Quando si scrive, tra le varie cose, si decide come posizionarsi rispetto a una forma di superstizione primitiva. Questa è una semplificazione e, come di norma accade con le semplificazioni, considereremo due correnti principali senza troppe sfumature nel mezzo.

Da una parte mettiamo chi crede nella scrittura come esorcismo delle proprie paure. Dall’altra mettiamo chi teme che scrivere di una determinata cosa contribuirà a evocarla.

A vederla in modo più crudo, questa è la differenza tra fare e non fare, tra scrivere sul serio e non scrivere. È anche la differenza tra avere paura e non farne niente e avere paura, ma farne qualcosa.

Della sua personale paura, la scrittrice (saggista, giornalista, sceneggiatrice) Joan Didion, ha fatto tutto il fattibile.

Lo ha fatto in anni e in modi che un po’ fanno venire voglia di gettare la spugna, la penna, il computer, qualsiasi cosa comporti il rischio di scrivere una riga in più.

Quantomeno, dovrebbero far venire voglia di chiedersi ogni volta che ci si guarda allo specchio: ma io ce l’ho un briciolo di quel rigore? Se si è dotati di senso della misura e delle proporzioni la risposta tendenzialmente sarà no.

Poi, però, toccherà tornare a lavorare nel miglior modo che ci è concesso. Come adesso che sta per finire il Duemilaventuno, Joan Didion è morta da una manciata di ore che messe insieme fanno una manciata di giorni, e mettere in ordine i pensieri non sembra un orizzonte di facile raggiungimento.

FILE - In this file photo taken Monday, March 28, 2011, the Pioneer Memorial, dedicated to the Donner Party, is seen behind snow cleared from the parking lot at the Donner Memorial State Park at Truckee, Calif. A pair of backcountry endurance athletes who became obsessed with the Donner Party spent the last seven years researching and exploring the Sierra on foot to try to pinpoint the final 90-mile route the only survivors of the tragic tale of cannibalism, murder, and mayhem finally cut through mountain snowdrifts to safety in the winter of 1846-47. Now, four veteran ultrarunners from Northern California are setting out on snowshoes to retrace the footsteps of the pioneers who braved the worst blizzard in a century to escape the horrors over the top of what's now called Donner Pass through the Emigrant Gap. (AP Photo/Rich Pedroncelli, File)

Donner party

Ce lo ha raccontato con le parole scritte nell’autobiografia Da dove vengo e ce lo ha raccontato con la viva voce, Joan Didion. The center will not hold, documentario Netflix del 2017 a lei dedicato: la Didion bambina è cresciuta ascoltando i racconti che parlavano del Donner party.

È verosimile che, nella storia, poche persone abbiano avuto famigliarità col concetto di orizzonte di difficile raggiungimento come i membri del Donner party.

È un nome che nel vecchio continente rievoca poco, mentre oltre oceano vuol dire mitologia dell’orrore, tanto più forte dal momento che si tratta di una storia di pionieri e di migrazioni. Soprattutto, si tratta di una storia vera.

La spedizione Donner è composta perlopiù da famiglie con bambini e, con la sua fila di carri, parte dall’Illinois nella primavera del 1846 alla volta della California.

La decisione di tentare una scorciatoia non segnata nelle mappe li porterà a rimanere bloccati sulla Sierra Nevada per tutto l’inverno. Degli ottantasette membri ne sopravviveranno solo quarantotto, provati dalla fame, dal gelo, e costretti dalle contingenze a praticare atti di cannibalismo.

Anche gli avi di Joan Didion sono arrivati in California migrando come i pionieri del Donner party. Addirittura viaggiarono insieme a loro, e condivisero la strada fino a un momento molto preciso: quello in cui la spedizione dei Donner decise di prendere la sventurata scorciatoia, e le compagnie si divisero.

Pare che Joan Didion abbia iniziato a scrivere a cinque anni, ma non nel senso di ricalcare l’alfabeto e poi formare le parole casa, albero, cane; pare che a cinque anni abbia iniziato a scrivere i primi racconti e che questi fossero permeati da atmosfere facilmente definibili come orrorifiche.

Nascevano da una sua particolare sensibilità, o propensione? Non possiamo saperlo, ma quelle storie di pionieri dai destini appesi a un soffio, così stranamente intrecciate a quelle della famiglia della sua bis-bis-bisnonna, forse le hanno lasciato il gusto per le ombre, e una prima traccia di consapevolezza di cosa vogliano dire le parole bivio, caso, coincidenza, destino, ineluttabilità. Altro che casa, albero, cane.

Joan Didion quando scrive ha delle ossessioni, delle immagini e situazioni feticcio che sembrano tornare per forza di cose. I serpenti. Le emicranie.

L’impressione è che le piacciano molto gli oggetti. Il pezzo di appliqué in calicò rosso e verde con cui la bis-bis-bisnonna affrontò la traversata in carovana fino alla California. Il profumo di classe e i cappelli da adulta che le regalava la nonna.

Gli effetti personali di chi è morto, restituiti in una borsa di plastica. Le pile di libri che non si possono più toccare. Oggetti che contribuiscono allo sforzo impossibile di «impedire ai morti di morire» per tenerli con noi.

E poi c’è l’abito da sposa. È il 2005 quando ne L’anno del pensiero magico (in Italia pubblicato da Il Saggiatore come tutte le sue opere in traduzione) scrive che il suo abito da sposa era corto e di seta bianca, «comprato da Ranohoff a San Francisco il giorno in cui John Kennedy era stato ucciso».

Poi, come se niente fosse, descrive la cerimonia e il rinfresco. Infine, prende a parlarci della figlia: «Avevo pensato a quel matrimonio il giorno del matrimonio di Quintana. Anche il suo matrimonio era stato semplice».

Lutto

Un approfondimento molto godibile sulle vicende del Donner party, se di approfondimento godibile si può parlare in questi casi, si trova sul canale YouTube Ask a mortician. Il video che la necrofora, tanatologa e scrittrice Caitlin Doughty dedica a questa storia si apre con un paesaggio innevato, e una voce fuori campo che le chiede «mangeresti una persona?».

Lei risponde «no, non ora. Ma chiedimelo tra tre o quattro settimane, e forse potrei farlo». Caitlin Doughty è nata nel 1984, e fa parte di quella schiera di persone che – di lavoro – racconta la morte e il lutto in un modo abbastanza nuovo, laico, rispettoso ma pragmatico.

È ancora una nicchia e forse lo rimarrà, ma la letteratura prodotta da chi parla della morte e del morire al di fuori degli ambienti strettamente accademici o religiosi si amplia, e non solo negli Stati Uniti.

Questo panorama fino a dieci anni fa era abbastanza inimmaginabile. Non fosse che Joan Didion lo faceva già diciassette anni fa, per prima, da autrice insuperabile, operando sulla sua stessa pelle e analizzando i suoi lutti privati.

Lo faceva proprio con L’anno del pensiero magico, memoir (ma che fatica rassegnarsi a incasellarlo) sull’anno in cui Didion ha perso sia il marito che l’unica figlia.

I lutti si sono succeduti a breve distanza l’uno dall’altro, con un gioco di sovrapposizioni di eventi, attimi di apparente salvezza e precipizi improvvisi. Poteva essere un destino inaccettabile. Non fosse, forse, per la scrittura. Elaborazione in questo caso è un termine riduttivo.

Servirebbero altre parole e sarebbero comunque insufficienti.

Trascendenza tecnica, mi verrebbe da dire. Venirne fuori restandoci dentro, aggiungerei. «Leggi, impara, datti da fare, informati. Essere informati significa non perdere il controllo», scrive Didion mentre spiega come funziona la dilatazione delle pupille nelle persone in arresto cardiaco.

Ovvero, mentre descrive quello che succede al marito, John Gregory Dunne, mentre il personale sanitario tenta vanamente di rianimarlo. È chirurgica, ma non è fredda.

Salta da precise descrizioni dei corpi a rievocazioni di momenti trascorsi con la famiglia; dal parlare del suo lutto alla testimonianza di quello altrui; da considerazioni personali al riportare estratti de L’uomo e la morte dal medioevo a oggi di Philippe Ariès.

Cita saggi, testi storici e manuali di psicanalisi, prende l’accademia e la mette a disposizione di chi quelle cose magari non le avrebbe lette mai. Lo fa per sé stessa, funziona anche per gli altri.

Pray as it lays

Kiss them for me è un singolo del 1991 della band new wave Siouxsie and the banshees. Quelli della new wave sono fatti così, personaggi strambi, a cui tra le varie cose piace ragionare di morte mentre intorno impazzano le luci strobo e un’illusione di vita eterna.

Kiss them for me è un omaggio a Jayne Mansfield, biondissima attrice statunitense che cercava di rivaleggiare con Marilyn Monroe. Di quel che è accaduto a Marilyn, sappiamo. A Mansfield non è andata meglio.

Actress Jayne Mansfield is greeted as she arrives at the Shape international service club near Paris, France, Oct. 11, 1957. Mansfield is visiting soldiers, sailors and airmen of the 14 NATO Nations on duty at Shape. (AP Photo)

È morta nel 1967 in un terribile incidente stradale, nell’impatto morirono anche il compagno e l’autista, mentre i tre figli si salvarono.

Si diffuse la voce che nello scontro l’attrice fosse rimasta decapitata. Non era vero, ma le ultime immagini del videoclip di Kiss them for me mostrano una testa di manichino – con una chioma mora come quella della cantante ma acconciata in stile Mansfield –, volare nell’acqua di una piscina a forma di cuore.

Per un incrocio di ragioni e suggestioni, tutte senz’altro ingiustificabili, la storia di Mansfield e le note di questa canzone mi fanno pensare a Pray as it lays di Joan Didion.

Pray as it lays non è un saggio, non è un reportage narrativo, non è un memoir. È uno dei suoi cinque romanzi. Viene pubblicato nel 1970 e il lutto (che non è solo morte fisica) sta in ogni pagina.

La protagonista è una trentunenne di nome Maria e a un certo punto le muoiono i genitori, ma Maria è soprattutto un’attrice fallita, che va via da un paesino talmente inutile da smettere di esistere, che viene internata e allontanata dalla figlia.

Una bambina con non meglio specificati problemi di salute, a cui mettono degli elettrodi sulla testa. Nel 1970 Quintana Roo Dunne aveva quattro anni, era stata adottata che ancora era in fasce.

Pray as it lays non è il libro migliore di Joan Didion, ma scrivere una storia così è esattamente farne qualcosa della propria paura.

Meteo

La notte dell’incidente i figli di Jayne Mansfield sono rimasti orfani. Se a morire fossero stati loro non ci sarebbe stata una parola di uso comune per definire la condizione della madre sopravvissuta.

Quando Joan Didion perde il marito diventa una vedova. Nel momento in cui le muore la figlia non c’è una parola che riesca a definire il più terribile dei lutti. Per definire una perdita così innominabile non bastano libri interi.

La scrittrice e poetessa danese Naja Marie Aidt nel suo Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo (Utopia 2021) scrive della morte del figlio Carl.

Utilizza anche pezzi di diario, testi di sms, biglietti, tutto quello che può servire e che non basta mai. In più di un punto osserva quanto accade nel cielo, ma in un senso molto più concreto che spirituale.

Aidt, guarda il meteo. «Mentre cercavamo una tomba per te al cimitero, c’era un’eclissi solare. Quando oggi abbiamo visitato la tua tomba, nel giorno del tuo compleanno, c’era una tempesta di neve. Quando soffrivo per te come se dovessero strapparmi il cuore dal petto, si è levata in cielo una luna rossa e nera. Era il 27 settembre di quest’anno».

Ne L’anno del pensiero magico la morte di Quintana viene toccata, ma non sondata. Questo compito enorme toccherà a Blue nights, che uscirà solo nel 2011.

«Questo libro si intitola Notti azzurre perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio», scrive Didion, che spiega cosa sono esattamente le notti azzurre, che colore danno al cielo e a quel che c’è intorno, in quale punto preciso della giornata (della fine della giornata) si collocano.

Authors Joan Didion, left, and her husband, John Dunne, are shown during an interview in their Malibu home, Ca., in December 1977. Didion made the best seller list with her fourth book, "A Book of Common Prayer." Dunne recently made the list with his book "True Confessions." (AP Photo)

«La mattina della morte di John Kennedy nel 1963, stavo comprando un abito corto di seta per il mio matrimonio. Qualche anno dopo, a una cena a Bel Air, questo mio abito fu rovinato da Roman Polanski che per sbaglio ci rovesciò sopra un bicchiere di vino. Anche Sharon Tate era a quella cena, sebbene lei e Polanski non fossero ancora sposati», il libro da cui sono tratte queste righe è The White Album, raccolta di saggi che viene pubblicata nel 1979, ventisei anni prima de L’anno del pensiero magico.

Una sera, dunque, l’abito da sposa di Joan Didion viene macchiato dal vino di Roman Polanski. Un’altra sera di qualche tempo dopo, nel 1969, sua moglie Sharon Tate viene uccisa dai seguaci di Charles Manson nella strage di Cielo Drive.

L’anno successivo Didion intervista Linda Kasabian, una delle accusate del crimine. Trascorre molto tempo con lei, e su sua richiesta sceglie «il vestito con il quale avrebbe iniziato la sua testimonianza sugli omicidi».

Didion scrive di questi incontri e quello scritto finirà in The White Album. Ne scrive e vede distintamente i bivi, le coincidenze, i casi, le ineluttabilità che legano due vestiti. Forse crea tutto con la sua testa di scrittrice, non è importante.

Il pensiero magico consiste nel ritenere, anche di fronte all’evidenza e contro a qualsiasi logica, che la morte dei propri cari sia un processo reversibile.

Consiste anche nel vedere coincidenze e segni dove non ci sono, come la morte di una scrittrice avvenuta il 23 dicembre (diciotto giorni dopo il suo ottantasettesimo compleanno, due giorni prima della data di ricovero della figlia, sette giorni prima della data di morte del marito).

Certamente creiamo tutto con le nostre teste e a prescindere dal mestiere che facciamo, non è importante. La trama dell’abito da sposa macchiato da Polanski si è intrecciata con quella del vestito scelto per un’omicida.

Ventisei anni dopo si è snodata in un altro libro, slacciata dal ricordo del matrimonio di Quintana; tutto questo, purtroppo e per fortuna non è magia, è mestiere.

Didion ha dichiarato in modo molto esplicito di voler sempre «venire a capo del problema dell’autocommiserazione», e l’opera di una vita forse si fa anche rinunciando ad avere pietà di sé.

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