And now, the end is near. And so I face the final curtain. Vedendo le immagini di Jürgen Klopp solitario dentro un Anfield vuoto, lo stadio del suo Liverpool, prima dell’ultima partita e poi dell’addio, annunciato lo scorso 26 gennaio, sembrava che dovesse partire Frank Sinatra che canta My way, invece è rimasto da solo e in silenzio diventando l’ultimo quadro postumo di Giorgio De Chirico. Una statua al centro del campo, un puntino tra i sediolini rossi.

Dietro, intorno, ma soprattutto su quel campo c’erano nove anni alla guida del Liverpool, vincendo tutto quello che c’era da vincere dalla Premier League alla Coppa di Lega, dalla Community Shield alla Champions League fino alla Coppa del mondo per club. Adesso che il lavoro è finito, la missione compiuta, prima che tutto si sfilacci, a un attimo dal logoramento, ancora una volta Klopp ha anticipato la mossa, scartando di lato senza cadere. In questi anni è stato il protagonista insieme a Pep Guardiola: il suo Liverpool e il Manchester City del rivale hanno cambiato la Premier e influenzato il calcio mondiale, ma Klopp a differenza di Guardiola ha conservato l’inquietudine da ragazzo, preservando la possibilità di fuga e di sogno.

Se Guardiola è un grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, Klopp è Sal Paradise di Jack Kerouac: a un certo punto sente il bisogno della strada e deve andare. Era successo anche a Dortmund. E ora che sta lasciando l’Inghilterra, per dire del suo addio, bisogna tirare dentro anche il suo maggior avversario, o almeno l’altra parte del campo e del suo starci dentro. Hanno cambiato la Premier e la Premier ha cambiato i loro sistemi di gioco, rendendoli migliori. Hanno dovuto fare i conti con la fisicità estrema e si sono dovuti dotare di sistemi d’attacco diversi.

È curioso che entrambi arrivassero in Inghilterra dalla Bundesliga. Ed entrambi hanno fatto passare la loro evoluzione dai terzini condizionando il resto del pallone. Con linguaggi diversi hanno sistemato le proprie geometrie rispondendo al caos del calcio contemporaneo, costruendo squadre di controllo, equilibrio e assedio differenti e contrapposte. Tanto che se è vero che Guardiola dormirà meglio, è anche vero che perde il suo maggior avversario, quello che dice: «il Gegenpressing è il miglior regista del mondo», l’addensarsi» (pressing sul pallone) e «distendersi» (in contrattacco). E poi Klopp è impossibile da odiare, perché lavora tantissimo nel rapporto con gli altri, tanto che gli scatti d’ira di Mohamed Salah sulla linea laterale durante la partita contro il West Ham lo hanno ferito profondamente.

Ma erano il sintomo della sua giusta visione: era tempo di lasciare. Anche se resterà a lungo nell’immaginario di Liverpool, dove c’è un pub a suo nome – Jürgen's Bierhaus – in Brunswick Street, nel centro della città, e un murale gigante all’ombra di Anfield, dove Randolph Street incontra Burnand Street si trova il suo volto che con immancabile cappellino in testa e gran sorriso campeggia sull’intera facciata di una casa: e nei giorni delle partite centinaia di persone vanno a vederlo e rimangono a fissare l’immagine ripercorrendo partite, rimonte, titoli e scattandosi selfie.

Il covid

Ora che tocca misurarne il vuoto, Liverpool si accorge ancora di più della sua importanza, come aveva scoperto durante i mesi più duri della pandemia la sua grande umanità e il suo senso di responsabilità. Klopp si trasformò – per pura coscienza civile da tedesco progressista alla Werner Herzog che s’innesta su Arrigo Sacchi – in un testimonial del vaccino e in un conforto calcistico ed extracalcistico per gli ammalati, dando vita al suo lato più clownesco, l’uomo ha una grande ironia e per questo anche una grande serietà che diventa severità e fermezza quando gli eventi scivolano nel tragico. Poi certo tragicità e Boris Johnson non possono stare insieme senza il registro del ridicolo, ma Klopp e molta parte dello sport inglese durante la pandemia hanno saputo mostrare la parte ancora bella del mondo britannico, quella che sopravvive nei film di Ken Loach e si oppone allo sfascio.

Insomma, anche l’Inghilterra ha scoperto quello che in Germania sanno benissimo: poteva tranquillamente guidare la sinistra tedesca, un sindacato, fare il ministro o il cancelliere, è probabile che sappia poche cose ma tutte giuste e per gli addii ripete: «Niemals geht man so ganz» («Nessuno se ne va mai completamente»). Dentro c’è la capacità di cambiare, il rigenerarsi, senza dimenticarsi, riuscendo a evolversi. Buddha e Lutero con sottofondo metal. Non a caso quando arrivò a Dortmund dopo le montagne russe al Mainz (le due sole squadre che ha allenato oltre il Liverpool), usarono la sua immagine per la campagna abbonamenti e il risultato fu assurdo: la notte prima dell’apertura delle vendite, la gente si accampò fuori dagli uffici della squadra.

Racconta Freddie Röckenhaus della Süddeutsche Zeitung – che si era occupato del precedente disastro finanziario del Borussia – che quei cartelloni erano come quelli di una campagna elettorale: «Avrebbero potuto tranquillamente dire “Vota Merkel” e invece dicevano “Vota Klopp”. E la gente lo fece». La campagna si interruppe a 49.300 per lasciare qualche biglietto ai dipendenti. Un risultato assurdo che dice tantissimo di Klopp, uno che va oltre il quanto, perché lavora sul come. Se ti diverti il tempo passa veloce, e pure le sconfitte sono più dolci.

Quanto piange

Lui parla di «fail beautifully» («magnifico fallimento»). Alto che spaventa, tutti dicono della sua altezza al primo incontro, una caratteristica alla quale ci si deve abituare, come se fosse un grattacielo, e poi c’è la sicurezza, la stabilità e la risolutezza, cui seguono la capacità di organizzare gli spazi in modo arioso, e la maestria tra verticalizzazioni e orizzontalizzazioni, in pratica descritto così sembrerebbe un’opera di Ludwig Mies van der Rohe, ma è solo «Kloppo». Che potrebbe essere un monte, vista l’altezza; un utensile, per la propensione artigianale; un sasso per la compattezza; sempre qualcosa di molto solido e ben fatto. Ma poi sorride o piange. Forse solo Maradona in pubblico, nel mondo del calcio, ha pianto tanto. Klopp ha anche singhiozzato e arringato le folle.

Un Burgermeister (borgomastro), oltre che un allenatore. Singhiozzava e arringava per la prima volta per l’addio al Mainz dopo 19 anni, 11 da giocatore e 8 da tecnico, e gli otto da tecnico erano tutti velocissimi in pressing e verticalizzazioni: come se i Metallica avessero giocato la Bundesliga. E si pianse molto, come se partisse la primavera, come accadde dopo i sette anni a Dortmund e come si piangerà molto a Liverpool dopo la partita col Wolverhampton, l’ultima. «Kloppo» esce da Foresta Nera – avrebbe detto Vujadin Boškov, che lui ricorda nell’approccio al calcio, con sincerità, che poi entra nel cuore anche degli avversari: tifosi e calciatori – e invade i campi, in un percorso inverso da quello teorizzato da Ernst Jünger in Der Waldgang: passare al bosco, entrare in clandestinità, operare sul territorio, sostenuti dalle comunità residenti, come guerriglieri ribelli. Klopp non entra in clandestinità, ma fa tutto il resto: opera benissimo sul territorio col sostegno delle comunità e agisce come guerrigliero sul campo, portando scompiglio: un nuovo linguaggio, dei nuovi movimenti, una nuova occupazione degli spazi che hanno trascinato il Liverpool, attraverso un calcio indimenticabile, a macinare vittorie e titoli. «Danke Jürgen».

Perché al leader di una band heavy metal che decide di lasciare dopo anni di divertimento e grandi concerti, dici solo grazie, mentre sorridi e ti scendono le lacrime.

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