Ogni volta che dormo in un albergo, penso a Karl Lagerfeld. I miei, di alberghi, hanno prese lontane, interruttori scomodi, luci fredde che rendono tutto brutto. Gli interruttori e le prese di Lagerfeld, invece, erano posizionati in modo impeccabile. C’era qualcuno che li testava per lui, perché la vita perfetta è una somma di dettagli accurati, e Lagerfeld se l’era costruita senza alcuna sbavatura. A suon di cattiveria.

Il 18 febbraio del 2019, prima di addormentarsi per l’ultima volta nell’ospedale americano di Parigi dove è ricoverato per un tumore alla prostata (lui ha dichiarato al pancreas, lo trova più fine), dice ai medici: «È incredibile possedere tre Rolls-Royce e finire in una camera schifosa come questa».

Il 19 febbraio, la sua gatta birmana Choupette ­– la sola presenza con cui accettava di condividere il letto e la vita – dà l’addio a papà Karl dal suo profilo Instagram. Scrive di avere il cuore spezzato, ma le lacrime le vengono delicatamente tamponate dai membri dello staff (governante, guardia del corpo, medico e cuoco) che Lagerfeld si è premurato di garantirle per la vita.

«Deve essere stato molto solo», commentano inteneriti in molti. Altri pensano a Madame de Gli Aristogatti, domandandosi se Choupette erediterà l’immenso patrimonio, e mentre fioccano omaggi e tributi dal mondo della moda, arriva uno schiocco di frusta. L’attrice Jameela Jamil scrive su Twitter: “Uno spietato misogino e grasso-fobico non dovrebbe essere osannato su internet come un santo scomparso troppo presto. Era talentuoso, ma non una brava persona”.

Non era una brava persona

Jamil ha ragione, Lagerfeld non era una brava persona ed era certamente grasso-fobico.

Durante un’intervista, quando gli chiedono cosa pensa della scelta di una rivista femminile di pubblicare “donne reali” al posto delle modelle, risponde: «Avete madri grasse che mangiano patatine sedute di fronte alla televisione e dicono che le modelle magre sono brutte. La moda è sogni e illusioni». Anche lui è stato una madre grassa che divorava salsicce (suo cibo preferito), arrivando a pesare 102 chili. Poi, nel 2000, è sparito per tredici mesi ed è riapparso in passerella come un cavaliere sfuggito dalle ombre cinesi, dichiarando: «Ho perso 40 chili per indossare un completo di Hedi Slimane».

Lagerfeld ha creato il suo personaggio: completo nero come gli occhiali, indossati anche di notte, capelli bianchissimi raccolti in una coda, mezziguanti (odia toccare ed essere toccato), camicia con il collo alto a nascondere le rughe e lingua biforcuta.

Non pensa bene di nessuno. Dice cose come: «I tatuaggi sono orribili: è come vivere tutto il tempo con addosso un abito di Pucci», o «C’era una stilista che sosteneva che i suoi abiti venissero scelti solo da donne intelligenti. Naturalmente è fallita». Si diverte a spargere fiele sul mondo.

Andando a ritroso nel tempo, è facile individuare lo scheletro di questa durezza in un’infanzia nuda d’affetto che ha come sfondo la campagna tedesca, a quaranta chilometri d’Amburgo. La sua data di nascita è incerta (1933, o forse 1938), ma è certa la freddezza della madre Elisabeth: dopo un anno di lezioni di piano inutilmente impartite al figlio, gli chiude il coperchio della tastiera sulle mani: «A suonare non hai talento, meglio che disegni, almeno non fai rumore».

A cinque anni Lagerfeld – che già alterna con grande stile i completi tirolesi a delle camiciole di seta per la notte – inizia a disegnare abiti con cui rivestire un futuro dove smetterà finalmente di sentirsi bambino, condizione che trova umiliante. Trasforma la mortificazione in corazza, e cresce proteggendo la sua solitudine. Lo farà per tutta la vita, prediligendo amori incorporei e considerando obsoleto il matrimonio, perché: «É stato creato quando le persone morivano a 30 anni. Ora la gente si sposa a 30 e deve vivere per altri 60 anni».

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