Era uno che all’anagrafe aveva quasi tutti i dittatori del suo secolo. Benito, Franco, Giuseppe. Mancava solo Adolfo, ma sotto sotto, da fumettista, collezionista, appassionato raccontatore di aneddoti e maestro del surreale dentro e fuori dalla tavola, gli avrebbe fatto piacere completare la serie. Però sarebbe passato alla storia col cognome: Jacovitti – oppure “Jac”, al limite “Lisca di pesce” – che se ne è stato per quasi sessant’anni nell’angolo in basso, a destra della vignetta, vergato su una specie di tavoletta d’argilla.

Iniziava a disegnare da lì, da dove alla fine avrebbe messo la firma e, per non stare col pennino in bocca a cercare di farsi venire delle idee, cominciava a riempire lo spazio vuoto, senza sapere che direzione avrebbe preso la storia, di tutto ciò che gli veniva in mente. La vignetta si riempiva di salami, di piedi, di ossa, di vermi, di serpenti, di lumache; poi in qualche modo si formavano, sempre dal basso verso l’alto, i personaggi.

Non sapeva che espressione avrebbero avuto mentre gli tratteggiava le gambe a spillo e ne definiva le forme morbide e tondeggianti, segno che non avrebbe mai cambiato per tutta la sua carriera. Poi arrivava al volto, e a quel punto capiva: i personaggi si rivelavano per quello che erano senza che il loro creatore se ne rendesse conto.

Cowboy flemmatici con una tazza di camomilla alle labbra, anziane signore dotate di forza sovraumana, ladruncoli senza scrupoli inutilmente mascherati, belle donne formose, gangster in carrozzina, nativi americani ironicamente crudeli. Un’esplosione di tipi umani accatastati l’uno all’altro impegnati in interazioni che definire assurde sarebbe riduttivo.

Se un rapinatore imponeva alla sua vittima di tenere le mani in alto puntandogli contro un revolver, per esempio, lui non si limitava a eseguire, ma lo faceva alla lettera. E così le mani gli si staccavano dalle braccia e volavano via mentre quello, spaventatissimo, commentava: «Più di così, non posso!».

Buoni e cattivi

Il francobollo realizzato da Poste in occasione del centenario della nascita di Benito Jacovitti

Divideva il mondo in buoni e cattivi, ma anche i suoi cattivi non erano cattivissimi e quando colpivano un malcapitato (di solito per derubarlo) non gli facevano troppo male. «Il sangue non usciva mai», come ripeteva lui stesso.

E l’effetto ricordava un po’ quello della serie Looney Tunes, in cui gatti, topi e uccelli si rincorrono all’infinito senza prendersi e se per caso un coyote va a finire sotto un camion, ne esce comicamente ammaccato. I personaggi di Jac, più che altro, si facevano a fette.

Dal suo esordio, avvenuto a sedici anni nel 1939, tutti hanno cominciato a cercare di prendersi un pezzo di Jacovitti. La sua prima panoramica – prototipo di quelle “paginatone” piene di particolari, balloon accavallati e personaggi alle prese l’uno con l’altro senza darsi troppo fastidio – comparve sulla rivista Il brivido, pubblicata a Firenze, dove Jac, nato a Termoli, si era trasferito con la famiglia solo un anno prima.

Si intitolava La linea Maginot e non ne è rimasto ricordo pubblico, anche se è facile immaginarla. La guerra era alle porte e il fatto che un giovane fumettista ancora sconosciuto stesse già ironizzando in merito non poteva che sollevare le simpatie tanto degli interventisti quanto dei contrari. Chi provava a interpretarlo lo faceva a modo suo e senza troppi fatti sui quali basare la propria convinzione, perché Lisca di pesce non commentava, non prendeva parte, non si esponeva se non sardonicamente attraverso il suo lavoro. E anche così, era impossibile capire davvero che cosa avesse in mente.

È vero, per trent’anni, dal 1940 con il debutto di Pippo, Pertica e Palla, ha pubblicato i suoi fumetti sul Vittorioso, di stampo assolutamente e indubbiamente cattolico. E ha contribuito al successo delle agende Vitt, che senza di lui sicuramente non avrebbero incontrato la diffusione milionaria che hanno avuto. Eppure, e anche questa è una storia vera, quando nel 1977 l’editrice Maga gli propose di illustrare per i testi di Marcello Marchesi le posizioni del Kamasutra e di pubblicare un volume dal titolo Kamasultra e dalla copertina per nulla equivocabile, lui salutò i cattolici stringendo loro le mani e sorridendo felice al richiamo del nuovo, dell’inaspettato, del provocatorio. Quel solletico di frenesia che gli correva dalle mani lungo le braccia ogni volta che gli veniva un’idea per un nuovo personaggio, dalla signora Carlomagno a Cocco Bill, passando per Baby Rocket, Cip, Gionni Galassia, Zagar e Jack Mandolino.

Lo spirito che gli faceva vedere in ogni nuova occasione un’opportunità per spostare qualche passo avanti il traguardo dell’assurdo e dell’ironico di cui, da diabetico, si nutriva a piene manciate contento di non doversi attenere a nessuna delle diete che per tutta la vita gli furono imposte.

Ai fascisti bastava il suo primo nome per annoverarlo tra le proprie fila, mentre per la sinistra del Dopoguerra c’era il fatto che avesse contribuito a Linus e che Georges Wolinski lo encomiasse pubblicamente, oltre che una breve parentesi da vignettista satirico ancora oggi dibattuta. I moderati, per non sbagliare, lo definivano “anarchico”, che andava bene su tutto.

Restio alle etichette

La verità, però, lo voleva piuttosto restio alle etichette e per nulla interessato alla questione. Magari ci scherzava, ma lo faceva in privato e probabilmente con il segreto intento di intorbidire ancora di più le acque, invece che fare chiarezza su schieramenti nei quali, per quanto ne sappiamo, non aveva alcun interesse.

Esistono due tavole di un lavoro incompiuto intitolato Jacstory, che doveva essere pubblicato dalla Maga nel corso di una collaborazione cominciata ma naufragata immediatamente a causa del fallimento dell’editore, in cui per la prima e unica volta l’autore parla di sé. Ma non risolve la questione di chi abbia più diritto di arrogarsi le sue simpatie politiche e di schieramento. «Di parlare qui tralascio», scrive in didascalia della terza vignetta, che lo vede lattante in carrozzina, avvolto in un fascio littorio, spinto da una signora in fez e parannanza che inneggia DUX! DUX! DUX!, e intento a leggere un volume dal titolo Cappuccetto nero, «di quand’ero allora in fascio». Appena sopra è rappresentato un busto di Mussolini dallo sguardo torvo e dal sorriso amaro che porta sulla base l’incisione: “Io, quasi, quasi, me ne frego!”, come a esprimere, finalmente, la posizione dello stesso Jac. Ferma, inequivocabile, una volta per tutte decisa: completamente immune alla politica e ai credo.

Il resto dell’incipit di questa biografia che purtroppo non avrebbe mai visto la luce è dedicato al fumetto, unica sua fede, e si conclude con un amaro «Qui la storia non finisco, sennò chi paga il fisco?».

E così, non ne usciamo. O meglio, lasciamo la sentenza sospesa, come voleva lui, e possiamo forse smettere di parlarne.

Se è stato Hugo Pratt – un avventuriero tutto d’un pezzo, saldo come un blocco di granito, irremovibile come un masso erratico, inscalfibile e per certi versi inintelligibile – a dire «non è politica, sono storie, le leggono tutti», Jac ha fatto di meglio: ha preso lo stereotipo e lo ha ribaltato, trasformandolo nella materia per plasmare l’assurdità delle sue paginone affollate, nelle quali c’era spazio per tutti, dai balilla con il ciuccio in bocca, ai comunisti centenari. Senza simpatie particolari, senza favoritismi e, soprattutto, senza troppo senso, altrimenti non si sarebbero spiegati nemmeno i salami volanti.

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