In principio, come tutti sappiamo, succede questo: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto». Dell’incipit de La metamorfosi (1915) non è tanto il fatto in sé a colpirci – un uomo tramutato in insetto (secondo le competenze da entomologo di Vladimir Nabokov un coleottero) – quanto l’assenza di stupore del narratore nel raccontarcelo. In questa mancanza di stupore nasce l’Assurdo, che è precisamente quel dispositivo letterario che prende alla lettera un evento fantastico pur tenendo per buono un paradigma realistico (altrimenti sconfineremmo nel campo del Fantasy, ciò che Tzvetan Todorov chiamava Meraviglioso).

La trasformazione di Gregor Samsa in un insetto è assurda proprio perché non se ne contestano le ragioni, anzi le si omettono, dandole per scontate. Allo stesso modo non si riesce a mettere in discussione l’omicidio per futili motivi compiuto da Meursault ai danni di un arabo la cui sola colpa sembrerebbe quella di passeggiare sulla spiaggia di Algeri, nell’altro grande capolavoro dell’Assurdo, Lo straniero (1942) di Albert Camus (futili motivi è come dire senza un motivo).

I due scrittori, fissando idealmente i due picchi estetici della corrente, sembrano volerci dire che la realtà non è meno reale perché è assurda, anzi, tutto il contrario, che bisogna studiare l’assurdo in quanto tratto peculiare della realtà, con cui l’umanità dovrà fare i conti. Ma un’etichetta – seppur accurata – può bastare a esaurire Kafka?

Tutto sommato chi scrive senza trama se viene capito può essere smesso di leggere. Cos’è dunque che spinge Kafka oltre le sue scoperte, al di là delle sue stesse innovazioni? Uno scrittore è fatto in egual misura da ciò che pianifica consapevolmente e da ciò che veicola inconsapevolmente. La parte che non smette di parlarci, e che vale la pena di leggere o rileggere, in Kafka è quella che tocca il rapporto tra realtà, inconscio e rappresentazione letteraria.

L’inconscio

Il titolo del suo primo romanzo, Il processo (1925) oggi fa subito pensare a un antesignano legal-thriller. Invece narra di un uomo, tal Josef K., che una mattina viene posto in stato di arresto e informato di essere imputato in un processo, senza tuttavia essere messo in grado di difendersi, perché non è conoscenza dei capi d’imputazione. Questa difesa impossibile preleva Josef K. dal tribunale e lo depone in un posto molto meno ospitale, dentro di sé (e quindi di noi). Leggiamo l’attacco de Il castello (1926): «Era tarda sera, quando K. arrivò. Il villaggio era immerso in una spessa coltre di neve.

Non si riusciva a vedere la collina, nebbia e oscurità la circondavano, neanche il più debole bagliore di luce indicava il grande Castello. K. rimase a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al villaggio, e guardò su, nel vuoto apparente». Questo inizio si avvale di un impianto apparentemente convenzionale – naturalistico, da romanzo gotico – che però nello svolgersi dichiara il suo stesso scacco: stiamo andando in un posto in cui dovremo usare soltanto gli occhi della mente. In sei righe l’aria semantica del buio fa il pieno: sera, spessa coltre di neve (perché anche se bianca, la neve copre), nebbia, oscurità, debole bagliore.

È chiaro che ci stiamo addentrando nell’unica realtà a cui Kafka tenga davvero, quella dell’inconscio con i suoi simboli. C’è una realtà solida, nominale, che può essere enunciata e messa in bella prosa, e c’è una realtà aleatoria, innominabile, che non potrebbe a rigor di logica essere enunciata e messa in bella prosa. A Kafka interessa solo la seconda, se è vero che a un certo punto del romanzo si dice che «il Castello ha molti ingressi. Ora è in voga l’uno, e tutti passano di lì, ora l’altro, e il primo è disertato. Secondo quali regole avvengano questi cambiamenti non s’è ancora potuto scoprire».

Si potrebbe fare lo sbaglio di pensare a Kafka come uno scrittore allegorico, ma un’allegoria è una figura retorica per mezzo della quale l’autore esprime un significato riposto, diverso da quello letterale. In Kafka non c’è nessun tentativo di stratificare il proprio materiale narrativo, non c’è qualcosa di immediatamente visibile e sotto qualcos’altro di più profondo, anzi ci si muove attraverso il procedimento opposto, ciò che è profondo viene fatto emergere, viene messo tutto sulla pagina a discapito del resto. In Kafka, in un vertiginoso negativo di un’allegoria, è il mondo così come lo conosciamo a inabissarsi.

Neanche la categoria dell’onirico ha molto senso – cioè scambiare Kafka per un De Chirico o un Savinio delle lettere, uno che abbozza gelatine e marshmallow in mezzo ai flutti – proprio perché la sua scrittura non è mai sognata. Non si assiste a una trasfigurazione di elementi realistici, bensì all’esattezza di una realtà che è connaturata al sogno, che è fatta della stessa materia di un incubo. Per la stessa ragione Kafka ha potuto ambientare il suo ultimo romanzo America (uscito nel 1927, in verità è il suo primo) al di là dell’oceano, non solo senza il bisogno di esserci mai stato, ma anche senza provare nessun tipo d’imbarazzo rispetto alla mancata “documentazione” sul campo.

Kafka crede solo all’interiorità, mentre è terribilmente circospetto nei confronti della realtà. O meglio, non la vede là dove la vedono tutti – in primis i suoi colleghi, che del realismo hanno fatto da sempre il filone letterario egemone (al cospetto del Processo o del Castello, L’iliade è film di Rossellini o, peggio, un documentario di Alberto Angela) - la disloca in un altro posto che in genere è ritenuto oscuro e ai limiti del dicibile: l’inconscio. E forse la sfida letteraria di Kafka è proprio questa, vedere dove c’è più buio, trovare le parole laddove la lingua si inceppa.

Realismo particolare

È faticoso, è da smettere. E Kafka smette, infatti, a più riprese, non capendo che in questo modo completerà al meglio la sua opera, gli darà un senso perfettamente compiuto nell’incompiutezza, forgiando quell’aggettivo “kafkiano”, che nel tempo verrà usato non del tutto erroneamente come sinonimo di una situazione paradossale, ingarbugliata, impossibile. Kafka sarebbe stato meno Kafka se avesse finito i suoi lavori, se le sue uniche narrazioni concluse non fossero state dei brevi racconti. È il prezzo che ha dovuto pagare per portare sopra la soglia della rappresentabilità il non rappresentabile (l’inconscio), e sotto ciò che in genere viene rappresentato (il mondo).

Kafka non credeva a quelli che si divertono. Tutta la sua vita esteriore, quella di uomo impiegato in un lavoro triviale quanto comune, è stata consumata nella fatica di mettersi al riparo dalla felicità. Essere felice, per Kafka, sarebbe equivalso a ripristinare un rapporto banale tra realtà, inconscio e rappresentazione letteraria: la realtà sarebbe tornata a fuoco, e l’inconscio sarebbe precipitato di nuovo in cantina. «La fedeltà all’esigenza dell’infelicità» la chiama il critico Maurice Blanchot, entro cui andrebbe pensata tutta la sua sfera biografica, dal rapporto conflittuale con il padre ai travagli amorosi con Milena Jesenská. Kafka è uno scrittore realista, ma di un realismo particolare che appartiene solo a lui, quello secondo cui l’inconscio è l’unica realtà rappresentabile.

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