parole, immaginario costruito con l’alfabeto.
E del fatto che abbiamo lasciato e accettato che l’invisibile fosse prerogativa solo del virus, quando in realtà c’era un altro invisibile a portata di mano, ora ammucchiato sul nostro pavimento. Ed era, ed è, quello della letteratura, che dice che all’invisibile bisogna solo dare una lingua, agganciare un racconto, e allora quel visibile poi si vedrà. Parola di Dante.
Il viaggio
È per questa ragione in fondo che quella cartina sbagliata nella cornice è ancora lì, e che non importa se Trieste, lì dentro, fa ancora parte dell’Austria, se in cucina siamo ancora al 1916. E non importa nemmeno così tanto se l’Italia, ancora per un po’, resterà dall’altra parte dell’oceano a ricordarci che novemila chilometri sono un’infinità di terra e di mare.
Perché Dante e Baudelaire, ci hanno insegnato che il mondo si impasta con le parole ed è mondo davvero. Il mondo che vediamo col cuore non è né più falso né più vero di quello che vediamo con gli occhi. Brodskij è uguale a una mela, Simic è tanto concreto quando è concreto e reale un biscotto.
Ed è per questo che adesso siamo qui, la macchina è carica come è carica sempre quando dentro c’è un bambino alto meno di un metro. È stato nostro figlio a insegnarci come arrivare in Italia, anche se l’Italia per lui è poco più di un suono pronunciato spesso dal padre e una cartina sbagliata in cucina. L’Italia è invisibile, quindi ci si può andare. Mia moglie è seduta dietro con lui, ha un arsenale di giochi e di libri perché il tempo non trasformi il viaggio nell’incubo di un bambino annoiato.
In Italy
Basta avere un po’ di pazienza, faremo un po’ di soste, ma poi l’Italia prima o poi arriverà. Abbiamo visto che esiste, l’abbiamo trovata per caso su un’altra cartina. Sta a tre ore e mezza da Houston, direzione nord ovest. Basta prendere la 45 e guidare in mezzo al paesaggio. Saliremo verso Dallas. Il navigatore ci offre tre opzioni, passare per Waco è la più breve ma ci si mette di più.
Per cui saliremo su, prima costeggeremo Conroe, poi la Sam Houston National Forest. Quando vedremo Buffalo, vorrà dire che saremo quasi arrivati a Italy, Texas. Abbiamo visto un po’ di fotografie prima di partire. Abbiamo imparato che in quell’Italia che possiamo raggiungere oggi, ci sono i cavalli e le praterie. Gli uomini portano i cappelli come i cow boys, in strada corrono i pick up. Insomma, che non è troppo diverso da dove viviamo, da qua, che è in fondo quello che i poeti ci insegnano ogni giorno scrivendo.
Andiamo là per farci una foto. Nella foto ci sarà un bambino in braccio a suo padre, sotto il cartello di ingresso al paese. Ci sarà scritto “Italy” e forse io e mio figlio sorrideremo nella foto o forse no, non importa, ma la foto l’avrà scattata una madre americana, che avrà pensato che è più sensato, per lei, stare fuori dalla foto, per potermi prendere in giro.
Poi ci rimetteremo in macchina e guideremo fino a casa. E quella foto diventerà importante. Tra le cose che non ricorderà nostro figlio, a confondere ciò che è sogno, ciò che è presagio, e ciò che chiamiamo memoria ci sarà anche quella fotografia, e ci saranno queste parole che ho scritto. Che saranno l’evidenza, ancora, del fatto che dire il nostro nome è ogni volta come scrivere la prima riga di un poliziesco fatto solo di indizi.
Questo testo è stato letto a Multipli Forti Voci dalla letteratura italiana contemporanea ITALIAN LITERARY FICTION FESTIVAL a New York mercoledì 15 gennaio presso la Fordham University
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