Joan Didion è morta. È morta una delle più importanti scrittrici contemporanee, autrice di romanzi, sceneggiature, saggi personali, articoli, figura fondativa del New Journalism, per molti Nobel mancato, intellettuale pubblica tra le più influenti degli Stati Uniti.

È stata questo, Joan Didion, e molto altro: ma è stata anche una voce fondamentale nella formazione di un’intera generazione di scrittori e lettori in Italia, una generazione tra i trenta e i quarant’anni, quella di chi verso la fine del primo decennio del XXI la scopriva attraverso la traduzione del suo Anno del pensiero magico (il Saggiatore, 2008), il memoir in cui racconta la morte del marito, lo scrittore John Gregory Dunne, a cui nel corso degli anni seguiranno gli altri suoi titoli, a cominciare dalle sue due fondamentali raccolte di saggi e reportage Verso Betlemme e The White Album (pubblicati sempre dal Saggiatore).

Quello che volevamo fare tutti

Amavamo Joan Didion perché faceva quello che volevamo fare tutti nel modo in cui non lo faceva nessuno. Nel modo in cui in Italia nemmeno si immaginava tanto bene si potesse fare. Scrivere senza il pensiero del romanzo (ne pubblicò anche lei, ma di certo non verrà ricordata per quelli), della storia inventata, di quell’attrezzone ingombrante che sono i personaggi, il plot, gli archi narrativi che forse si possono insegnare ma che di certo non avevamo più voglia di leggere, tanto meno di scrivere.

Non ne avevamo voglia per un motivo molto semplice: non era eccitante. Quello che era eccitante, quello che ci appariva nuovo, era il modo in cui scriveva lei, le forme che ci aveva fatto conoscere, a cominciare dal personal essay, il saggio personale breve, in cui una porzione di mondo viene raccontata facendola passare attraverso l’esperienza di chi scrive.

Le pagine che per prime mi tornano alla mente quando penso a Joan Didion, sono quelle di “Bei tempi addio”, un personal essay del 1967 (poi raccolto in Verso Betlemme) dove, proprio mentre sta per abbandonare New York e tornare dopo molto tempo sulla West Coast, ricorda i primi anni in città, poco più che una ragazzina a inizio carriera nelle riviste femminili: «Facile vedere l’inizio delle cose, più difficile vederne la fine».

Dovessi dire perché mi tornano in mente quelle pagine è proprio per la loro eccitazione, per il senso di scoperta continua, di giovinezza, una postura verso il mondo che la sintassi della Didion riesce a dare come una studiatissima improvvisazione jazz: «una delle tante benedizioni di avere vent’anni, o ventuno e persino ventitré è la convinzione che, nonostante tutte le prove del contrario, a nessuno è mai successo niente di simile».

Ma forse anche perché protagonista è la città, è New York, e Didion è stata una poetessa straordinaria delle città, ultima erede di una tradizione segreta di flâneuse. Anche in questo stava la sua grandezza o il suo fascino per noi: capivamo che sapeva raccontare la città in cui eravamo immersi, qualsiasi essa fosse (soprattutto poi se era solo un ipotesi, un desiderio per noi provinciali), e lo raccontava facendola risuonare nel ricordo, nell’esperienza.   

Quello che non faceva nessuno

Tutte le categorie letterarie più interessanti oggi, quelle che anche in Italia iniziano ad avere circolazione e riconsocimento, come il saggio narrativo, il personal essay, la narrative non-fiction hanno a un certo punto nel loro albero genealogico Joan Didion.

Anche l’autofiction: Didion è sempre stata interessata ai miti, alle narrazioni fondative, a quelle della sua California prima di tutto, a quelle degli Stati Uniti poi, è quindi inevitabile che si dedicasse fin da subito al proprio di mito, alla costruzione del proprio personaggio. E questo più e meglio di tanti altri, ad esempio di Carrère di cui lei le è superiore per consapevolezza stilistica.

E poi lei lo faceva sulle riviste, sui giornali, in un modo molto diverso da quello del letterato italiano medio, dagli intellettuali che leggevamo fino a quel momento (e che di colpo precipitarono nel novecento per non uscirne più, una volta che la scoprimmo): Didion non pensava di salvare il mondo, tanto meno di correggerlo.

Ma il mondo la interessava, la incuriosiva: dietro quella faccia impassibile, quella postura distratta, c’era la curiosità per il mondo. Una curiosità che ci concede il coraggio (l’esergo di Verso Betlemme è una frase di Peggy Lee: «Ho imparato il coraggio da Buddha, Gesù, Lincoln, Einstein e Cary Grant»), o meglio ancora: il rispetto di sé.

Il rispetto di sé

«Una volta, in una stagione secca, scrissi a grandi lettere su due pagine di un quaderno che l’innocenza finisce quando veniamo privati dell’illusione di piacere a noi stessi. (…) La triste realtà è che il rispetto di sé non ha niente a che fare con l’approvazione degli altri che, in fondo, sono abbastanza facili da ingannare; non ha niente a che fare con la reputazione che, come disse Rhett Butler a Rossella O’Hara, è una cosa di cui chi ha coraggio può anche fare a meno».

Quando “il centro non regge più”, come dice W.B. Yeats nella poesia da cui viene la frase “Verso Betlemme”, quando tutto cade a pezzi e vivi da sempre in un mondo fatto di rovine, in un Paese, gli Stati Uniti, che si trasforma e decade da quando sei nata come un disastro al rallentatore, la tua stella cometa, quella che dovrai sempre tenere d’occhio, è il rispetto di sé.

C’era in lei, costante, un’etica della frase, della parola giusta, direi soprattutto del ritmo, un’etica del ritmo della frase che ci rappresentava, che ci appariva giusta, desiderabile. Didion ha iniziato, dopo l’università, uno stage a Vogue, a New York. Barattò la possibilità di seguire le sfilate a Parigi con l’assunzione alla fine dello stage. Ci lavorò molti anni, a fare lavoro di redazione, scriveva articoli il più delle volte non firmati, di servizio, e didascalie.

«Non mi interessa molto la spontaneità, non sono una motivatrice. Ciò che mi sta a cuore è il controllo totale» disse una volta. Nell’intervista alla Paris Review ricorda il lavoro con la caporedattrice dell’epoca, Allene Talmey: «Ogni giorno andavo nel suo ufficio con otto righe di testo o una di didascalia di qualcosa. Stava lì seduta e faceva dei segni con una matita arrabbiandosi molto per le parole di troppo o per i verbi che non funzionavano». In un profilo del 1979 dedicato a Didion, il New York Times intervistò proprio la Talmey: il suo metodo era chiedere alla Didion una didascalia di tre o quattrocento parole che insieme avrebbero ridotto a cinquanta. «Scrivevamo lungo e pubblicavamo breve, ed è stato così che Joan ha imparato a scrivere». Giovani, appuntatevelo sul taccuino. 

Orecchio assoluto

«È l’orecchio il giudice morale supremo?» Didion è una scrittrice di ritmo, la sua voce è come uno strumento riconoscibilissimo (anche in traduzione) che lei è capace di modulare con un controllo assoluto. Ad esempio descrizioni atmosferiche, quasi astratte e molto emotive, come il senso di un incombente apocalisse californiana, precedono, la riga dopo, scene precisissime piene di dettagli realistici. È questa alternanza di dettaglio realistico e sentimento atmosferico, di piccolo e grande, di breve e di ripetuto a intessere la musica incantatoria della sua pagina.

«Come scrittrice, anche da ragazzina, molto tempo prima che quello che scrivevo cominciasse a essere pubblicato, a poco a poco mi formai l’idea che il significato stesso fosse insito nel ritmo delle parole, delle frasi e dei paragrafi, una tecnica per nascondere quello che pensavo o che credevo, qualunque cosa fosse, sotto una vernice sempre più impenetrabile».

Poi è vero che era diventata un’icona negli ultimi anni, quando non un santino, poster girl, pubblicità vivente a sé stessa più che a Céline (il marchio di moda per la quale aveva posato, vecchissima e stilosissima come sempre). Ma di certo non è stata colpa sua. È stata la risposta alle nostre preghiere, quelle che recitiamo ogni giorno sui social nella speranza di crederci interessanti come lei: no, non lo saremo mai.

https://twitter.com/MaxKilworth/status/1474073574097002496

Vero, era diventata la sagoma che finisce sulla borsa di tela del festival letterario, la foto in bianco e nero su tumblr pieni di velleità. Ma dio solo sa quanto abbiamo bisogno di modelli adesso, quanto bisogno ne avevamo prima ma adesso ci servono in un modo da togliere il fiato, adesso che non sappiamo nemmeno se torneremo mai a scrivere davvero, a riempire taccuini con la nostra versione dei fatti, a viaggiare, a incuriosirci, a amare e farci sedurre, a bere un whisky sour soli e disperati e felici nei bar, adesso che non sappiamo se torneremo a collezionare sinonimi, a cercare aggettivi, adesso che Joan Didion è morta.

© Riproduzione riservata