Fin dall’inizio degli anni Ottanta Jeff Koons si interroga sulla società dei consumi, sulla mercificazione, sull’estetica degli oggetti che popolano il nostro quotidiano. Nuovi modelli di aspirapolvere esposti in vetrine di plexiglass; enormi riproduzioni in acciaio inossidabile specchiante di animali fatti di palloncini; oggetti senza valore, ma appartenenti alla biografia dell’artista, riprodotti su scala colossale; personaggi dei cartoon, come Popeye o Hulk, promossi a figure storiche da celebrare in monumenti; capolavori di arte antica riprodotti e arricchiti da sfere decorative da giardino: attraverso i suoi lavori, ripensando l’eredità duchampiana del readymade, facendo proprie alcune istanze dell’arte pop e appropriandosi di strategie della comunicazione pubblicitaria, Koons mette in discussione il confine tra linguaggio artistico e cultura popolare. La mostra Shine, adesso a palazzo Strozzi di Firenze (a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro) ripercorre quarant’anni della sua carriera.

Una strana celebrity

«Non penso mai in termini di cultura alta o bassa. Per me si tratta solo di accettare i nostri desideri, il nostro gusto, la storia di ciascuno di noi e le nostre preferenze estetiche, qualunque esse siano». Con queste parole l’artista racconta il suo lavoro a Massimiliano Gioni, autore del libro Il desiderio messo a nudo. Conversazioni con Jeff Koons, pubblicato da Johan & Levi, che riprende in buona parte i materiali presenti nel catalogo (Skira editore) della mostra Jeff Koons. Lost in America, che si terrà dal 20 novembre a Doha in Qatar, a cura dello stesso Gioni.

Gioni (Busto Arsizio, 1973), direttore artistico del New Museum di New York e direttore della Fondazione Nicola Trussardi di Milano, ha raccolto una serie di conversazioni avvenute con l’artista tra il 2018 e il 2021, attraverso le quali mette a fuoco alcuni temi centrali della sua poetica, come l’utilizzo del readymade, il rapporto con la pop art, la visione della società consumistica, la qualità feticistica delle opere, il desiderio in quanto motore della produzione e della fruizione artistica. «Credo fortemente nel desiderio» ­dice Koons a proposito di quest’ultimo argomento. «Credo nell’ottimismo e nel piacere delle cose, nella voglia di trascendenza e di godersi la vita, di ampliarne il più possibile l’esperienza».

Attraverso le sue domande e la sua lettura dell’opera, Gioni fa emergere una personalità complessa e sfaccettata, ben più articolata dell’immagine di iperbolica star del mondo dell’arte che spesso viene attribuita a Koons. «È uno di quegli artisti per i quali la biografia e la personalità si sovrappongono completamente all’opera» mi spiega. «Quella combinazione complessa di sincerità e sofisticazione che lo contraddistingue ne fa immediatamente un personaggio piuttosto unico, una strana celebrity, o comunque una figura nella quale realtà e finzione sembrano mescolarsi alla perfezione».

Un mondo post-umano

Uscendo dalla retorica dell’artista più famoso e più pagato del mondo, Gioni sottolinea come il lavoro di Koons si inserisca pienamente nella tradizione del Novecento, il secolo dell’oggetto e della merce, ma anticipi anche il carattere senziente e performativo degli oggetti e delle macchine parlanti che ci circondano oggi. «Da una parte è una fiaba alla Disney e dall’altra la premonizione, ormai avveratasi, di un mondo post-umano, nel quale Koons disperatamente cerca di confermare la presenza di un po’ di umanità».

Balloon Dog (1994-2000), per esempio, riproduce in acciaio colorato specchiante e su scala monumentale un cane di palloncini intrecciati, proprio come quello che un clown confezionerebbe alla festa di compleanno di un bambino. Più che trattarsi di un’illusione, l’opera si riferisce a qualcosa di molto reale e umano: come il nostro corpo si gonfia ogni volta che respiriamo, così i palloncini vivono di aria, ma, prima o poi, finiranno inevitabilmente per sgonfiarsi.

«È per questo che riproduco i miei gonfiabili in acciaio, per renderli permanenti, immortali» spiega Koons. «I gonfiabili rappresentano la vita e la morte. Sono oggetti esterni al nostro corpo e prodotti artificialmente, ma è come se rappresentassero qualcosa che è dentro di noi, il funzionamento del nostro intestino o delle viscere, per esempio, il nostro respiro; qualcosa di molto profondo e intimamente legato alla comprensione che abbiamo della nostra stessa esistenza».

Cose di pessimo gusto

A proposito di visione dell’esistenza, il libro sottolinea come per l’artista il mondo in cui viviamo sia perfetto così com’è: l’universo è completo e ci si può trovare tutto quel che serve, a patto di saperlo guardare, apprezzare e accettare. Quest’idea di compiutezza del tutto «è per Koons una specie di mantra motivazionale» mi racconta Gioni, «un vangelo che ha a che vedere, più che con l’opera stessa, con un atteggiamento nei confronti del mondo. Ma in realtà quella logica è incarnata in ogni lavoro e in ogni dettaglio. La cura maniacale per raggiungere il massimo della perfezione è necessaria per fare sentire allo spettatore che l’artista si sta prendendo cura di lui e dei suoi desideri».

Non si tratta solo di dare al pubblico ciò che vuole, ma di spingerlo a comprendere i meccanismi attraverso cui gli oggetti, artistici o meno, agiscono su di lui. Nelle parole dell’artista, «lo scopo non è costruire icone consumistiche, ma decifrare il motivo per cui certi oggetti di consumo vengono glorificati».

Per indagare questo meccanismo, Koons spesso parte da “cose di pessimo gusto” (Gioni sceglie le parole del poeta Guido Gozzano per descriverle) e le trasfigura in opere d’arte, come nella serie Luxury & Degradation, nella quale per esempio la statuetta di uno strano golfista pescatore, in origine un kit da barista, comprata in un negozietto a New York, viene replicata dall’artista e trasformata in oggetto disfunzionale per superare se stesso (Fisherman Golfer, 1986). «Credo che, attraverso l’opera d’arte, a qualsiasi oggetto sia concessa la possibilità di elevarsi a un livello più alto» afferma Koons. E poiché ciascuno di noi è cresciuto circondato da oggetti simili, magari conservati a casa della nonna o nei cassetti dell’abitazione dell’infanzia, quel linguaggio parla a chiunque: attraverso la trasformazione da oggetto di pessimo gusto a opera, l’artista penetra la coscienza collettiva e comunica alle persone.

Qualcosa di ascetico

Attingere a questo genere di oggettistica è uno dei modi attraverso cui Koons mette in pratica la sua filosofia di accettazione del mondo. Il readymade è il semplice accoglimento, senza giudizio e al di là del gusto personale, di ciò che è disponibile: «Ogni cosa è già presente, bisogna soltanto aprirsi e accogliere. Gli oggetti sono perfetti come sono». Il readymade per Koons è la salvezza incarnata: un processo di transustanziazione, in cui ciò che è senza valore si trasforma in qualcosa di sacro.

La perfezione dell’universo, il desiderio di accettare il mondo e sé stessi, il percorso per comunicare tutto ciò attraverso l’arte: c’è qualcosa di ascetico nel lavoro di Koons, dice ancora il critico, «il che forse è paradossale quando si pensa al fatto che di solito viene visto come il cantore del lusso più sfrenato. A me a volte sembra uno strano monaco buddhista più che un venditore porta a porta, come spesso viene invece considerato». Nelle opere, c’è sempre qualcosa che invita a superare la materialità per avvicinare un’altra dimensione, per fare un’esperienza di trascendenza, il che è particolarmente evidente di fronte ai lavori in acciaio, come Rabbit (1986), il già citato Balloon Dog o Tulips (1995-2004): chiunque si rifletta su una di quelle lucidissime superfici finisce in qualche modo dentro il lavoro stesso, supera la barriera dell’oggetto attraverso il rispecchiamento.

È un tema centrale, e infatti l’immagine che Gioni mi propone per sintetizzare l’opera di Jeff Koons è “specchio, specchio delle mie brame…”. Si tratta infatti di un lavoro «sul desiderio e la vanità, un’opera sugli oggetti d’affezione e sul ruolo che le cose interpretano nella nostra vita, diventando ricettori e amplificatori delle nostre aspirazioni, dei nostri desideri, delle nostre ambizioni di appartenenza, status e anche afflato spirituale e bisogno di trascendenza».

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