Quasi ovunque in occidente. è passata l'idea che la transizione è esteticamente brutta, culturalmente minacciosa, un’aggressione al bello. È un problema particolarmente sentito in Italia, anche perché abbiamo il paesaggio al mondo più carico di senso culturale.
Ormai è quasi un’ovvietà, ma vale la pena tornarci, perché in questo snodo c’è uno dei grandi tasselli mancanti nella lotta ai cambiamenti climatici. Quasi ovunque in Occidente, l’opposizione locale alla transizione viene portata avanti dai difensori dell’integrità del paesaggio, con associazioni e comitati che combattono battaglie locali contro l’energia pulita a difesa di colline, montagne, coste, litorali.
È passata l’idea che la transizione è esteticamente brutta, culturalmente minacciosa, un’aggressione al bello. È un problema particolarmente sentito in Italia, anche perché abbiamo il paesaggio al mondo più carico di senso culturale.
In un certo senso il nostro paese, con la sua transizione lenta al punto da essere estenuante anche perché ferocemente ostacolata dal basso, è una specie di laboratorio su come rispondere a un dilemma che solo le democrazie hanno, quella del consenso culturale al cambiamento.
Mentre la Cina può dispiegare la sua volontà di potenza rinnovabile senza chiedere il permesso a nessuno (365 GW di rinnovabili aggiunti nel 2024), l’Italia, come ogni altra democrazia, ha di fronte a sé la sfida della partecipazione, che in questa epoca si traduce nel problema: come navigare il rigetto diffuso nei confronti delle nuove infrastrutture pulite?
La transizione è una proposta di riscrittura rapida del codice produttivo ed energico del mondo per salvarne e tramandarne l’abitabilità. Per dimostrarsi all’altezza della sfida, le democrazie devono essere in grado di superare la contabilità dei gigawatt, devono recuperare, reintestarsi il discorso sul significato e anche sulla bellezza di quello che stanno (stavano?) provando a fare.
Da sole, scienza, politica e attivismo non ce la potranno mai fare. Sarebbe questo il ruolo fondamentale delle arti, della musica, della letteratura, che in questi ultimi anni invece hanno partecipato al discorso sul clima in modo opposto, costruendo diorami e infografiche sui rapporti Ipcc. La fiction sul clima è stata quasi solo la fiction sul disastro, una versione science approved del catastrofismo alla The Day After Tomorrow.
La battaglia dell’immaginazione
Il campo dell'immaginazione del futuro, di un futuro abitabile, sostenibile, pulito, del quale l’energia pulita è lo Stargate d’ingresso, è un campo artisticamente ancora disabitato. Ed è un problema enorme: vincere la battaglia dell’immaginazione pubblica è importante quanto vincere quella sulla finanza, sulla tecnologia o sulle diplomazia internazionale. Anche perché la lotta alla crisi climatica è tornata nel frattempo a essere una battaglia culturale.
Prendiamo un caso di studio: le ragioni dell’economia fossile sono state espresse perfettamente da un personaggio ideale per lo zeitgeist cripto negazionista contemporaneo, il petroliere interpretato da Bill Bob Thorton nella serie Tv Landman.
C’è una scena in cui parla a raffica a una giovane donna idealista ricordando che il petrolio è dappertutto, «nella strada che abbiamo fatto, nei pneumatici della tua auto, nelle racchette da tennis, nel rossetto, nei frigoriferi, degli antistaminici, nelle valvole cardiache».
Ovviamente nella serie la ragazza rimane senza parole e il petroliere può fare la sua uscita di scena drammatica, dopo aver salvato il suo business a colpi di mansplaining e dopo aver lasciato il pubblico della serie convinto che la transizione ci sta chiedendo un futuro senza strade, pneumatici, tennis, rossetti, frigoriferi, antistaminici e valvole cardiache.
Un legame estetico
Ovviamente non è vero, ma sembra non essere rimasto nessuno a dire che il futuro con la transizione è avere tutte queste cose, ma anche un pianeta in cui le possiamo ancora usare. La clip di quella scena è diventata virale nella sfera Maga, una specie di manifesto del drill baby drill.
E gli altri? Dobbiamo accontentarci di quanto bene Stephen Markley ha predetto gli incendi di Los Angeles in Diluvio. Come ha scritto Marianne Cornelis: «Troppo spesso parliamo di energia come se fosse staccata dalle vite delle persone, ci ossessioniamo su numeri e percentuali, senza chiederci se si riconoscono nella transizione, se si fidano, se la vogliono».
Se la sfida della transizione in Occidente è una sfida democratica, non può non passare anche dal creare un legame estetico, e quindi emotivo, e quindi affettivo, con le nuove infrastrutture e le possibilità che schiudono, possibilità di futuro, protezione cura.
La via europea, stretta tra il caos statunitense e l'autocrazia cinese, finora è stata svolgere i suoi compiti in modo riluttante, senza mai riscuoterne i vantaggi politici. Il risultato del successo nel percorso del taglio delle emissioni al 2030 è stato praticamente ignorato, come se non fosse stato il frutto di un decennio di sforzi, investimenti, lavoro, come se non avesse ripulito l'aria, aiutato gli oceani, schermato i sistemi energetici dagli scenari peggiori. Il paradosso è che hanno avuto infinitamente più successo comunicativo otto ore di blackout in Spagna e Portogallo che un decennio di decarbonizzazione in tutta l’Unione. Ed è anche da qui che si deve ripartire, dal costruire un senso di legame, attaccamento e bellezza nella transizione.
Ferdinando Cotugno sarà a Sphera sabato 21 giugno alle ore 21 in dialogo con lo scrittore e divulgatore scientifico Fabio Deotto su ecologia e ambiente. Sphera. Visioni circolari per il nostro futuro, si svolgerà da venerdì 20 a domenica 22 giugno a Tones Teatro Natura, Oira Crevoladossola (VCO). La stagione di Tones Teatro Natura prosegue fino a domenica 7 settembre tra musica, teatro, danza, performance, attività outdoor, food e incontri con esponenti del mondo della cultura nell’ex cava di granito incastonata ai piedi delle Alpi nella Val d’Ossola. Tra i tanti ospiti: Caterina Barbieri, Amaro Freitas, Tony Hadley, Matteo Lancini, Joan Thiele, Vittoria Yeo, Edoardo Vigna.
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