Mi ha sempre incuriosito la mossa beffarda di Billy Idol (al secolo William Michael Albert Broad), il diavoletto biondo “punk” fiorito nei pieni anni Ottanta, che si attribuì il proprio nome d’arte torcendo il collo per grazia d’omofonia al nomignolo usato per lui dalla sua professoressa a scuola: Billy “Idle”, il pigro, fannullone irredimibile. Qui vedo, si parva licet, una scintilla joyciana: strappare alle parole ricevute, condivise a senso unico nel mondo comune, la loro forza di legge semantica, per trasformarle in qualcosa di meraviglioso con la vendicativa energia del comico.

Un rifiuto radicale 

Ma James Joyce scoprirà tardi l’ironia e il comico, verso i trentacinque anni, mentre scrive la sua opera fino ad allora più ambiziosa, Ulisse. A vent’anni, preparandosi a un agognato esilio dall’Irlanda insieme alla sua compagna Nora, è un tetragono polemista, in rotta con le convenzioni dell’immobile società irlandese dell’epoca, con il cattolicesimo rassegnato di sua madre e dei preti in cattedra, con l’ombra greve di uno stato coloniale e le sue violenze non solo linguistiche.

Dall’esilio orchestrerà il suo primo assalto alle reti che imprigionano e trattengono a terra il giovane artista che invece vuole volare verso libertà ignote: quell’assalto, partita metafisica mascherata da studio di costumi di provincia, si chiama Dubliners. Quindi, per Joyce, in principio c’è il No. Prima ancora di essere lo scrittore del “Sì”, quel monosillabo trionfale, esitante o indecidibile che nella fisicità pensante di Molly Bloom mette un punto a Ulisse, Joyce da giovane è stato un uomo del No, così come il Melville dello scrivano renitente Bartleby, o il Kafka che nella Metamorfosi fa proibire da Gregor Samsa l’entrata nella propria camera al padre.

Questo rifiuto radicale appare ascetico, in senso etimologico: è un esercizio che serve ad allontanare dalla mente le false immagini della vita come è accettata da tutti nella sua comoda costruzione conforme al “così va il mondo”, e a preparare la composizione di immagini nuove, nuova materia dalla vecchia maceria. Per questo il buio, la penombra serpeggiano nei primi racconti del dublinese, così come serpeggia il dubbio sui reali moventi umani e sulla vera natura di una persona o situazione, in attesa dell’epifania che la rivelerà.

In principio c’è il gesto di levare gli occhi a guardare in alto, verso la finestra di una casa notturna forse illuminata da spettrali candele, chiedendosi se in quella stanza ci sia un vivo o un morto. Il ragazzino che nelle Sorelle, racconto che apre Gente di Dublino, guarda dalla strada i vetri dietro cui giace il prete moribondo, o già defunto, è – come i suoi fratelli narrativi di Un incontro e Araby, trittico che fa da antiporta al libro – un interprete frustrato di segni altrui; privo di una guida adulta (dei grandi conosce solo le ipocrisie e i divieti), lasciato a sé stesso nel mondo esterno, non possiede il codice per leggere la realtà, interpretare un simbolo, una risata, il tintinnare di una moneta, un accenno fugace, forse erotico.

I segni

La riluttanza dei segni a farsi leggere lo imbarazza, lo mantiene al di qua di una soglia, eppure lo seduce. Lui non sa quale sia la colpa del religioso che lo danna alla follia, noi forse possiamo immaginarla. Ma i segni che tralucono non sono sigilli, sono vie aperte. Iniziare un racconto concentrandosi sulle perplessità del protagonista riguardo a parole che non conosce è per Joyce un modo per tracciare il profilo dell’ignoranza in cui tutti siamo immersi e che ci minaccia, ma pure per invitare il lettore a scoprire un cifrario – a dare un proprio ordine al caos delle percezioni prime. Joyce, già a vent’anni, non lavora a caso, lavora con il caso.

E dunque le parole misteriose in cui si sarà arbitrariamente imbattuto da piccolo, e lo avevano colpito, divengono fari di un’araldica futura: paralysis, gnomon, simony: sono questi i termini enigmatici su cui, alzando lo sguardo verso la finestra della casa del prete, il ragazzino protagonista delle Sorelle rimugina, e se è palese in essi l’addentellato evangelico, il lettore sottile sa che deve indagarne i margini: gnomone è l’indice metallico di una meridiana, che allude alla parte dell’ombra, ed è anche una figura del trattato di geometria di Euclide, ma inoltre, in senso figurato, un sunto, la sintesi di una disciplina (come lo Gnomon of The New Testament di Bengel); la paralisi rimanda forse alla guarigione del paralitico di Cafarnao nei Vangeli sinottici, ma si incarica di simboleggiare la colpevole stasi spirituale di un’intera città, dunque dell’umanità tutta; e la simonia è appunto il peccato di Simon Mago, che rende suo idolo il denaro credendo di poter comprare beni spirituali, come aveva ricordato Dante nell’Inferno («fatto v’avete dio d’oro e d’argento»).

Peraltro i soldi hanno un rilievo concretissimo in tutti i racconti joyciani, basti pensare alla monetina d’oro (una sovrana) che brilla nella mano di Corley alla fine di Due veri signori, strappata con scaltra blandizie a una serva, e che potrebbe alludere al potere inglese sull’Irlanda.

«Non resterò a lungo in questo mondo», diceva al bambino il prete impazzito delle Sorelle; è una frase che ricorda il Cristo evangelico, ma il protagonista aveva creduto “vane” quelle parole (idle). Lo stesso aggettivo tornerà nel finale a connotare il calice stretto al petto della salma (a dire il peccato d’ignavia, idleness?). Ma nel racconto joyciano non ci sono miracoli, nessuno assolverà il simoniaco dalla sua colpa, nessuno nel mondo privo di grazia di Dublino guarirà il paralitico, che sovrimprime il suo male a quello di un’intera città incapace di agire e affrancarsi dalle reti che la costringono.

Con questa tecnica di inversione del verbo sacro, potenziata dalle armi della parodia, Joyce anni dopo vivificherà tante immagini di Ulisse, a partire da quella inaugurale: la messa profana e buffonesca di Buck Mulligan sulla Torre Martello. Tale è il peso della traccia del sacro nella lingua joyciana (un sacro riportato al livello terrestre delle pozzanghere di birra sull’impiantito dei pub) che chi traduce non può non tenerne conto; non può non sentirsi tentato di volgere lay (verbo che indica il prete disteso nella bara) scrivendo che giaceva, come un Cristo invertito di segno, ma è buffo pensare che in inglese lay vuol dire anche ‘laico’. Iperletture, diplopie forzate?

Di queste vittorie segrete del contrario, di questi sgambetti in ombra al senso convenuto, Joyce già ora ne escogita parecchi. Poi, se pensiamo che the dead was laid è detto nel Vangelo di Giovanni (nella traduzione giacomiana) a proposito di Lazzaro, ci si apre una ulteriore strada interpretativa che porterà al fidanzato morto Michael Furey e alla sua epifania nel ricordo di una giovane moglie: è il memorabile racconto che chiude la raccolta.

Un tempo circolare

Riprendendo in mano Gente di Dublino per l’edizione annotata cui abbiamo lavorato per Il Saggiatore, io ed Enrico Terrinoni abbiamo tradotto in azione una metafora – e più: una visione del mondo – che lo stesso Joyce ha impresso nelle sue opere: quella di un tempo circolare capace di assottigliare le differenze tra alto e basso, dettaglio minuto e disegno cosmico, parola sacra e chiacchiera degradata. E di unire memoria e presentimento.

Abbiamo immaginato che quel ventenne di imperturbabile severità fosse già (in pectore) l’autore carnevalesco, irridente di Finnegans Wake, assalto definitivo ai confini del linguaggio. E dunque per una mente orientata in tal modo è ancora possibile compiere scoperte, capire che Joyce per tutta la vita (nella sua “altrobiografia”) ha sviluppato le sue complesse melodie a partire dalle stesse note ripetute e variate. Come such a beautiful corpse, espressione che nelle Sorelle ripete quasi un verso della canzone Finnegan’s Wake («Chi se la sarebbe immaginata, conoscendolo, una salma tanto bella»).

Qui è come se il giovane autore ricordasse il futuro, presentendo il libro a venire, scaturito proprio da quella canzone anonima. Ed è questa un’ispirazione profonda per chiunque voglia leggere i segni della storia. Non so se la letteratura possa o debba insegnare – proprio non ne sono sicuro – ma credo che possa ispirarci a decidere, facendoci aprire gli occhi e agire nel presente, smontando miti e idoli del nostro oggi: e penso soprattutto alla crisi ambientale, che è da tempo ineludibile. Forse l’uscita dall’incubo della storia umana è mettere mano – tramite il contagio collettivo dell’arte – a un’altra storia. Cominciare a immaginare un’altra storia è già decidere di scriverla.

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